La guerra in Ucraina ha fornito più volte occasione di parlare della città Ucraina di Leopoli, vicino al confine polacco, teatro di duri scontri tra tedeschi e russi nella seconda guerra mondiale. La zona, in territorio russo, fu occupata a lungo dalle truppe germaniche che vi localizzarono anche alcuni campi di concentramento in cui furono rinchiusi ebrei e militari italiani che avevano rifiutato di arrendersi alle forze armate naziste dopo l’8 settembre.
Più di mille di loro (secondo le truppe russe che rioccuparono la zona circa 2000) furono veramente trucidati dai nazisti e gettati nelle fosse comuni? La domanda ha avuto fino ad oggi una risposta solo parziale e, ad avviso di molti, non esauriente: vale forse la pena di ricordare la vicenda anche perché non si perda la memoria di quei tanti morti senza nome e senza sepoltura.
Si trattò veramente di un massacro o non piuttosto dell’insieme di tante morti, per cause diverse, di militari italiani, avvenute nella zona? Il caso ebbe origine nel 1962, con la pubblicazione del libro dello scrittore polacco Jacek Wilezna, (tradotto in italiano ed edito in Italia nel 1964 con il titolo “Le tombe dell’A.R.M.I.R.”) in cui si sosteneva che alcuni dei nomi di militari italiani facenti parte dell’ARMIR risultavano erano stati fucilati dai tedeschi a Leopoli e di loro era stata trovata traccia tra i sepolti in fosse comuni. Una indagine disposta dall’allora Ministro della Difesa Andreotti sottopose ad attenta analisi il contenuto del libro per concludere che le informazioni in esso contenute non erano attendibili in quanto non risultava la presenza nella zona di reparti dell’ARMIR ed erronea era l’indicazione dei nomi degli ufficiali indicati come uccisi dai nazisti. Nel 1975 la dottoressa Valeria Razzini Morelli, responsabile della C.R.I. in Polonia affermò, in un suo rapporto, che la quasi totalità dei militari italiani internati nei campi di concentramento di Leopoli erano morti per malattia, malnutrizione, bombardamenti e stenti, pur senza escludere che vi potessero essere stati casi di fucilazione.
A questo punto tutto diventò incerto: il Ministro della Difesa italiano accertò che comunque quei militari deceduti ben difficilmente avrebbero potuto fare parte dell’ARMIR, come indicato nel libro ricordato, in base alla sequenza temporale dei combattimenti e della ritirata delle truppe italiane, non coincidente con le date indicate dallo scrittore polacco. Si trattava veramente di un ennesimo crimine nazista o non piuttosto di mettere una pietra (tombale) sopra la sorte di almeno una parte dei tanti militari italiani dichiarati dispersi in terra russa?
Nel 1987 l’agenzia sovietica di informazioni TASS tornò sull’argomento: un gruppo di studenti russi, in visita di studio, aveva trovato nella zona alcune uniformi militari italiane e resti di corpi seppelliti in fosse comuni nelle vicinanze dei campi di concentramento di Leopoli, divenuto al termine della seconda guerra mondiale territorio russo in quanto annesso all’Ucraina. La notizia divulgata in Italia, suscitò grande impressione: alcuni ritennero che si era trovata finalmente la prova della strage nazista, altri sostennero invece che si trattava di un tentativo russo di minare i rapporti tra Italia e Germania, ambedue membri della NATO, per indebolire l’alleanza.
Arrigo Boldrini, presidente dell’ANPI, ricordò le interrogazioni in proposito presentate da membri del Parlamento comunisti e restate senza risposta ed affermò che all’epoca in cui sarebbero avvenuti i decessi dei militari si trovavano ancora nella zona alcuni reparti dell’ARMIR al comando di un generale di divisione: una donna polacca testimoniò di avere assistito all’eccidio degli italiani, fucilati presso una cava di sabbia: i corpi erano stati poi incendiati e ricoperti di terra.
Spadolini, all’epoca Ministro della Difesa, istituì una commissione per l’accertamento dei fatti: di essa facevano parte alcuni parlamentari (il deputato Tommaso Bisogno ed il senatore Angelo Pavan) il capo di stato maggiore dell’esercito, alcuni ufficiali, ed un gruppo di studiosi, alcuni dei quali reduci dal fronte russo (Giulio Bedeschi, Lucio Ceva, Romarin Reinero, Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern) Primo Levi, invitato a far parte della commissione, declino l’invito.
La commissione lavorò più di un anno, ascoltò testimonianze, raccolse documenti e alla fine pervenne a risultati non unanimemente condivisi dai suoi componenti. La maggioranza di essi ritenne non provato l’eccidio, pur non giungendo ad identificare con esattezza la causa dei decessi, dato il tempo trascorso, i nomi e le vicende particolari dei più di mille morti.
Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli e Lucio Ceva presentarono invece una relazione di minoranza in cui dichiaravano di ritenere troppo affrettate le conclusioni della commissione, visto che molti documenti erano stati consultati solo all’ultimo momento o che ne esistevano certamente altri.
La relazione il 6 giugno 1988 fu trasmessa al parlamento dal Ministro della Difesa Valerio Zanone ma le polemiche non si placarono: non appariva possibile che non si potesse ricostruire la storia di tanti militari italiani colpevoli solo di non essere schierati con i nazisti.
Trascorsero quattro anni: il 23 aprile 1992 il socialista Aldo Aniasi, presidente della Federazione Italiana Associazioni Partigiane (socialisti, azionisti, laici) presentò alla Camera dei Deputati una proposta (doc.XXII,n.3) di inchiesta parlamentare sulle vicende relative agli internati militari italiani e sugli eccidi degli internati avvenuta alle Leopoli nel 1943/44. Nella relazione che accompagnava la proposta il numero degli internati militari viene indicato in 700-800.000 rinchiusi nei vari campi di concentramento nazisti dell’Europa centrale ed orientale: di molti di loro non si era saputo più nulla. Aniasi proponeva una indagine di vasta portata sulla loro sorte: la richiesta restò senza risposta e la proposta non fu mai esaminata dalla Camera dei deputati.
Sono passati gli anni e sull’eccidio di Leopoli è calato l’oblio, anche se è molto probabile, in base ai documenti raccolti a suo tempo dalla Commissione, che fucilazione da parte dei nazisti vi furono, pure se è difficile raccoglierne le prove inconfutabili. Intollerabile è che, come accadde per i crimini nazisti dell’armadio della vergogna (fascicoli di crimini nazisti restati ben chiusi in un armadio della procura militare) nessuno abbia indagato a fondo sulla sorte di centinaia di migliaia di italiani.
Leopoli, teatro della grande battaglia tra mezzi corazzati al termine della seconda guerra mondiale terminata con la sconfitta nazista, è oggi nuovamente zona di guerra: una terra decisamente sfortunata.
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