VITE VISSUTE TRA DUE MONDI: PATRICK
EUGENIA PAGANO
E’ un sabato pomeriggio e la mia amica Vanda insieme a Patrick mi aspettano seduti ad un tavolino del bar Patria in piazza Castello a Torino ed essendo in lieve ritardo parcheggio vicino al marciapiede per non perdere ulteriore tempo scendo veloce dall’auto li raggiungo. Abbraccio e bacio,come sono solita fare, la mia amica che subito mi presenta il ragazzo della storia di oggi.
Ha una bella stretta di mano, uno sguardo profondo ed un sorriso smagliante pronto per l’intervista ma io preciso che non ho che un’unica domanda :il racconto della sua vita e così inizia.
Mi chiamo Patrcik sono nato l’ 1 agosto a Kinshasa nella Repubblica democratica del Congo, la mia famiglia d’origine era composta da me e mia madre perché mio padre essendo straniero viene allontanato e mandato al proprio paese e per questo non l’ho mai conosciuto ma non mi è mancata la figura paterna in quanto mamma Anne conosce un uomo da cui ha due figlie: Patricieu e Giselle le mie sorelle e tutti insieme viviamo in un appartamento nel cuore della città.
Io studio regolarmente fino a conseguire il diploma in marketing intanto grazie all’ interessamento di una mia cara amica lavoro presso piccola azienda del padre come informatico dopo aver frequentato un corso di formazione.
Intanto prima delle elezioni in Africa la situazione era tesa: oppositore del regime che governa da più di 18 anni c’è un pastore che predica di non cercare persone fuori dal paese e per divulgare questo messaggio e stampare volantini si rivolge alla ditta del padre della mia amica. Ben presto chi dava voce all’opposizione è costretto a scappare e a rifugiarsi in Francia ed io vengo arrestato: inizia così il mio calvario e anche se non avevo colpa la moglie del pastore ha dovuto pagare per farmi uscire dal carcere con la giustificazione della malattia, avevo febbre e tremori che sembravano non diminuire neanche con la somministrazione delle medicine, questa mi è sembrata una fuga vera e propria infatti ho potuto lasciare il paese in quanto mi credevano ancora in carcere.
Le settimane della detenzione sono state difficili da accettare: celle piccole e buie, materassi consumati e anche il cibo era poco e di qualità scadente e nonostante io fossi già abituato a mangiare una sola volta al giorno, lentamente mi debilitavo e deprimevo. Inaspettato, ma sperato arriva il giorno della liberazione. Era mattino quando le autorità locali mi fanno uscire di prigione e dopo avermi fornito i documenti mi accompagnano all’aeroporto e parto alla volta dell’Italia. Atterro a Roma dove un signore mi ospita per un giorno e una notte dandomi un letto pulito e cibo in abbondanza. Poi ancora un altro volo con destinazione Torino.
Appena arrivato so di dovermi recare in questura all’ ufficio immigrazioni stanza 14 per la domanda d’asilo dove prendono le impronte e compilano vari moduli prima di lasciarmi al mio nuovo destino
Il tutto sarà formalizzato in seguito dalla commissione riconoscimento per lo stato di rifugiato che all’epoca aveva sede a Milano.
Intanto tra le informazioni ricevute per il mio inserimento mi indicano lo SPRAR che è il sistema di protezione per richiedenti asilo attraverso gli enti locali che garantiscono interventi di accoglienza integrata, che contatterò a breve. Quando esco dalla questura è quasi sera ed io sono un senza tetto in cerca di un posto dove alloggiare. Cammino tra le vie del centro in cerca di ragazzi che parlassero francese perché io nel 2007 non conoscevo ancora la lingua italiana. Non fu facile ma forse per un aiuto divino incontrai un giovane ospite della comunità dei Camilliani che mi porta con lui.
Presso il centro conosco una persona straordinaria: padre Adolfo che mi accoglie e mi segue con determinazione durante il mio percorso torinese e soprattutto durante la malattia perché quel malessere comparso in Africa si ripresenta e ancora febbre e tremore e pensando si trattasse di una malattia tropicale vengo ricoverato all’ospedale Amedeo di Savoia, ma dopo pochi giorni esco e torno in comunità. Questa è una soluzione provvisoria ed allora mi attivo recandomi agli uffici comunali dove ho tutte le informazioni necessarie per il mio inserimento nel progetto di accoglienza che per il mio caso prevede un percorso di integrazione e orientamento lavorativo. Frequento così corsi per l’apprendimento della lingua presso il CPIA, centro provinciale istruzione adulti, di via Bologna e abito in una struttura temporanea Cas godendo anche di un contributo giornaliero. Terminata la scuola, dopo un anno circa dal mio arrivo, trovo lavoro presso un hotel. Sono soddisfatto ma ignaro quello che mi attende.
Non più la febbre ma frequenti mal di testa tanto da entrare e uscire sempre più frequentemente dal pronto soccorso delle Molinette e dopo prelievi di sangue, tac, risonanza magneti scopro di avere un tumore alla testa. I medici mi propongono l’intervento per asportarlo dandomi tutte le informazioni sia sull’operazione che sui tempi lunghi di preparazione. Sono disperato, lontano dalla famiglia e con una diagnosi così violenta che inizialmente rifiuto come se non fosse per me.
Però stavo sempre peggio e in struttura c’erano gli orari delle pulizie e non potevo rimanere a letto come avrei voluto così padre Adolfo mi accoglie nuovamente cercando in ogni modo e con ogni mezzo di farmi operare. Anche un’impiegata comunale che prende a cuore i casi a lei sottoposti insiste perché io mi faccia operare, ma vuoi per il male, vuoi per la disperazione lei è stata il mio capro espiatorio e man mano che mi rendevo conto di quello che avevo aumentava la rabbia che buttavo fuori attraverso pesanti scontri verbali proprio con lei La tenacia di questa donna unitamente alla risolutezza di padre Adolfo mi hanno fatto decidere per la soluzione chirurgica anche se con tanta paura.
Mi ricovero e inizio la preparazione che prevede anche la presenza di uno psicologo, ma per sapere a cosa vado incontro chiedo al medico di poter incontrare qualche paziente operato, cosa fattibile perche un paio erano proprio nella salette tv non lontano dalla mia camera. Vedo teste fasciate e persone poco lucide di mente così alla vigilia del giorno fatidico scappo e mi rifugio da padre Adolfo il quale viene tempestato di chiamate dall’ospedale in quanto la situazione era più grave di quanto io potessi pensare e richiedeva un rapido intervento perché la massa tumorale si era ingrandita notevolmente.
Ed è qui che il padre Camilliano insieme al medico adottano una strategia per convicermi a tornare in ospedale. Una piccola bugia a fin di bene e cioè mi fanno credere che non ci sarebbe stata una vera e propria ferita ma che avrebbero aspirato il tutto in maniera poco invasiva e così do il mio consenso ma avrei voluto mia madre con me. La premurosa impiegata si attiva e, richiede il nullaosta alla prefettura tuttavia i tempi dell’Ambasciata sono lunghi tanto che mamma arriva in ritardo a fatto compiuto lasciando le figlie nonché mie sorelle al padre di comune accordo con la nuova compagna .
L’operazione è durata circa otto ore e quando mi sveglio mi tocco istintivamente la testa e sento una grande fasciatura e capisco … preoccupato di essere rimasto offeso incomincio a fare semplici cose mentalmente per verificare se il mio cervello funzionava ancora come piccole addizioni tipo 5+5 = 10 e mi rassicuro.
Dal 2007 al 2011 anno dell’intervento ho sempre lavorato fino ad ottenere un posto con contratto a tempo indeterminato presso una mensa e la lunga convalescenza prevista mi sembrava una esagerazione per me che avevo la fortuna di un impiego ed ancora una volta scappo per poter riprendere a lavorare.
Non mi sembrava corretto lasciare in difficoltà il mio datore di lavor0 che si era dimostrato gentile con me straniero e ultimo arrivato e anche se potevo avviare la pratica di invalidità non l’ho fatto perche io devo ringraziare l’Italia , i suoi medici e non so come fare se non lavorando e pagando le tasse.
Attualmente abito in una casa popolare a nord della città che durante la pandemia ho ristrutturato con tutte le difficoltà del lochdown perchè dovevo reperire il materiale farmelo consegnare e tanto altro ancora, ma alla fine ci sono riuscito e mi piace tanto e vorrei che Vanda ed Eugenia venissero a trovarmi.
Anche mamma a volte viene a stare con me il sabato o la domenica quando non lavora, fa la badante e per ora è contenta di vivere qui a Torino forse perché ci sono io il suo primogenito.
A questa intervista hanno partecipato anche mia cugina e il marito medico che casualmente si trovavano a passeggiare proprio sotto i portici vicino a noi e ascoltando con attenzione parte dell’intervista auspicano che anche gli Italiani sostengano la sanità pubblica con la riconoscenza di questo extracomunitario.
SEGNALIAMO