Tredici/B Techné Storie di media e società
Michele Mezza
Docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli
A pochi giorni dalla nomina parlamentare di quattro membri del Suo CdA e dalle indicazioni del ministro dell’Economia Giorgetti del vertice, Michele Mezza, dopo un lungo excursus storico in cui ripercorre “La vecchia missione allineata sia agli obiettivi sia alla cultura dei suoi mandanti politici… dalla stagione del latifondo dc a quella della lottizzazione pluralista”, evidenziando la svolta degli anni Duemila con quelle che definisce ” mediamorfosi e centralità della Rete: dati + potenza di calcolo”, torna sull’attualità non senza ironizzare sull’atteggiamento assunto in occasione del voto in Parlamento dalla sinistra “Tra Aventino e diritto di tribuna” e cercando, soprattutto, di rispondere alla questione iniziale che è anche il titolo di questo contributo per Democrazia futura, ovvero “A cosa serva oggi la Rai?. Per il giornalista nolano, la missione del servizio pubblico non è solo di disporre di una governance in grado di assicurarle “autonomia dall’esecutivo”, occorre garantire quella che, di fronte ai giganti del web, delle piattaforme, e ai nuovi sistemi di intelligenza artificiale, chiama “la tutela di linguaggi e del senso comune” per combattere contro quello che Mezza definisce “Il rischio di una nuova stagione di colonialismo semantico e culturale”. Da qui la proposta finale di “creare laboratori applicativi di linguaggi nazionali e fabbriche di un immaginario autonomo e competitivo”.
1 ottobre 2024
A cosa serve oggi la Rai?
Più in generale quale motivazione giustifica il costo finanziario e istituzionale di gestire, e preservare, un sistema così sensibile ed esposto alle turbolenze politiche?
Sono domande che rimangono troppo sottopelle in una discussione sul destino dell’azienda radiotelevisiva, come si ripropone ogni volta che il suo vertice viene rinnovato.
Le risposte sono quanto mai incerte, e sicuramente fluide. Oggi, in una congiuntura sociale e geopolitica quale quella che attraversiamo mi pare che il modo di reagire a queste sollecitazioni sia del tutto discontinuo con il passato, e traumaticamente eccentrico anche rispetto alla tradizione aziendale.
Diciamo la Rai non è più quello che è sempre stata, e la mission che ne potrebbe oggi rinnovare e legittimare il rilancio non assomiglia al senso comune del suo personale e tanto meno dei suoi committenti politici. Tanto più dei suoi occupanti.
La vecchia missione allineata sia agli obiettivi sia alla cultura dei suoi mandanti politici…
In passato, invece, l’azienda di Viale Mazzini era perfettamente allineata sia agli obbiettivi sia alla cultura dei suoi mandanti. Una sintonia che si è del tutto interrotta almeno da 20 anni, ed oggi l’estraneità delle istituzioni e delle comunità che abitano il servizio pubblico, come dipendenti, dirigenti, amministratori, o utilizzatori esterni, è totale.
Talmente incomunicabili sono il futuro che attende l’azienda dal suo passato che da anni, chiunque sia il pretendente alla governance aziendale, si susseguono fallimenti, rigetti, abbandoni.
Fino al passaggio di secolo la storia era molto lineare.
L’azienda aveva una missione ancestrale – impedire che una funzione così delicata e costosa, quale un servizio radiotelevisivo nazionale, diventasse strumento esclusivo di un’aristocrazia privata. In questa mission di fondo, scritta a caratteri cubitali nel suo DNA, l’azienda si è vista poi assegnare il mandato di essere una fabbrica di pluralismo dal sistema dei partiti, e infine – siamo nell’ultimo scorcio, simboleggiato dalla discesa in campo di Berlusconi e degli epigoni che sono seguiti a Palazzo Chigi – un validatore di leadership personali.
Mi pare utile tornare molto indietro, ad un passaggio che nella ormai logorata aneddotica della nascita e crescita dell’azienda pubblica è stato sempre ignorato.
Forse solo il gran ciambellano di Casa Berlusconi, Gianni Letta, ricorda nitidamente che all’origine della Convenzione fra lo Stato italiano e la Rai, la cui primogenitura risale addirittura al 1924, in piena era fascista, quando l’ente concessionario era solo Unione Radiofonica Italiana, successivamente EIAR e poi, dal 1944, RAI, ci fu un lungo contenzioso giudiziario con il gruppo editoriale Il Tempo di Roma, posseduto allora dal mitico Renato Angiolillo. Siamo poco dopo l’avvio delle regolari trasmissioni del servizio pubblico televisivo, iniziate in via ordinaria nel 1954, quando, nel 1956, la casa madre dove iniziò la sfolgorante carriera del futuro Richelieu di Arcore chiede una concessione privata allo Stato per iniziare un’attività televisiva in alcune regioni del paese.
Il contenzioso si prolungò per quattro anni, fino al 1960, quando un pronunciamento finale della Consulta, dopo una circostanziata sentenza del Consiglio di Stato, respinse definitivamente la richiesta del gruppo del quotidiano romano spiegando, questo è il punto che oggi dobbiamo riconsiderare che il rischio che si palesava con un’apertura ai privati di quella attività, era un pericoloso oligopolio. Infatti, aggiungeva la Corte, la limitatezza dello spettro elettromagnetico (allora), con l’ingente quantità di investimenti, combinata alla rilevanza che il mezzo radiotelevisivo era destinato ad assumere nella formazione dell’opinione pubblica, delineavano inevitabilmente il pericolo che solo un ristrettissimo numero di esercenti avrebbero potuto occupare il mercato.
La Rai e il suo monopolio iniziale, ce lo diciamo da sempre, ma oggi dobbiamo adeguare questa consapevolezza al nuovo contesto, nasce come evoluzione del welfare più sensibile di una comunità, come la scuola e la sanità, che non potrebbe che essere organizzato e gestito che da un’istituzione pubblica.
Solo la minaccia di poteri illegittimi privati, spiegava allora Ernesto Rossi con il club degli amici de Il Mondo, era peggio di un monopolio statale in un mercato delle opinioni.
…dalla stagione del latifondo dc a quella della lottizzazione pluralista
Questa natura così prossima all’esercizio della democrazia fu anche la giustificazione dell’invasione dell’azienda pubblica ad opera della DC.
Il partito cattolico si impossessò della Rai non solo per disporre di uno strumento di propaganda politica, quanto per preservare un potente mezzo di intromissione nelle case degli italiani da potenze maligne, quali erano allora le forze di una sinistra collegata al futuro impero del male, quale era l’URSS.
La combinazione di un’autonomia della politica dal cosiddetto quarto partito confindustriale, e la tutela del paese dall’influenza luciferina del comunismo sono le due matrici che prima inducono, e poi giustificano il latifondo democristiano, che, dopo il sussulto del 1968, e almeno dieci anni di apertura al centro sinistra, si apre alla lottizzazione pluralista con la riforma del 1975.
Insisto ancora per un momento nella ricostruzione di questo scenario del decollo della Rai perché credo che renda più facile il ragionamento successivo.
Dicevamo l’azienda radiotelevisiva, in regime di monopolio, viene incaricata di esercitare un servizio pubblico per preservare un tale sensibile settore da mire private o da scorrerie internazionali.
Si aggiunge anche la mission di operatore sociale: la Rai sarà strumento della fin troppo nota alfabetizzazione del paese, unificazione linguistica ma anche di una più sofisticata metamorfosi.
In un convegno del 1957, della corrente fanfaniana, la più moderna e aggressiva della DC, un giovanissimo redattore del quotidiano del partito di maggioranza, tale Ettore Bernabei, che poi qualche ruolo giocherà nel dare un’anima a quella fabbrica di messaggi che era appunto il sistema di comunicazione elettronica, spiegava alla destra del partito che accusava Fanfani, promotore dell’apertura a sinistra, di fornire elettori alla sinistra trasformando con l’industrializzazione i contadini in operai, che lo sviluppo della comunicazione e della pubblicità avrebbe trasformato gli operai in consumatori.
Questo era dunque l’imprinting con cui nasce la Rai. Una vera architrave del sistema di governo del paese.
Questi mandati hanno resistito, fino al fatidico 1989, quando muta la mappa geopolitica, ma, con meno visibilità, nasce un nuovo linguaggio di comunicazione che sostituisce i mass media con un sistema di relazione diretta punto a punto. Bernabei, proseguendo nel suo ragionamento del 1957, avrebbe potuto spiegarci che internet trasformava gli elettori in negoziatori politici, uno per uno.
Le fasi successive le conosciamo a memoria: Mani Pulite, crollo della democrazia parlamentare, nasce un regime ibrido combinazione di un restringimento dei partiti a pure comunità negoziali con un peronismo personalistico.
La TV è strumento ma non impresario della mediamorfosi.
Mentre il grande schermo continua a calamitare l’attenzione della politica, i piccoli schermi penetrano nell’attenzione delle moltitudini.
Gli anni duemila: mediamorfosi e centralità della Rete: dati + potenza di calcolo
Siamo al passaggio di secolo. La rete diventa dati + potenza di calcolo. Google e Facebook colonizzano i vocabolari dei giovani, e assimilano l’insoddisfazione dei vecchi. I partiti si svuotano, e lottizzano sé stessi, usando la Rai come puro specchio di autostima.
Cambia il DNA aziendale. Dopo la sbornia delle migliaia di televisioni private, che hanno incoronato Silvio Berlusconi ad unico contendente del Cavallo di viale Mazzini, che è stato portato ad abbeverarsi proprio ad Arcore con le ripetute gestioni pianificate proprio da Gianni Letta, la Rai non è più il tutore di uno spazio pubblico contro le mire di invasione privatistica. Tanto meno è una barriera contro i barbari comunisti, e non trova sul divano ceti sociali da riconvertire a fedeli elettori del governo.
Dunque, torniamo alla domanda iniziale: a che serve la Rai? al momento i più cinici ci spiegano che è l’ufficio cassa del cinema nostrano, più l’ufficio di compensazione per il mondo degli attori e produttori minori. Rai è dunque Rai fiction. I più romantici ci parlano di Rai storia, che è una Techetechetechetè paludata, che ogni tanto pesca l’asso mettendo la mano nel sacco del magazzino. Altri, infine, ci parlano di inclusione sociale: di chi? forse di una platea di nostalgici pensionati del nord, o di casalinghe e disoccupati del sud che seguono preserali sui pacchi di ogni tipo, o l’armadio degli zombie delle trasmissioni del pomeriggio sui massacri famigliari.
Tra Aventino e diritto di tribuna
Per governare questa paccottiglia senz’anima va in onda l’ennesima spartizione governativa. Il PD, dopo avere inviato al settimo piano fantasmi e sordomuti di ogni tipo, decide di prendersi in parola, e, irrilevanza per irrilevanza, ha l’ideona di lanciare il solito Aventino, la tradizionale ritirata da ogni votazione che si spende quando non si ha altro da fare. Una scelta che frantuma il già recintato campo largo. I 5Stelle che da mesi giocano all’altalena con gli uomini della Meloni, si infila nell’orticello lasciato incustodito dai mezzadri del campo largo e piazza il suo candidato, confermando chi sa a memoria il numero di telefono dei dirigenti nominati dal governo. Un gioco che riesce anche all’Alleanza Verdi Sinistra AVS, che si trova fra le mani il candidato più plausibile per un progetto di rinnovamento, l’ex segretario del sindacato dei giornalisti Rai, Roberto Natale, appena pensionato dopo un lusinghiero mandato come direttore della sostenibilità aziendale che gli ha permesso di coltivare relazioni con tutto il mosaico delle comunità ed associazioni sempre ai margini dell’azienda. Ovviamente stiamo parlando, al massimo, di un puro diritto di tribuna che consentirebbe ai due consiglieri della minoranza di fungere, a secondo delle opportunità, come megafoni di soggetti e campagne esterne.
Non è sufficiente l’autonomia dall’esecutivo, occorre garantire tutela di linguaggi e del senso comune
Ma torna la domanda che non può essere esorcizzata, né da chi vuole accaparrarsi l’azienda come quell’allegra brigata di nomina governativa, né dalle diverse opposizioni, interne ed esterne: a che serve la Rai? La risposta che riecheggia al momento, fatta crescere dall’associazione Articolo quinto, presieduta dall’ex principale collaboratore di Angelo Guglielmi nel periodo d’oro di Rai 3, Stefano Balassone, è quella dell’autonomia dall’esecutivo di un tale delicato apparato come l’azienda pubblica radiotelevisiva. Il puntello per lanciare la campagna che dovrebbe costringere il governo e tornare sui suoi passi, è un regolamento, dunque norme che diventano operative senza bisogno di avallo istituzionale dai singoli paesi, che fissa come stella polare in Europa una netta separazione fra il vertice del servizio pubblico ed ogni interesse indotto dall’esecutivo nazionale. Non solo il governo non deve influenzare o, ancora peggio spadroneggiare, nelle imprese pubbliche del settore, ma queste imprese devono avere un finanziamento certo e programmato che non può dipendere dal gradimento governativo, o persino parlamentare. Insomma, esattamente l’opposto di quello che si vive all’ombra del cavallo di Messina. La correttezza di tale principio ha molta forza, ma non risponde alla domanda: a cosa serve la Rai? Infatti, senza una dettagliata e organica elaborazione che sostituisce il mandato con cui l’azienda è nata e pasciuta nel paese non si capisce cosa si governa. Si può lottizzare, ai margini della legalità, sfruttando l’ombra dei malfattori, ma non si può riformare alla luce del sole, rivendicando il diritto della ragione.
Oggi in Europa solo un tema rende irrinunciabile un potente sistema pubblico multimediale: la tutela di linguaggi e senso comune di un intero paese. Siamo in un tornante dove quella che era l’intromissione di potentati privati che poteva chiudere il mercato della comunicazione sta diventando sovrapposizione di pochi potentati tecnologici che assorbono interi gruppi editoriali, come sta accadendo alla Gedi con Open AI.
Il rischio di una nuova stagione di colonialismo semantico e culturale
La tutela di una comunità dall’irruzione di potenze straniere che vogliono asservirne comportamenti e decisioni, sta diventando l’illegittima occupazione da parte di gruppi esteri, come Google o Amazon, oppure il fondo americano KKR, di funzioni strategiche quale le morie, i dati epidemiologici, i contenziosi fiscali, o l’intera dorsale delle telecomunicazioni.
Ma soprattutto quel gioco di prestigio di trasformare gli operai in consumatori sta diventando trasformare studenti in clienti.
L’appalto del Ministero della pubblica istruzione della prima fase di sperimentazione dell’integrazione delle soluzioni di intelligenza artificiali nella scuola dell’obbligo, ci annuncia una nuova stagione di colonialismo semantico e culturale.
La nuova missione della Rai: creare laboratori applicativi di linguaggi nazionali e fabbriche di un immaginario autonomo e competitivo
La Rai, come è la BBC in Inghilterra, e il sistema multimediale in Francia o Spagna, deve cercare il suo futuro in una capacità di negoziare linguaggi e procedure tecnologiche nella transizione dalle comunicazioni chiuse, quali è il broadcasting, dove un emittente parla a tanti, a sistemi aperti, quali il browsing, dove ognuno partecipa a conversazioni. Scuola, sanità pubblica amministrazione e diritto, devono essere laboratori applicativi di questi linguaggi nazionali e fabbriche di un immaginario autonomo e competitivo.
Senza una nuova mission non si può pensare di trovare per strada interessi e mobilitazioni per una alternanza della governance dove i partiti siano sostituiti da gruppi e famiglie di competenze svincolati da mandati o controlli. Come recita un vecchio adagio indiano,
avere un ideale è bene ma avere un piano è meglio.
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