Vorrei tanto conoscere personalmente la signora Claudia Castellucci senza imbarazzo, visto il cognome che, già da solo, potrebbe, data l’importanza e la grandezza, mettere chiunque in soggezione.
Vorrei condividere con Lei quanto ha voluto esprimere nell’ultimo lavoro: Sahara presentato l’8 e il 9 novembre presso il Teatro Ateneo nell’ambito del Roma Europa Festival. Questa performance ha richiamato l’attenzione di molti giovani aspiranti artisti e no, che, in rispettoso silenzio, hanno assistito allo spettacolo. Certamente essi erano consapevoli di assistere ad una esibizione onirica nonché ancestrale, ma il loro atteggiamento, al termine della rappresentazione, era piuttosto confuso come di coloro che non avevano bene appreso taluni atteggiamenti dei vari personaggi.
Va bene l’immaginazione e l’interpretazione, che è sempre personale filtrata attraverso propria scienza e coscienza, ma è necessario che si abbiano chiavi di lettura tali che consentano a chiunque di elaborare un proprio giudizio senza sentirsi poi frustrati se non si riesce a formularne uno soddisfacente.
Sahara, quindi deserto, solitudine, voglia di ricondursi ad una condizione antropologica del tempo e della mente, laddove tutto inizia e tutto finisce. ”Azioni orfane e ucciditrici. Azioni sole, ancora rivestite dell’albume del pulcino appena nato, che non sa chi è, dove va …”.
Sfido chiunque a decifrare questo periodo, per quanto ne sappiamo e immaginiamo!
Il deserto è un luogo del pensiero, nel nostro caso, della necessità di cogliere ogni movimento, input che il corpo può indicare. Nel nostro “deserto” vi è sempre qualcosa che ci lega alla storia dell’umanità; l’uomo nasce libero: niente di più falso! Infatti, noi siamo tutti come ” Atlante” ci portiamo dentro, addosso l’essenza dell’umana natura basta osservare un bambino appena nato per capire quanto di umano e misconosciuto alberga in ognuno di noi.
Siamo soli come il pulcino ancora rivestito dell’albume, che ci induce a cercare nelle nostre immagini remote quella forza che ci consente di liberarci dall’albume per vedere chiaro e riprendere, come una staffetta, la strada sperduta.
“Ulisse e l’ombra”.
Tempo fa un noto spot pubblicitario richiamava l’attenzione sull’ombra quale consigliera ogni volta che non si hanno punti di riferimento, come in questa fase storica, perché li abbiamo persi, cosicché ci rivolgiamo ai nostri istinti per ritrovare il giusto cammino. Quindi deserto inteso anche come forza integrante, colloquio intimo con noi stessi per ritrovarsi e riconoscersi in un tempo, in uno spazio immenso come la terra, come il deserto.
Niente e più struggente della danza, questo rapporto con il corpo che enuncia tutte le sue caratteristiche per superare gli ostacoli che si frappongono tra noi e gli altri. Il corpo che ci parla attraverso gli input più reconditi che, a volte, noi stessi stentiamo a riconoscere. I danzatori lo usano con padronanza e meticolosità affidandosi ad esso come ad un vate, quale trade union tra l’uomo e l’universo.
Mai, come in questa performance, il corpo da solo senza punti di riferimento deve fare capo a sé stesso; i danzatori, veri protagonisti di un’esperienza ”altro” mettono a repentaglio tutta la loro abilità per mettere il fruitore degli ensemble nella condizione di comprendere l’importanza del “noi” intesa come corpo-spazio. Non perdersi, piuttosto addentrarsi in un mondo sconosciuto che, mai come adesso, ha bisogno di elementi concreti per sintonizzarsi sulla frequenza di un corpo che palpita, danza, che parla. Chiudiamo gli occhi e impariamo ad ascoltarlo, con il suo aiuto attraverseremo il deserto per poi raggiungere ognuno la propria oasi.
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