SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE PARTE 5

L’attenzione sociale, a tredici mesi dalla deflagrazione della guerra, ha disgraziatamente appannato il senso della tragedia generale, formata da tragedie individuali dei singoli “universi” racchiusi in ogni essere umano, perché si è cristallizzata in congetture su inalterabili identità collettive. Si è stratificata la divisione classica dell’analisi dei fatti con una copiosa immissione di “non” informazioni, sostanzialmente esogene alle ragioni storiche, sociali, economiche, religiose che hanno provocato la “lunga” guerra che si è infine esternata nella invasione russa dell’Ucraina.

Viviamo “in diretta” gli effetti della comunicazione immediata e, per la stessa natura dei mezzi usati, forzatamente approssimata e sostanzialmente ambigua, secondo la quale è la comunicazione che produce realtà. Nel caso specifico la stessa comunicazione diventa parte integrante della guerra ibrida perché indirizza la competizione geostrategica.

Gli effetti sono immediatamente visibili: Russia, Cina, Stati Uniti e stati membri dell’Unione Europea, Gran Bretagna, nonché Brasile, India, Ucraina ed altri ancora proiettano sui mezzi di comunicazione di massa un racconto che si pretende coerente alla relazione tra eventi, secondo schemi neo-ideologici che, nella loro molteplicità, non aiutano ad imboccare strade razionali per risolvere la crisi.

Occorre fare attenzione a non confondere l’effetto dello stallo con il mezzo, considerato causa determinante. Non è responsabilità dei social media, dell’informazione radiotelevisiva continua, della trasformazione dei programmi di approfondimento in talk show frenetici, spasmodicamente alla ricerca di audience con smarriti “esperti” provenienti dalla Diplomazia, dalle Università, dalla riserva delle Forze Armate: generalmente ottimi professionisti chiamati a rispondere in manciate di minuti, spesso di secondi, a questioni complesse bisognose di adeguati riferimenti.

Il corto circuito della comunicazione che diventa realtà alla fine incoraggia, secondo i vari punti di vista o interessi, ad una staticità delle opinioni che si congelano nella analisi geopolitica classica dei conflitti.

Faccio un esempio. Alla mancata decomposizione critica, tipica della staticità dell’analisi geopolitica classica sul conflitto innestato dall’invasione russa dell’Ucraina, corrisponde la mancata attivazione di una memoria collettiva sui rischi del reiterato mancato rispetto del diritto internazionale. Vengono così generate false aspettative sulla durata del conflitto, sul suo allargamento, sulle future crisi economiche.

“Bombardare” le popolazioni del pianeta con informazioni incongrue, inesatte o semplicemente inventate, significa partecipare incoscientemente ai conflitti.

Continuare, ad esempio, a declamare con generoso ed indignato stupore, in alcuni editoriali, il vertiginoso aumento della spesa in armamenti quale causa e non effetto di una guerra genericamente definita mondiale, esclude le motivazioni materiali ed immateriali effettivamente determinanti nella genesi dei conflitti. Eppure, nella loro mobilità ed eterogeneità le élite centrali e periferiche degli stati interagiscono effettivamente nello sviluppo delle crisi, specialmente laddove il continuo richiamo al post-guerra fredda ed alla scomparsa, assieme alla errata concezione della fine della storia di Fukuyama, dell’“0rdine” globale, espresso dalle interrelazioni finanziarie e commerciali, esclude un realistico approccio geopolitico delle relazioni internazionali ed il perseguimento della pace.

L’Ucraina ben dimostra che mal ricordare la Storia e sottovalutare l’evidenza dei singoli e molteplici interessi riduce le possibilità di soluzione dei conflitti ad un rapporto tra stati (magari classificati tra autocrati e democratici) da indirizzare difficoltosamente al compromesso diplomatico, all’appeasement. Ed infatti non si trova soluzione alla guerra, chiamata non guerra ma “operazione speciale”, se non suggerendo- in nome della sopravvivenza fisica degli occupati- che i vessati e la comunità internazionale accettino il dato di fatto che una potenza nucleare, in più “scudata” dal diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è per suo statico ed eterno status esonerata dal rispetto dagli obblighi del diritto internazionale perché portatrice dei benefici della forza.

Così non si arriva da nessuna parte. Ricordo che immediatamente prima dell’inizio dell’invasione una inchiesta di Foreign policy rivelò che, contrariamente alla grande maggioranza degli Stati, delle loro diplomazie, degli Stati Maggiori, della Stampa, la maggioranza degli esperti (362) di relazioni internazionali interpellati, il 56% per la precisione, sostenne che l’invasione era probabile. Soltanto quarant’otto ore prima dell’ingresso delle truppe russe sul territorio ucraino l’intelligence anglo-americana notò l’ammassamento alle frontiere e lanciò l’allarme.

Gli “esperti” di politica internazionale avevano usato la conoscenza della storia e delle crisi diverse dei due sistemi per leggere correttamente la realtà. A questi esperti “togati” aggiungo volentieri alcuni giornalisti di frontiera, tra i quali, uno per tutti, ricordo Fausto Biloslavo.

Eppure, questa guerra durava da più di dieci anni prima dell’invasione.

Abbiamo già, seppur sinteticamente, letto come il movimento indipendentista in Ucraina vanti una lunga storia, quanti errori e sottovalutazioni occidentali si siano susseguite dalla indipendenza del 1991 alla denuclearizzazione e al memorandum di Budapest; abbiamo avuto modo di osservare la faticosa desovietizzazione della Russia da Gorbačëv a Él’cin. La crisi dello spazio post sovietico , strettamente connesso a quello russo, trae anche origine dalla difficoltà di superare le contraddizioni ed i limiti del lento sviluppo economico conseguente al fallimento del comunismo, nonostante un’attitudine propositiva del sistema occidentale.

Cambiando le usuali lenti potremmo cercare di leggere una progressione degli infausti avvenimenti non limitandoci esclusivamente allo spirito di potenza, al pur vero timore di accerchiamento, al bisogno di navigazione in acque non eternamente fredde, al richiamo identitario della “madre” Russia potenza militare, religiosa, culturale. Potremmo leggere la crisi con la più importante Repubblica ex sovietica, l’Ucraina, attraverso il fallimento della Comunità di stati indipendenti (CSI) ereditata nel 2000 da Putin, come causa importante tra le altre, dei due diversi destini scelti dalle diverse oligarchie sostenitrici dei governi di Mosca e di Kyiv.

Sin dal 1994 l’Ucraina firmò, prima tra gli Stati dell’Europa centrorientale, un Accordo di partnership e collaborazione con l’Unione Europea, alla quale voleva legare il proprio sviluppo. La responsabilità della UE è nota: per un decennio, su pressione specialmente della Germania seguita dalla Francia, quell’Accordo fu lettera morta per non aggravare l’evidente crisi della Russia in rapporto ad uno stato che, comunque, si riteneva ancora partecipante all’area di influenza moscovita.

I primi presidenti ucraini, Kravčuk e Kučma, appartenenti alla vecchia nomenklatura sovietica, pur barcamenandosi tra le esigenze del potente vicino e il vigoroso movimento nazionalista, preservarono il riconoscimento della inviolabilità dei confini; Kučma agì contro il movimento indipendentista della Crimea, sostenuto dai russi, ma trovò l’accordo sulla dislocazione della flotta con la concessione del porto di Sebastopoli e riuscì a far approvare la prima Costituzione ucraina ( 1996); durante la presidenza del Consiglio dei ministri della Russia di Kas’janov, col quale Kučma ben s’intendeva, avviò la privatizzazione dell’economia, della quale profittarono ex membri della nomenklatura che furono da subito industriali e leader politici, a guida cadauno o di un proprio partito o di una fazione determinante di un partito più grande ed influente.

La sempre più veloce caduta di popolarità e consenso di Leonid Kučma iniziò con un omicidio, quello di Heorhij Gongadze, un fiero giornalista nato da padre georgiano e madre ucraina a Tblisi. Dopo aver rafforzato la sua notorietà con riuscite inchieste sul coinvolgimento di poteri economici gestiti dagli oligarchi e il potere politico diretto da Kučma, in accordo coi russi, Gongadze fondò a Leopoli un sito di informazioni << Ukraïns’ka Pravda>> ma il 16 novembre del 2000 scomparve e soltanto il 3 novembre il suo corpo decapitato fu trovato in un bosco vicino a Kyiv.

Il 28 novembre l’esponente del partito socialista Oleksandr Moroz rese pubbliche alcune registrazioni che gli erano state consegnate da alcuni agenti dei servizi segreti, nelle quali una voce somigliante a quella del Presidente Kučma si dilungava col ministro dell’interno ed il Direttore (noi diremmo il Segretario generale) della Presidenza sulla organizzazione del rapimento di Gongadze. A poco valsero le smentite ufficiali. Lo scandolo fu enorme, aggravato dal blocco delle indagini. Nacque un movimento di protesta “Ucraina senza Kučma” che organizzò manifestazioni nella centrale piazza Indipendenza, in ucraino Majdan Nezaležnosti, mentre i paesi occidentali iniziarono a prendere le distanze dal governo rafforzando i propositi riformatori del “movimento”. Le manifestazioni, non violente, crebbero di numero e per la partecipazione, finché nel marzo del 2001 iniziò la repressione della polizia ed ebbe inizio un patriottismo non più legato a principi etnici ma a quelli dettati dal comune, unificante, civile, senso di cittadinanza. Lo scontento della protesta si trasformò e divenne azione politica, argomentata, illustrata, difesa per l’opera coraggiosa di una nuova generazione di giornalisti che si sentivano, ed erano riconosciuti, eredi di Gongadze. Kučma non riuscì a mantenere con la forza il potere, tornò sulla scena un ex primo ministro, Viktor Juščenko con un nuovo schieramento, Naša Ukraïna (Nostra Ucraina) che il 31 marzo 2002 ottenne la maggioranza relativa e non assoluta al Parlamento perché non era riuscito a creare una coalizione di governo con atri partiti, specialmente quello di Julija Tymošenho, una donna d’affari di Dnipropetrovs’k, leader di un partito, Bat’kyvščyna (Patria), in conflitto con Kučma. Fu il governatore della regione industriale di Donec’k, Victor Janukovyč, a guidare il governo.

Victor Janukovyč non passava per politico particolarmente dotato di intuito e d’esperienza, ma come uomo di fiducia di Rinat Acmetov, il capitalista più ricco del paese grazie all’estrazione del carbone ed alla lavorazione dell’acciaio. La Presidenza Janukovyč durò due anni fino alle elezioni del novembre 2004. Per il decennio a venire, cruciale per i destini dell’Ucraina e per lo squilibrio mondiale che susseguì, i tre politici Juščenko, Tymošenho e Janukovyč furono i principali protagonisti.

La storia di elezioni truccate, di attentati, di imprigionamenti e scarcerazioni, di repressioni e manifestazioni popolari, di referendum non riconosciuti legittimi e viziati da brogli, di invasione della Crimea, di reazioni oggi considerate “morbide” del presidente Obama, di ingerenze russe addirittura nelle elezioni statunitense, riempirebbe non una lezione, un saggio, ma un’intera biblioteca.

Limitiamoci a valutare alcuni elementi che sfuggono generalmente all’attenzione.

Cerchiamo di inquadrare la crisi del multipolarismo e l’efficacia dell’ONU, l’organo principale del pianeta per difendere e promuovere la Pace, lo Sviluppo, l’esercizio dei Diritti dell’Uomo, correlandola alla irrisolta crisi provocata dall’implosione del comunismo.

Partiamo da una analisi di numeri in eterno movimento, quelli che si riferiscono all’esercizio del diritto di veto e alle motivazioni che lo hanno accompagnato.

Esercizio del diritto di veto dal 1990 al 1999

Stati Uniti – 5- ( Territori arabi occupati)

Russia – 2- (Cipro, Bosnia)

Cina -2- (America Centrale, Macedonia)

Esercizio del diritto di veto dal marzo 2001 a giugno 2009

Stati Uniti -10- (Medio Oriente e questione palestinese)

Russia. – 2- (Cipro, Georgia)

Cina e Russia-2- (Myanmar, Zimbabwe)

Esercizio del diritto di veto dal 2011 (febbraio) al 2022 (febbraio)

Stati Uniti -4- (Medio Oriente, questione palestinese)

Russia -12- (Medio Oriente, Ucraina)

Cina e Russia-12- (Medio Oriente e Siria)

L’analisi dei numeri fotografa tre stadi accelerati dei cambiamenti politici, strategici ed economici del mondo.

Nel primo stadio, che corrisponde sostanzialmente alla dissoluzione dell’URSS, alla nascita delle nuove Repubbliche, alla confermata autonomia ed indipendenza dell’Ucraina, al tentativo di avviare nuove politiche economiche per compartecipare allo sviluppo produttivo, Russia e Cina non formavano un blocco comune e, particolarmente la Russia, impegnata nella sanguinosa repressione del tentativo ceceno di secessione, solidarizzava con l’Occidente nella lotta al terrorismo.

Nel secondo stadio si entra nel periodo critico delle nuove democrazie post-sovietiche che, soffrendo la alterità tra le istituzioni di democrazia rappresentativa e partecipativa e l’influenza diretta ed indiretta del governo russo, significativamente in Ucraina, Georgia e Kirghizistan, affrontano le conseguenze delle proteste popolari. I movimenti di protesta acclarano l’instabilità dei regimi ma non incidono sulla loro natura oligarchica. La generosità protestataria delle rivoluzioni arancioni si evolve o, meglio, si stempera nel compromesso operativo rappresentato in Ucraina da Victor Janukovyč il pro-russo rappresentante dell’oligarchia del Donbas, che fu primo ministro dal 2002 al 2005, dall’estate del 2006 al dicembre del 2007, Presidente dal 2010 alla fuga del 2014. Ho scritto “pro russo”, in realtà la guerra ha dimostrato che nelle oblast più industriali dell’Ucraina, protagoniste del non riconosciuto referendum che aveva illusoriamente sancito la loro secessione da Kyiv, pro-russo significa, per una parte rilevante anche se minoritaria della popolazione, pro-sovietica; un sovietismo non ideologico ma memoria di un passato considerato economicamente soddisfacente rispetto ad altre regioni dell’Ucraina, un po’ come accade tuttora in Italia ad esempio nella provincia di Latina dove la memoria corre ai fasti della bonifica piuttosto che al disastro politico ed etico del fascismo.

Sempre in questo periodo la Russia cercò di innestare la sua economia nel circuito occidentale e come sappiamo, a posteriori, non riuscendoci, perché troppo largo era il divario provocato dal comunismo, mentre Putin tentava di integrarsi nel sistema delle relazioni internazionali domandando una legittimazione della propria sfera di influenza. Come sempre la realtà, se viene ignorata, supera i programmi e le volontà. Non era possibile superare il sovietismo imperiale mettendo tra parentesi il peso economico, sociale e dei diritti imposto per tanti decenni e nel 2004 Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania e Slovacchia entrarono nella NATO. I paesi baltici e la Slovacchia entrarono sempre in quell’anno nella UE, seguiti, tre anni dopo da Romania e Bulgaria.

Credo sia opportuno soffermarsi sulla integrazione nella NATO e nella UE di stati frontalieri della Russia che non fu percepito dal governo Russo come “accerchiamento” della potenza nucleare o della sua sfera d’influenza. Alcuni hanno tratto la conclusione che la dichiarazione , all’epoca, di Putin che la linea rossa sarebbe stata valicata con l’entrata nella NATO di Georgia e Ucraina significasse la sottolineatura della speciale identità che la madre Russia riservava ai due stati e, poiché, come ha sottolineato il professor Andrea Graziosi, lo storico contemporaneo della Federico II di Napoli riconosciuto a giusto titolo uno degli studiosi più attenti alla storia sovietica e post sovietica della Russia, “ Putin è una persona che fa quello che dice”, dovrebbe essere chiaro che la guerra è una legittima “operazione speciale” ampiamente prevedibile e dotata di intrinseca legittimità, se non altro per il precedente dell’invasione della Georgia nel 2008.

Queste deduzioni sono falsamente logiche perché si basano su presupposti di analisi rigide, anacronistiche, avendo a parametro la metodologia compensativa dell’antagonismo spartitorio della Guerra Fredda. Anzi è interessante notare come persone di indubbio spessore culturale, etico, penso tra gli altri ai professori Cacciari, Canfora, Romano proponendo, in ragione del risparmio delle vite e del peso delle distruzioni e della crudeltà perpetrate sulle popolazioni inermi, la sospensione dell’invio di armi e genericamente il sostegno occidentale all’Ucraina, ricalchino schemi del cold war oggi sorpassati come l’eurocentrismo e il neo colonialismo che inevitabilmente furono il corollario della seconda guerra mondiale nonostante il processo di decolonizzazione ancien regime. L’Unione Europea attuale, fors’anche meglio caratterizzata dalla dolorosa Brexit, è estranea – seppur in modo contraddittorio come rilevato dal presidente Macron- a forzati appeasement che attendando alle libere scelte degli Stati che coinvolgano l’Unione in politiche imposte dalla forza e dai poteri economici. Aver superato il fine ultimo del business as usual nelle relazioni internazionali, intese come prioritariamente relazioni commerciali, è stata una grande sorpresa soltanto per chi intende la geopolitica non soltanto una scienza ma per di più una scienza tanto classica quanto ripetitiva nei suoi parametri di riferimento. Invece se lo studio e la proposta nella politica internazionale si affidano alla decostruzione dei molteplici campi che contraddistinguono la realtà contemporanea e la loro riaggregazione, non più secondo postulati anacronistici, è più facile comprendere come l’efficacia, giustamente da alcuni prevista nel medio termine, delle sanzioni; la conquistata, in un tempo celere, autonomia energetica dalla Russia; e soprattutto la comprovata validità di quell’arma letale che è il price cap studiato, proposto e fatto accettare da Mario Draghi, indicano in una quasi irrisolvibile questione interna russa la ragione prima, assieme ad altre compreso il nazionalismo identitario storico, culturale e religioso aggravato dalla crisi demografica delle etnie europee, la molla dell’inesorabile tagliola che blocca la pace e la sicurezza.

Dalla integrazione alla alternativa di civiltà, il passo è stato penoso e breve.

Nel terzo stadio, dal 2011 al 2022, la crisi interna russa minò la solidità della democrazia autoritaria, soprattutto per la voragine aperta dalla cospicua caduta di valore delle attività economiche, seguite alle significative contrazioni dei volumi degli scambi provocati dall’esplosione delle bolle finanziarie del 2008/9. Lo leggiamo chiaramente nel numero dei veti posti nel Consiglio di Sicurezza, comparando l’interesse cinese e quello russo con le politiche statunitensi.

Il molto applaudito presidente Obama avendo spostato l’interesse statunitense al quadro asiatico agevolò l’interesse cinese ad evitare oramai probabili isolamenti accentuando una, a volte inedita, collaborazione con la Russia ed infatti son ben 12 i veti che Pechino cofirma con Mosca. Il governo russo da solo 12 volte pone il suo veto a risoluzioni che, spesso sollecitate dall’Assemblea, coinvolgono la sua presenza in Ucraina, in Siria, in Africa.

Non è frutto acido della guerra in corso la creazione di un campo antioccidentale in generale, antiamericano in particolare, che coinvolgendo stati africani, asiatici, medio orientali è oramai genericamente paventato come alfiere di una coalizione di autocrazie opposta a quella, tra virgolette, NATO, quasi a prefigurare per gli anni a venire una nuova e forse letale guerra fredda, figlia non di uno scontro di civiltà ma di difficilmente gestibili livelli disparati di sviluppo.

La Pace tanto necessaria, tanto agognata, non potrà essere umanitaria o rivoluzionaria dovrà, deve, essere possibile. Ecco perché nel lavoro di decostruzione e ricostruzione, arrivati a capire che Zelensky non è l’espressione di un errore della storia; che l’economia, nella forzata era della globalizzazione, si è riappropriata drammaticamente dei valori umani che la tecnocrazia finanziaria aveva nel corso del tempo espropriato; che la gestione dei limiti insuperabili nel presupponibile non breve tempo che ci separa dal cessate il fuoco e dalla minaccia nucleare abbisogna della individuazione condivisa dei limiti; occorrerà dedicare spazio, tempo e riflessioni ai tanti attori che concorrono alle auspicate soluzioni della guerra .

(5 – continua)


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