ALGERIA

UN PAESE IN TRANSIZIONE FRA CONTRASTI E POSSIBILITA’

Algeria: una scoperta sorprendente

Che il viaggio in Algeria mi avrebbe riservato sorprese l’ho capito subito, ancor prima di partire. Per ottenere il visto ho dovuto presentare un estratto del mio conto corrente bancario. Alle mie rimostranze hanno risposto che, se volevo andare in Algeria, dovevo seguire le loro regole, altrimenti me ne potevo stare a casa. Superata la stizza, ho fatto quanto richiesto.

Altra particolarità: sono stata avvertita che il gruppo di turisti di cui facevo parte sarebbe sempre stato accompagnato da una scorta militare e che avremmo dovuto essere pazienti perché passando da una provincia all’ altra sarebbe cambiata anche la scorta, e la cosa avrebbe potuto richiedere del tempo.

L’ Algeria è un paese molto esteso (8 volte l’Italia) e il controllo del territorio è a carico delle 58 province in cui è suddivisa.

La presenza delle milizie è ben visibile ovunque: pattuglie a piedi, in jeep, in camion, posti di blocco con controllo dei documenti, molte e grandi caserme che fiancheggiano le strade. Mi è sembrato evidente un alto livello di militarizzazione sia al nord dove si concentra la popolazione, sia al sud dove sono concentrate le enormi risorse energetiche.

Al nord la fertile fascia costiera si affaccia per 1000 km al mediterraneo ed è li che è iniziata l’epoca storica del Paese, prima con la dominazione fenicia, poi con la grande potenza di Cartagine, poi con la sua nemica mortale: Roma.

Vista la fertilità del suolo e l’abbondanza di acqua i romani ne fecero per cinque secoli un importante granaio dell’impero disseminandolo di ingenti insediamenti coloniali collegati da strade e ponti.

La visita di questi insediamenti mi ha subito immerso nel passato storico del Paese che è, di fatto, il passato di tutta l’ area mediterranea. Anche nostro.

Particolarmente emozionante per me è stata la visita alle rovine di Djemila, (la bella, in berbero) che è collocata in un suggestivo contesto agricolo con pecore e capre in mezzo alle rovine, corsi d’ acqua nei fondovalle circostanti, campi coltivati ai lati, macchie di foresta qua e là e sullo sfondo le montagne. Guardandomi attorno ho avuto l’impressione di far parte di un “Capriccio con rovine”, uno di quei quadri del 600-700, per lo più di fantasia, raffiguranti rovine classiche con personaggi e paesaggi! Un quadro immerso in un silenzio ovattato in cui udivo solamente il lieve rumore dei miei passi sull’antico selciato.
Nessun turista. Il meraviglioso teatro da 2500 persone.
Lo spettacolare tempio dedicato a Marte dall’ imperatore di origine libica Settimio Severo di cui ho scoperto la grande figura di Giulia Donna, la moglie di origini siriane, molto colta e detentrice di un enorme potere mai ottenuto prima dalle imperatrici romane. Vicino a Djemila, un altro sito molto bello:

Tipasa, colonia fenicia all’ ombra di una enorme pineta, adagiata su propaggini frastagliate con viste mozzafiato sul mediterraneo, occupata dai romani nel I secolo dc.

All’ estremo limite nord dell’insediamento una bella sorpresa: una grande stele in granito con incise le parole di Albert Camus “Io comprendo, qui, ciò che chiamiamo gloria: il diritto di amare senza misura”. Si, il poeta franco-algerino era innamorato di queste coste e qui veniva a guardare il mare e a riflettere. Scrisse anche il saggio “Il vento di Djemila” in cui il vento è il protagonista, insieme al sole e alle rovine, ed esercita sul visitatore una specie di potere incantatorio che lo rende pietra tra le pietre facendogli prendere coscienza del fatto che solo il cielo è eterno.

Il passaggio repentino dalle rovine romane ad Albert Camus mi ha riportato al presente.

Sono ad Algeri, “Algeri la blanche”.

Dalla finestra della mia camera si insinua un sole insolente già alle sette del mattino. Mi affaccio e si stende sotto di me, degradante dolcemente verso il mare infinito che si congiunge al cielo, una enorme città bianca. La vista toglie il fiato. Lungo la riva si vedono due porti pieni di navi e tante altre navi sono ancorate al largo o in rada in attesa di attraccare. Da covo di pirati al più grande porto commerciale del continente.

Alle mie spalle l’antica cittadella fortificata, la casba, che durante la guerra d’ Algeria fu la roccaforte del fronte di liberazione nazionale.

Con l’immancabile militare al fianco mi sono inoltrata in quegli stretti vicoli tortuosi e in salita, su cui si aprono direttamente le porte delle abitazioni. Se queste sono socchiuse si vedono interni bui, semplici, poveri. Ho notato che la raccolta dei rifiuti, inseriti in sacchetti di plastica e appesi a un chiodo in strada, viene effettuata con l’ausilio degli asini. Non ci sono negozi, niente di turistico. Qualche bambino trasporta contenitori d’ acqua dal pozzo a casa. Tutto molto diverso dagli analoghi rumorosi, caotici, turistici quartieri tunisini o marocchini.

Sono entrata nella bottega di un fabbro e mi si è aperto un mondo. Orgoglioso, mi ha fatto vedere i fucili e i coltelli che forgiava per i compagni del fronte di liberazione e dove questi si nascondevano all’ arrivo dei francesi, una buia cantina a cui si accedeva attraverso un vero e proprio buco scavato nel terreno del pavimento, che suo padre ricopriva con una pesante lastra metallica su cui poi appoggiava un tappeto e infine la seggiola su cui stava seduto. La fierezza di quell’ uomo anziano mentre mi faceva vedere come si era svolta la loro battaglia contro “la madame” la ricorderò per sempre.

Gli ho chiesto con molta delicatezza se voleva vendermi alcune vecchie fotografie che aveva appeso alle pareti. Ha negato con una tale decisione che mi ha fatto sentire a disagio. E’ poi uscito con me nel vicolo e mi ha fatto vedere da dove arrivavano i francesi e di come loro, i ragazzi del fronte, riuscivano a scappare e ad attaccarli da dietro grazie ai passaggi interni alle abitazioni che solo loro conoscevano. A quel punto si è messo a ridere, un riso triste!

La Francia qui è odiata, non solo per la lunga fase coloniale ma soprattutto per ciò che avvenne durante la guerra per la liberazione di Algeri, una guerra sanguinosa che la brutalità dell’esercito francese non riuscì soffocare. In giro per la Casba e in generale in tutta Algeri, si vedono fotografie ormai sbiadite, contornate da fiori di plastica e lumini spenti. Sono le foto di ragazzi deceduti durante la lunga guerra di liberazione, la più drammatica e sanguinosa delle guerre di liberazione dei paesi dell’Africa mediterranea degli anni 50-60.

Mi sono fermata alcune volte davanti a queste fotografie e sempre qualcuno mi si è avvicinato per darmi spiegazioni.

Gente fiera. Gente cosciente della importanza della liberazione.

Sono rimasta colpita dall’ assenza di mendicanti, dall’ assenza di persone che dormono in strada, dalla assenza di baracche: la povertà estrema pare non esistere o per lo meno non essere facilmente visibile. Del resto, casa, sanità e scuola sono forniti quasi gratuitamente a tutti almeno a livello di base. Per l’acquisto di generi di prima necessità come la farina, l’ olio, il latte sono previsti sussidi appositi. Un Paese che cerca di applicare principi di uguaglianza sostanziale ancorchè minimale. La crescita demografica (3 figli in media per donna) è imponente e nuovi agglomerati di anonimi palazzoni stanno sorgendo nelle periferie della capitale e delle altre due grandi città costiere (Constantine e Oran). Nel complesso sono agglomerati proprio brutti.

Appare evidente, però, che sono funzionali alle necessità. Al centro di questi nuovi centri abitativi è sempre presente un grande mercato coperto. Sono entrata in uno di questi e, nella confusione generale nella quale non era facile nemmeno muoversi, ho constatato che la maggior parte dei prodotti sono venduti sfusi e che sono tutti prodotti locali. E…quanti datteri!!!

La mia presenza con tanto di macchina fotografica al collo ha destato sorpresa, ilarità e infine commenti a me non comprensibili ai quali ho sempre risposto sorridendo e salutando.

Pensavo di trovare, come in Tunisia, molti migranti di passaggio provenienti dai Paesi subsahariani. In dieci giorni di permanenza nel Paese non ne ho visto uno. I confini con i Paesi subsahariani sono lunghi varie migliaia di Km e sono costituiti dalle grandi dune di sabbia. Molto difficili, quindi, da attraversare. L’esercito controlla i punti fragili e respinge chi incontra. Se i migranti riescono a passare e si inoltrano nel deserto algerino, vengono scortati ai valichi di confine con la Tunisia. Quando mi sono dimostrata sorpresa mi hanno detto che è quello che gli stessi migranti chiedono. Del resto sopravvivere, senza mezzi, nel deserto è impossibile.

Alle porte delle grandi dune sahariane ho incontrato un popolo particolare: i Mozabiti, popolazione berbera islamica scismatica che difende il principio che a guidare i musulmani deve essere il più degno, indipendentemente dalla classe sociale, dalla razza, dal sesso e non deve necessariamente essere un discendente di Maometto. Questa visione è inaccettabile per i tutori dell’ortodossia islamica e i Mozabiti sono stati a lungo perseguitati. Un gruppo di essi si è installato in un angolo inospitale e negletto del centro dell’Algeria e vivono una vita molto puritana, rigorosa al limite del fanatismo.

Ho avuto la possibilità di visitare Ghardaia uno dei loro cinque villaggi che sono stati costruiti utilizzando lo stesso schema urbanistico. Le case, di una semplicità monacale, fatte di fango e foglie secche di palma, sono collocate a cono su colline rocciose circondate da mura, in cima la moschea appena sotto le abitazioni dei dotti, dei religiosi e degli insegnanti, poi via via le abitazioni degli addetti ai lavori meno spirituali fino alle case dei commercianti e degli agricoltori vicino alle mura di cinta.

Questa urbanistica semplice, economica e rigorosa ma funzionale, impressionò Le Courbusier che passò in questo luogo alcuni mesi studiando non solo l’urbanistica ma anche le modalità di presa di aria, di luce, di raffreddamento delle case e dei vicoli, la conservazione degli alimenti.

Certamente non penso che Le Courbusier apprezzò la condizione della donna. Infatti se nelle società Musulmane la donna gode di ben pochi diritti e libertà, in quella Mozabita la situazione risulta ben peggiore. Esse vivono recluse nei piani alti delle abitazioni senza alcun contatto con l’esterno o con estranei. Se devono uscire per necessità non derogabili, devono essere accompagnate, camminare rasentando i muri ed essere coperte da un enorme telo bianco che lascia scoperto solo un occhio. Vengono controllate da apposite guardiane che verificano quotidianamente la loro buona condotta.

La guida si è raccomandata, qualora ne avessimo viste qualcuna, di non fotografarle per rispetto, ma anche per evitare il rischio, se visti, di essere aggrediti e picchiati da uomini e guardiane.

Ho lasciato quel villaggio all’ alba con le case che pian piano diventavano rosa come il deserto circostante. Tutto uniforme, tutto delicato, tutto apparentemente fragile.


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