GIORGIO GIOVANNETTI
Mario Pacelli è stato il maggiore storico del Parlamento italiano. Ad Interno Montecitorio, un testo considerato un classico per documentazione e accuratezza, si sommano gli innumerevoli saggi pubblicati a partire dagli anni Sessanta. L’ultimo – sull’autodichia – uscirà nel numero di dicembre della Nuova Antologia. Le bozze le ha corrette in clinica a una settimana dalla scomparsa.
La morte lo ha colto, a quasi 90 anni, con una mente ancora lucida, molti progetti sulla scrivania e tanti appuntamenti per dispensare consigli e dritte su questioni da approfondire e ricerche da fare.
Pacelli era entrato alla Camera dei deputati all’epoca del miracolo economico e andò in pensione quando stava collassando la Prima Repubblica. Era stato uno dei “giovani leoni” della riforma del segretario genarle Cosentino e poi aveva sofferto la presidenza Iotti, pur facendo carriera con importanti incarichi da capo servizio. Il maggiore dei quali quello di responsabile delle commissioni d’inchiesta. Uomo libero e spirito indipendente, era distante sia dai comunisti che dai democristiani. Legò alla Camera con Guglielmo Negri, Giovanni Ferrara e Beniamino Placido, altri eterodossi di valore, e fuori,con Antonio Cederna con cui fu tra i fondatori di Italia Nostra. Ebbe come allievi funzionari destinati ad altissime cariche istituzionali. Tutti, fino alla fine, sono ricorsi a lui per consigli e valutazioni.
Pur essendo andato in pensione, di fatto, non aveva mai lasciato Montecitorio. Continuava con discrezione a frequentare il Palazzo, interessandosi alle dinamiche dell’amministrazione e ai problemi della “fabbrica delle leggi”. Quando entrava alla Camera veniva accolto con rispetto e amicizia da commessi, segretari, documentaristi e funzionari. I giovani lo consideravano una leggenda. Sono stato testimone di un episodio emblematico (e divertente).
Un gruppo di vincitori di concorso per la carriera direttiva, appena entrati alla Camera, lo iniziò a seguire in Transatlantico. Sembrava una scena di Malena di Tornatore, solo che al posto della Bellucci c’era Pacelli. Alla fine, uno spilungone di quasi un metro e novanta (Pacelli a stento superava il metro e cinquanta) si avvicinò intimidito e paonazzo, si piegò in tre e chiese se poteva presentarsi.
Di Montecitorio Pacelli conosceva storie e luoghi come nessuno e soprattutto era capace di far emergere dai suoi racconti la “cultura del Parlamento” italiano. Proprio per questo, l’attuale segretario generale stava organizzando una serie di incontri con i nuovi assunti. Peccato che non ce ne sia stato il tempo. Sarebbe stata un’occasione unica per legare più generazioni di funzionari parlamentari. Anni fa ebbi un privilegio unico. Eravamo nella pausa tra due legislature, il periodo più adatto per visitare Montecitorio.
Dalle 9 alle 14 mi guidò, come solo lui poteva fare, nel Palazzo della politica. Entrammo in Aula, visitammo gli scantinati, passeggiammo in Transatlantico, andammo a ritrovare i luoghi dove era passata la storia. Mi fece vedere l’ascensore dove sembra fosse sbocciato l’amore tra Togliatti e la Iotti. Mi indicò le colonne in cartongesso rivestite in marmo collocate nel Salone dei Passi perduti per rispettare il numero del tempio di re Salomone. Mi portò nella sala dove partì la protesta dell’Aventino. Parlò della grande vasca in marmo bianco ricordo delle terme che i romani avevano costruito su Monte Citorio, narrò del bar liberty che adornava la piazza e della decisione di chiudere l’ingresso da piazza del Parlamento dopo la decina di infarti che avevano colpito i deputati dopo le due rampe di scale. Cinque ore di unico e affascinante racconto dentro la storia. Un ricordo indelebile.
Pacelli è stato un uomo colto e intelligente. Di una intelligenza brillante, fuori dagli schemi e una memoria di ferro. Ma soprattutto dotato di straordinaria capacità di cogliere e indicare le connessioni tra mondi e personaggi apparentemente distanti. Con il risultato di dare una dimensione diversa agli avvenimenti e alle storie che raccontava. Un giorno, mi invitò a prendere l’elenco degli iscritti alla P2 e poi scorrere i nomi dei protagonisti della stagione di Tangentopoli, ma anche quello di alcune vittime del terrorismo. In un’altra occasione, mi disse di soffermarmi sulle cittadine che avevano ospitato i comandi tedeschi durante l’occupazione tra il 1943 e il 1944 e di incrociare i nomi di quei comuni con i luoghi di nascita di alcuni protagonisti della vita istituzionale ed economica degli anni Sessanta.
I suoi racconti erano ricchi di dettagli e sfumature. Parlava in modo lieve, a tratti soave. Uno stile che, per contrasto, rendeva ancora più incisive le stilettate che riservata a protagonisti e comprimari. Tuttavia, non c’era cinismo nelle sue parole. Ironia tanta, talvolta perfidia, ma sempre il massimo rispetto degli uomini con lo sforzo di capire le ragioni delle fragilità che avevano generato gli errori. Per questo ricordava Flaiano e Simenon.
Ho avuto la fortuna di scrivere assieme a lui un paio di libri e l’onore di essere accolto con il “nome in ditta” nell’ultima edizione di Interno Montecitorio. Ma sulla gratitudine e sul piacere di averlo incontrato in questo momento prevale la tristezza.
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