GIUSEPPE DE MITA
Nel corso della passata esperienza parlamentare, mi è capitato di partecipare a due elezioni del Presidente della Repubblica: quella della riconferma di Napolitano e la prima elezione di Mattarella.
Ho avuto modo di vedere da vicino e per due volte, in un arco di tempo ravvicinato, quali siano le dinamiche, le ritualità, i luoghi ufficiali e quelli informali, le sedi delle vere decisioni e quelle dei finti protagonisti.
Essendo alla mia prima esperienza, pensavo che molte cose fossero determinate da condizioni contingenti, dalla collettiva inesperienza di tanti parlamentari neoeletti o da quel grado di approssimazione che negli ultimi tempi è diventata caratteristica della politica.
Diversi episodi mi parevano suggerire conferme per questi pensieri.
La mattina in cui fu proposto il nome di Prodi, incontrai un esperto parlamentare del PD, noto per essere stato un grande organizzatore nella Margherita. Gli espressi un mio dubbio: cosa avrebbe fatto il PD per non bruciare Prodi nel caso, probabile in base ai numeri, che non fosse stato eletto in quello scrutinio. Mi rispose che ne era consapevole, ma non ne aveva la minima idea.
In una riunione dei gruppi congiunti di Scelta Civica, con il PD in grande difficoltà, sentii sostenere da un senatore, notoriamente serio e responsabile, che occorreva agire in modo da acuire la crisi del PD, per poter essere determinanti nella indicazione del nuovo presidente.
Quando arrivò la notizia della candidatura di Marini, ricordo l’atteggiamento sprezzante di tante persone mature e dal limpido passato democristiano, che, prese dal vortice dei social, ritenevano inaccettabile votare un personaggio espressione del vecchio, inconsapevoli di esprimere così un giudizio su sé stessi.
Fabrizio Cicchitto più volte, nei giorni successivi all’elezione di Mattarella, raccontò ai suoi vicini di banco in aula i passaggi e i personaggi che avevano portato l’intero gruppo di Alternativa popolare e l’allora Ministro dell’interno a sbandare sensibilmente prima di convergere sul nome proposto da Renzi: ometto i dettagli, ma pareva di ascoltare la rappresentazione di un’opera di Durrenmatt, più che il racconto di vicende politiche nostrane.
Ho poi qualche racconto riferito, ma di tenore non dissimile. Mio zio Ciriaco mi disse che dopo aver proposto ai gruppi parlamentari della DC il nome di Cossiga, lasciò la riunione e andò a casa. E lì passo il pomeriggio e la sera, senza che nessuno lo chiamasse per riferirgli dell’esito, tanto da fargli insinuare il dubbio che la sua proposta non fosse stata condivisa.
A questo riguardo, da un altro protagonista dell’epoca, mi è stato raccontato che quella riunione si concluse con una votazione segreta per verificare quanti fossero d’accordo o meno sulla proposta di Cossiga. I parlamentari, dopo il voto, andarono via alla spicciolata, così lo scrutino avvenne davanti a pochi presenti, sotto il controllo di Misasi. L’esito, benché positivo, non fu entusiasmante. I presenti però si accordarono per comunicare un risultato diverso più favorevole. Questo espediente probabilmente scoraggiò qualche fronda interna di franchi tiratori, che la mattina dopo si allinearono alla posizione ufficiale del partito.
Tutto questo bagaglio di ricordi, che avevo conservato in modo sparpagliato, ha avuto l’opportunità di trovare un suo ordine e una sua logica grazie alla lettura del pregevole libro “Il Colle più alto” di Mario Pacelli e Giorgio Giovannetti (Giappichelli, 2023), con la prefazione di Giuliano Amato, che è stato da poco pubblicato in una nuova edizione, rivista e aggiornata con due nuovi capitoli, uno dedicato a Napolitano, l’altro a Mattarella.
Il libro, nella sua prima parte, con una prosa lineare e gustosa propone una ricostruzione storica, breve ma estremamente precisa ed essenziale, delle fasi che hanno preceduto l’elezione dei Presidenti della Repubblica. Velocemente si ha la possibilità di avere una visione d’insieme delle traiettorie che convergono e divergono sino ad arrivare alla scelta finale.
Sono diverse le suggestioni che ho ricavato dalla lettura, proverò a esporne qualcuna. Per quanto sia convinto che ogni lettore, anche a seconda della propria sensibilità o conoscenza, potrà ricavare oltre e meglio da una lettura che si presta naturalmente ad essere trampolino efficace per altre riflessioni.
Sotto un certo aspetto, ne ho ricavato il rafforzamento del convincimento che in politica a dominare la comprensione degli eventi sia la cultura storica, più che la politologia. E la cultura storica è costituita dalla lettura e dalla conoscenza dei fatti e dei comportamenti umani che, con le loro molteplici e a volte irrazionali motivazioni, determinano gli eventi.
Nell’aiutarmi a mettere in ordine i miei ricordi, i racconti del libro hanno poi riproposto all’attenzione un tratto specifico dei successi e degli insuccessi nelle vicende politiche, sul quale, specie di recente, sto riflettendo molto: ad un certo punto, l’elemento determinante non è più, o non è solo, la qualità del pensiero ma anche la qualità umana individuale e dei rapporti personali dei protagonisti.
Devo dire che provo a contraddire questo pensiero, che mi pare a volte banale, riduttivo, romantico e illusorio. Eppure, per quanti argomenti contro riesca ad individuare, ne trovo altrettanti a favore.
Del tutto causalmente, e di certo ben al di là della volontà e delle intenzioni degli autori, il loro racconto mi ha riproposto questa questione. Quella del salto di qualità degli eventi che talora si riesce a determinare solo per la circostanza che in quel momento, quella tale persona o quel gruppo di persone, decide di assumere un comportamento che riesce a coniugare un disegno politico con la qualità politiche e personali.
Come De Gasperi che rompe gli indugi anticipando l’esito del referendum sulla Repubblica; o lo stesso che imbraccia uno scontro con De Nicola (e con la stragrande maggioranza della DC) per dare vita nel 1947 al primo governo senza il PCI. E il mio pensiero va subito a quei dotti politici contemporanei che discutono sullo spazio politico disponibile che sarebbe la precondizione perché un ideale o un disegno possa realizzarsi, ignorando che la storia ci insegna appunto che di solito avviene il contrario.
Ad ogni modo, colpisce nel dettaglio dei racconti intercettare la storia che si fa, momento dopo momento, sino a comporre un quadro più generale, che nel suo definirsi sembra quasi accidentale, nell’intreccio dei piani che passano dalle scelte che coinvolgono i vertici delle istituzioni a quello delle questioni relative alle relazioni e ai rapporti tra singoli individui e alle loro vicende personali.
Credo poi che il libro, nel ricostruire nelle parti successive la storia dell’assetto amministrativo, aiuti molto a comprendere meglio il ruolo ed il rilievo della Presidenza della Repubblica.
E ciò non solo per offrire un ulteriore spunto per spiegare le ragioni per le quali resta l’istituzione più apprezzata dagli italiani, ma anche per indagare meglio e più a fondo il modo di essere e di agire di questa istituzione.
In una certa vulgata, se non superficiale, sicuramente poco approfondita, si continua a ragionare muovendo dall’assunto che le prerogative costituzionali del Presidente sarebbero troppo leggere e vaghe e sarebbe necessario un loro rafforzamento, se non addirittura una profonda revisione dell’istituto.
Gli elementi storici e giuridici che offre il libro rendono meglio comprensibile l’interpretazione secondo la quale i poteri del Presidente sarebbero come una fisarmonica, in grado di espandersi o di ridursi a seconda della volontà o delle condizioni, e, dunque, in grado di adeguarsi alle evoluzioni del contesto politico e istituzionale.
Da questo punto di vista, il testo funziona anche meglio di un saggio di diritto costituzionale, proprio perché aggancia ai fatti storici alcune considerazioni giuridiche.
Viene così esaltata la singolarità della nostra Presidenza della Repubblica, mettendo in un nitido cono di luce quali siano le numerose caratteristiche che la rendono preziosa, pur in modo che resta opportunamente lontano dalle discussioni dell’attualità politica. E forse proprio per questo con un risultato ancora più efficace.
Certo, i tempi sono prematuri perché si parli di una uova elezione, ma mi sentirei di suggerirne la lettura innanzitutto ai cosiddetti grandi elettori, non per dileggio o scherno, ma, come detto, per fare esperienza.
Perché in un qualche modo occorre tornare ad imparare dalla storia che l’azione politica non è la rincorsa ad un’astratta quanto improbabile perfezione ideologica, alla quale tanto può essere sacrificato, ma piuttosto è un modo di rendere concreta la vita e qualche volta, attraverso le scelte o le decisioni personali, per dare forma reale alle aspirazioni di idealità.
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