Sino alla fine dello scorso secolo il concetto di guerra (e la sua tragica applicazione pratica) era stato regolato da norme e da comportamenti che, per quanto spesso disattesi, apparivano come condivisi da tutti e derivavano da convenzioni più generali.
Prima di tutto il concetto di Nazione che comprendeva al suo interno una area geografica delimitata da confini, uno Stato che ne fosse la espressione politica e militare, un Popolo che, più o meno felicemente, vivesse all’interno di quell’area, una Lingua e una Cultura che caratterizzassero e unissero i precedenti elementi.
Ciò comportava, a seguire, una serie di regole comportamentali tra Nazioni da applicarsi anche nel drammatico campo della belligeranza.
La guerra doveva “essere dichiarata” con un atto formale da chi intendeva farla iniziare.
Quando si concludeva la pace, qualunque fossero gli equilibri derivati, doveva essere sancita da atti altrettanto formali.
La popolazione non in divisa, definita come civile, non doveva essere vittima o comunque partecipe per quanto possibile dei fatti bellici.
La guerra era affidata ai militari che avrebbero dovuto attenersi a quanto sopra.
Di passaggio mi piace (?) qui ricordare che il Generale Italiano Giulio Douhet fu forse il primo sostenitore del bombardamento aereo sulle popolazioni civili allo scopo di minare il morale degli eserciti avversari.
Ancora, che il Generale Tedesco Albert Kesserling emanò nel 1944, sul suolo italiano, il diritto alla rappresaglia sui civili con l’indicazione di dieci italiani morti per ogni soldato tedesco ucciso non in combattimento.
Insomma, le norme c’erano ma il loro rispetto era abbastanza relativo.
Vi erano, poi, dei momenti bellici totalmente al di fuori delle norme condivise.
In primo luogo le annessioni di territorio anche attraverso campagne militari.
L’esempio più luminoso è quello di Giuseppe Garibaldi che, alla testa di poco più di 1000 volontari, abbatté il Regno del Sud consegnandolo successivamente al Regno di Sardegna e facendo così nascere l’Italia.
Assai meno “luminose” sono ovviamente le varie annessioni coloniali da parte di tutti gli Stati Europei.
Senza apparati formali prevedevano l’uso dell’esercito come garanzia di conquista nei confronti di territori a cui non veniva riconosciuta la possibilità di esistere come Stato e, tanto meno, come Nazione.
Spesso questi territori disponevano in realtà di forme di governo autonomo che tuttavia le Nazioni Europee tendevano a non riconoscere se non in termini di trattativa militare successiva alla operazione di conquista e\o annessione.
È difficile negare che la guerra, in tutte le sue possibili forme, sia una attività inscindibilmente legata alla specie umana e al suo divenire dai primi esordi dell’ homo sapiens ai nostri giorni.
Anzi, forse si potrebbe addirittura sostenere che essa caratterizzi la nostra specie rispetto alle altre specie animali che vivono sul pianeta Terra.
Se è così si capisce benissimo come mai, e da sempre, l’Uomo abbia cercato di fare apparire più nobile questa attività, peraltro ripugnante, dotandola di regole e valori che la innalzino.
L’invincibile Achille viene punito dagli Dei per avere infranto le nobili regole della guerra umiliando il cadavere di Ettore sotto le mura di Troia.
Prima e dopo di lui infinite altre storie costellano il cammino delle guerre nel mondo.
Esse cercano sempre di distinguere fra un comportamento di guerra corretto e consapevole differenziandolo dai comportamenti aberranti e strumentali.
Penso, anche con un sorriso, agli ufficiali francesi che nelle trincee del ’15 – ’18 si rifiutano di indossare la divisa tattica e preferiscono esporre i colori delle loro divise da ufficiali al fuoco dei cecchini tedeschi.
O a Felice Benuzzi che, nel 1943, evade da un campo di concentramento inglese in Kenia per scalare il monte e poi rientrare nel campo senza dir niente a nessuno.
Un quadro, insomma, non idilliaco ma anche pieno di richiami al valore e alla correttezza.
Tutto cambia l’11 settembre 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle.
Esso segna l’inizio della cosiddetta “guerra asimmetrica”.
Scopriamo così che la guerra può non venire dichiarata prima di iniziarla, ma soprattutto che a combatterla non sono i militari riconosciuti come tali.
Ancora, apprendiamo bruscamente che l’obiettivo della azione militare sono i civili in quanto tali e non allo scopo di demoralizzare gli eserciti.
Non solo: rispetto alle strategie militari tradizionali, che prevedevano un comando e una serie di obiettivi intermedi, ora non vi è più bisogno di una strategia ma chiunque può, a suo piacimento, svolgere azioni definite di guerra e decide in maniera assolutamente individuale.
E non ci si deve nemmeno fare ingannare dalla apparente somiglianza tra i kamikaze giapponesi e la facilità con cui questi nuovi combattenti sacrificano la propria vita.
I kamikaze agivano sulla base di ordini ricevuti e di una tattica conseguente di combattimento, colpendo comunque obiettivi militari, mentre i nuovi “eroi” operano individualmente e la loro azione viene omaggiata a rivendicata solo a posteriori.
E tuttavia, nonostante queste peculiarità, tutto questo non deve essere ridotto al rango di terrorismo, magari in parte giustificato da situazioni da correggere o verità da ristabilire.
Dobbiamo “soltanto” accettare che esista una idea della guerra diversa da quella consueta nel pensiero occidentale.
Una guerra che non ha bisogno di Nazioni che la dichiarino e la combattano esplicitamente. Possono avviarla, finanziarla e sostenerla ma formalmente non la combatteranno mai.
Infatti, essa è una guerra che non viene presentata come combattuta fra Nazioni ma fra Popoli. Ha come scopo il prevalere di un Popolo sull’altro e la cancellazione sistematica del perdente.
Viene vissuta come una guerra che dura ininterrottamente da oltre 1500 anni senza subire interruzioni ma al massimo rallentamenti.
Questi sembrano coincidere proprio con le sconfitte militari tradizionali.
Che si tratti della battaglia di Lepanto del 1571, della battaglia di Vienna del 1683 o della distruzione della 13a Waffen SS, la brigata musulmana, del 1945, questi episodi sembrano confermare l’idea che una guerra definita come “di popolo” non può giovarsi delle tradizionali dinamiche militari.
È molto difficile valutare come rapportarsi con un nemico diffuso ma non definito, capace di lunghi silenzi e improvvisi slanci aggressivi, ma soprattutto di attaccare e colpire quelli che a noi sembrano, dal punto di vista militare, obiettivi non significativi.
Non è il mio mestiere, ma mi permetto infine di provare ad enucleare alcuni “passaggi mentali” che forse dovremmo adottare in futuro per affrontare quel che ci aspetta.
Penso che occorra smetterla di chiamarli terroristi, perché non lo sono e non pensano di esserlo.
Un terrorista ritiene che la sua azione, uccidere un Re o un Poliziotto, si colleghi alle tensioni sociali in atto e le esprima compiutamente.
Si illude che i suoi attacchi possano spingere grandi masse di sfruttati o dominati a ribellarsi, poiché ciò è giusto.
Ma gli uomini di Hamas non puntano a proteggere e a sostenere il popolo palestinese.
Essi sono militari, anzi per usare la parola esatta sono miliziani.
Combattono una guerra millenaria diversa da quella che noi occidentali teorizziamo.
Sinché li consideriamo terroristi ci inibiamo la possibilità di sconfiggerli.
Naturalmente, ciò significa anche che quando è possibile vanno catturati e non uccisi.
Come dei soldati, appunto.
Questa nuova guerra è anche una guerra di comunicazione.
Noi veniamo giustamente colpiti dall’aspetto più sanguinario dei fatti, ma essi hanno sempre una connotazione simbolica che non può essere trascurata.
La distruzione dei Buddha di Bamiyan del 2001 ci appare naturalmente molto meno grave dell’aggressione del 7 Ottobre di quest’anno.
Ma se la colleghiamo alla scelta di attaccare un raduno musicale di giovani israeliani nell’anniversario della guerra dello Yom Kippur che corrisponde, per di più, alla festa ebraica della Simchat Torah non possiamo non renderci conto che quella strage contiene, oltre al sangue, anche un chiaro messaggio.
E, ovviamente, è quasi banale ricordare qui il valore simbolico delle Torri Gemelle e del loro abbattimento.
Le guerre parlano, uccidono e parlano.
La sfilata di Hitler per le vie di Parigi il 14 giugno del 1940 era un messaggio.
Purtroppo per noi italiani Mussolini lo recepì troppo bene e addirittura lo anticipò di qualche giorno.
Ancora, e per finire. È banale osservare che la nuova guerra ha padroni, sostenitori e finanziatori fuori dal perimetro in cui, per ora, si combatte.
Sono alcune Nazioni con cui, nel mondo finanziarizzato, le Nazioni europee cercano di mantenere comunque buoni rapporti.
Ci sforziamo di dimenticare che in esse sono spesso negati tutti i diritti basilari sia all’interno della società che della famiglia. Ci stupiamo se una cosiddetta Polizia Morale può uccidere una giovane che indossa malamente il velo.
Insomma, ci sentiamo migliori ma soprattutto al sicuro. Siamo diversi, ma non vi siamo ostili è il messaggio che rivolgiamo loro.
In fondo, pensiamo, ce la hanno solo con Israele.
Ma se, per un attimo, riuscissimo a cogliere la profonda continuità storica che collega quanto accade oggi a quanto accaduto nei secoli precedenti, allora forse saremmo un poco meno tranquilli.
Ci illudiamo che il “Lodo Moro” possa proteggerci ancora per molto tempo.
Ma di questa illusoria convinzione magari ragioneremo un’altra volta.
SEGNALIAMO