A MACCHIA D’ODIO

L’antisemitismo possiede, da sempre, la capacità di infrattarsi nelle pieghe della società per riemergerne quando si sente riconosciuto e protetto.

È importante, anche per questo, distinguerlo dal razzismo.

L’odio razziale ha bisogno di esprimersi platealmente, tende a creare norme e dogmi, istituisce distinzioni di comportamento e di diritto nei confronti della razza detestata.

In qualche perversa maniera esso si considera pubblico.

L’odio antiebraico, al contrario, nasce e si nutre di una condizione paranoica (con tutto quel che ne segue) ed essa determina una serie di elementi di contorno a cui non si può sottrarre.

Si tratta, che piaccia o non, della costruzione teorica che Hitler perfettamente espresse, con l’aiuto di Rudolf Hess, nel suo “Mein Kampf” scritto in carcere dopo l’arresto.

In base ad essa, e sulla scorta di documenti storici rivelatisi falsi, la Comunità Ebraica sparsa per il mondo in seguito alla diaspora sarebbe stata capace di perseguire e portare avanti oscuri disegni di potere politico ed economico.

La cancellazione dell’ebraismo nel mondo rappresentava dunque un obiettivo da perseguire a tutti i costi per il bene della restante umanità, nazionalsocialista o meno che fosse.

Ciò era talmente decisivo dal distrarre, in piena guerra, soldati e mezzi per destinarli ad organizzare la famigerata “soluzione finale”.

Talmente decisivo dal trasferire ancora, nell’agosto del ’44 e a guerra di fatto perduta, gli ebrei di Rodi verso i lager in Polonia.

Era, insomma, più importante di qualunque cosa, non esprimeva un punto di vista ma una realtà evidente. Era un dovere, punto e basta.

Oggi l’antisemitismo si può nutrire di ulteriori e devastanti fattori.

Unificare in un unico quadro di disprezzo e paura gli Ebrei abitanti in Israele con tutti quelli residenti nelle altre Nazioni è una attrattiva troppo ghiotta e spiega quel che sta avvenendo nelle nostre piazze e nei nostri raffinati circoli intellettuali.

Rende possibile fingere di dimenticare l’aggressione del 7 ottobre da parte di un soggetto armato che ha come scopo statutario la distruzione di Israele e degli Ebrei.

Rende possibile sostenere gli assassini di Hamas (che opprimono e utilizzano il Popolo Palestinese) nella loro alleanza con regimi antidemocratici e sanguinari.

Per la prima volta nella Storia l’odiatore antiebraico può credere di vedere e combattere il proprio supposto nemico nella sua completezza: uno Stato Ebraico, i grandi poteri economici ebraici, le rendite politiche e culturali dell’Ebraismo in tutto il mondo.

La paranoia può nuovamente manifestarsi e agire.

So bene che non è facile accettare sino in fondo l’idea che l’antisemitismo sia una forma di paranoia che può assumere una dimensione collettiva.

Risulta più semplice attribuirlo alla follia singola di un uomo, trasformandolo in un fatto episodico e momentaneo.

Così, però, ci si copre gli occhi rispetto ai due elementi che, in quanto paranoia, lo caratterizzano anche in questa fase.

Si tratta, in primo luogo, dell’ “effetto valanga”, vale a dire la capacità della paranoia di estendersi e riprodursi per contatto senza perdere mai la forza del primo abbrivio.

Una capacità che trascina con sé anche i consensi non completamente convinti o quelli parziali, aggiungendoli ai primi e indirizzando tutto il peso in una unica direzione.

Ciò conferisce alla valanga una potenza esponenzialmente crescente.

La giustificatissima angoscia per le vittime civili della guerra in corso sfocia facilmente nel grido “Viva Hamas!”.

La speranza di una interruzione della guerra travolge, nel suo aggiungersi alla valanga, il punto fondamentale della questione, vale a dire la necessità di impedire per sempre ad Hamas e alle altre organizzazioni antisemite di continuare a operare contro Israele.

In secondo luogo emerge l’effetto “non è vero” che consegna alla paranoia il diabolico potere di trarre forza anche dalle negazioni ricevute e dimostrate come valide.

Anzi, proprio la forza della dimostrazione contraria porta con sé la certezza di avere ragione.

Più gli storici dimostrano che il Protocollo dei Savi di Sion è un documento falso, più il loro impegno dimostra che il contenuto è comunque veritiero.

Altrimenti perché si impegnerebbero tanto?

In questo contesto falsato tutto sfugge alla osservazione attraverso un collaudato sistema di rimozione dei fatti.

Quante volte Israele ha accettato e sottoscritto l’impegno per “due Popoli, due Stati”?

È vero o non che alcuni milioni di Palestinesi vivono in Israele, esprimono forze politiche e sono trattati alla pari dei cittadini di origine ebraica?

Tutto questo, e molto altro, viene semplicemente rimosso dall’orizzonte se non è possibile negarlo nei fatti.

Oggi, dice l’antisemita, sono altre le cose che dobbiamo valutare.

La macchia d’odio velocemente si espande.

Essa contamina rapidamente sempre più versanti della esistenza inquinando anche quelli più nobili e disinteressati.

Proviamo a pensare al passato, a un’altra guerra che ci riguardava.

Siamo alla fine degli anni ’60 e il nostro immaginario è dominato dalla guerra in Vietnam (che finirà per gli americani nel ’75).

Scendiamo in piazza, urliamo “Giap Giap Ho Ci Min!) e “Fuori l’Italia dalla Nato”.

Bruciamo bandiere americane e cantiamo “Per ogni Coca Cola che tu bevi un proiettile all’America hai donato”.

Ci esaltiamo per i cunicoli dei vietcong e per la guerriglia con le sue tecniche contro il più potente esercito del mondo.

Ci pare una guerra difensiva giusta e poco ci preoccupiamo dei morti sia militari che civili.

In nessun caso, però, ce la prendiamo con gli americani, con il popolo americano.

Quel popolo, nonostante abbia eletto i vari Presidenti che iniziano e conducono la guerra, ci appare semmai come incolpevole attore e vittima della intera faccenda.

Perché ora la eventuale disapprovazione della attuale politica israeliana deve portare con sé il disprezzo e l’odio per un Popolo che ha lavorato per lo sviluppo e la libertà in qualunque Paese sia stato e sia tuttora ospite?

La risposta della paranoia è pronta.

Tutto il bene che gli Ebrei hanno fatto nel mondo è sempre stato un trucco per coprire i reali fini della indegna razza. Poi si analizza e si dimostra.

Se sei di destra ti ricordi di colpo che Karl Marx era ebreo, se sei di sinistra non ti sfugge che il capitale finanziario è tutto nelle mani dei giudei.

E così via

Gli Ebrei appaiono al paranoico come capaci di coprire qualunque ruolo in commedia, ma essendo tutti uniti dalla stessa finalità di dominio.

E noi italiani, in tutto questo, come siamo messi?

L’Ebraismo e gli Ebrei sono intessuti nella nostra Storia. Vivono tra di noi da oltre 2000 anni e sono una parte essenziale dei processi di costruzione della nostra identità nazionale.

Ma ci stiamo trasformando in una società priva di valori di identità e di appartenenza che scambia questo vuoto per libertà e democrazia.

Quella che fu dopo la guerra la “Porta di Sion” ha tra i suoi valori fondanti (soprattutto come definitivo superamento delle leggi razziali) l’avere approvato e sostenuto la nascita dello Stato di Israele.

Ma, ovviamente, se si finge di dimenticare i presupposti e gli impegni a suo tempo assunti non ci si può stupire quando una fitta e diffusa propaganda islamica corrode, in chiave antisemita, la coscienza collettiva.

Ma cosa implica per la nostra società, apparentemente così spregiudicata e libera, l’esistenza di una sindrome paranoica di carattere collettivo capace di manifestarsi ovunque e in brevissimo tempo?

Certo, ci rende deboli ed esposti nei confronti di quei regimi islamici che vivono la distruzione dell’Ebraismo non come distorsione psicologica ma come elemento identitario, come finalità collettiva.

A parte questo, però, vi è un pericolo interno forse anche maggiore e logorante nel tempo.

Penso, a questo proposito, allo straordinario libro di Luigi Zoja intitolato “Paranoia, la follia che fa la storia”, edito da Bollati Boringhieri.

La paranoia costruisce i passaggi storici ma non può costruire la realtà finale che è composta da fattori strutturali che non si piegano, se non per un certo tempo, alla follia.

Ce lo racconta, in apertura, proprio Zoja, e il racconto ci deve impaurire.

Aiace Telamonio, è il più alto e il più eroico degli Achei sotto le mura di Troia.

Insieme a Odisseo riesce a sottrarre ai Troiani il corpo di Achille, ucciso dalla freccia di Paride.

A quel punto ritiene, e pretende, di ottenere le armi dell’eroe morto ma incontra subito le durezze della politica e delle sue scelte.

Agamennone gli nega quel diritto, la congiura di Ulisse ha vinto ancora una volta.

La paranoia si scatena in lui, decide di vendicarsi uccidendo tutti gli Achei.

La fa, effettivamente, una strage ma quando la crisi di paranoia si estingue scopre di avere ammazzato tutte le pecore che l’esercito portava con sé per nutrirsene.

Altro non gli rimane che piantare nella sabbia l’impugnatura della sua spada e lanciarvisi sopra: il suicidio è l’unica via d’uscita onorevole che gli è rimasta.

La realtà, insomma, prima o poi bussa bruscamente alla porta come bussava alle porte di Berlino l’Armata Rossa mentre Hitler organizzava il suo suicidio (preceduto ovviamente dall’abbattimento del suo amato cane).

E noi? Quale realtà busserà alla porta?

Se, Dio non voglia, Israele dovesse effettivamente perire sotto l’attacco islamico noi ci troveremo di colpo in prima linea di fronte a un nemico che considera ripugnanti tutte le nostre libertà personali.

Avere bruciato le bandiere con la stella di Davide non proteggerà i nostri incendiari da salotto.

Dovranno decidere come comportarsi di fronte alle donne uccise per come indossano, o non, un velo.

Dovranno spiegare che non si gettano gli omosessuali dal quinto piano e non si lapidano le adultere.

Dovranno chiedersi quale rapporto avere con vittoriose Nazioni che praticano intensamente la pena di morte.

E non avranno neppure più gli Ebrei cui dare la colpa di tutto.


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