Chi risponde “non posso”, chi “non voglio”, chi “nessuno me l’ha chiesto”[1]
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Gianfranco Pasquino
Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna
Il professor Gianfranco Pasquino, anticipando per Democrazia futura un contributo destinato alla nuova edizione del volume Le parole della politica, analizza una parola chiave nel dibattito recente in Italia, ovvero “astensionismo”. “Nella sua essenza, il non voto è una relazione complessa fra promesse, (in)adempimenti, comportamenti. Non è espressione di un vago disagio, di sentimenti di inutilità, del crescere delle diseguaglianze, tutte spiegazioni – chiarisce l’Accademico dei Lincei – incontrollate, mai sostanziate da fatti e numeri, ampiamente circolanti nei da salotti televisivi e nel chiacchiericcio” radiofonico e social”. Facendo riferimento ad uno studio di tre grandi politologi, Pasquino analizza le tre categorie individuate “di non partecipanti, quindi anche, a maggior ragione, non votanti. Sono coloro che alla domanda relativa al perché della loro astensione, del loro non voto rispondono: “non posso”; “non voglio”; “nessuno me l’ha chiesto” – che a suo parere – “offrono una spiegazione esemplare delle motivazioni per le quali uomini e donne, cittadini democratici (perché è solo nelle democrazie che esiste la libertà di scegliere fra votare e non votare) si astengono”.
02 luglio 2024
“Tutti promettono. Nessuno mantiene. Vota nessuno”.
Tre lapidarie, pregnantissime frasi scritte sui muri di Bologna, città di diffuse tradizioni civiche e intenso impegno politico partecipativo, introducono splendidamente alla problematica dell’astensionismo. Nella sua essenza, il non voto è una relazione complessa fra promesse, (in)adempimenti, comportamenti. Non è espressione di un vago disagio, di sentimenti di inutilità, del crescere delle diseguaglianze, tutte spiegazioni incontrollate, mai sostanziate da fatti e numeri, ampiamente circolanti nei da salotti televisivi e nel chiacchiericcio radiofonico e social. Per mettere ordine credo che il modo migliore di procedere sia di affidarsi alla teorizzazione di tre grandi politologi statunitensi Kay Lehman Schlozman, Sidney Verba, Henry E. Brady, autori di una importantissima ricerca sulla partecipazione politica: The Unheavenly Chorus. Unequal Political Voice and the Broken Promise of American Democracy[2]
In maniera come si deve, esauriente, esclusiva, elegante gli autori hanno individuato tre categorie di non partecipanti, quindi anche, a maggior ragione, non votanti. Sono coloro che alla domanda relativa al perché della loro astensione, del loro non voto rispondono: “non posso”; “non voglio”; “nessuno me l’ha chiesto”.
Nell’insieme, le tre risposte offrono una spiegazione esemplare delle motivazioni per le quali uomini e donne, cittadini democratici (perché è solo nelle democrazie che esiste la libertà di scegliere fra votare e non votare) si astengono. Con una importante nota di cautela, è possibile che i non votanti qualche volta siano tali perché non hanno potuto votare, qualche volta perché non hanno voluto, qualche volta perché non sono stati raggiunti da chi non ha saputo/voluto sollecitare il loro voto. Ciò opportunamente rilevato e rimarcato, ciascuna singola motivazione deve essere spacchettata con grande profitto analitico.
Chi risponde Non posso.
Votare non è mai un atto semplice. Prima di tracciare una crocetta, premere un tasto, scrivere un nome, il potenziale elettore deve essere iscritto nelle liste elettorali. In alcuni sistemi politici, l’iscrizione avviene alla nascita con un provvedimento amministrativo automatico. Non sempre, però, i mutamenti di residenza vengono registrati automaticamente e rapidamente. Quindi, per molti, “non posso” significa
“non sono stato in grado di registrarmi, non mi hanno registrato”.
A lungo, negli Stati Uniti d’America la registrazione nelle liste elettorali è stata politicamente difficile, discriminando l’elettorato di colore. In anni recenti, i Repubblicani hanno eretto nuovi ostacoli manipolando tempi, luoghi e documentazione per l’iscrizione.
Alcune società sono particolarmente mobili, come, ma non solo, gli Stati Uniti. Milioni di lavoratori e di studenti non si trovano nei loro luoghi di residenza il giorno del voto (primo martedì di novembre). Se non hanno preveggentemente provveduto a chiedere il voto per posta, non potranno votare. In Europa, gli straordinari successi socio-economici del Mercato Unico, libera circolazione di persone e servizi, e del programma Erasmus con studenti sparsi in una molteplicità di sedi, creano grandi difficoltà di partecipazione elettorale.
Vivere più a lungo si può, nelle democrazie, ma spesso lo stato di salute degli anziani, che hanno perso compagni/e della loro vita e i cui figli sono sparsi sul territorio, non consente loro di andare alle urne. “Non posso” è una spiegazione soddisfacente dell’astensionismo, qualche volta una giustificazione dolente per uomini e donne che per decenni sono stati in grado di esercitare il diritto di voto e di adempiere a quello che la Costituzione italiana (art. 48) statuisce come dovere civico.
Chi risponde “Non voglio”.
“Sono tutti eguali”.
“Nessuno si cura di me”.
“Non ho tempo e energie da sprecare”
“Vinca l’uno o l’altro la mia situazione non cambierà”.
Sono motivazioni molto diffuse, spesso persino condivisibili, contrastabili con argomentazioni razionali piuttosto che sentimentali.
Interessante è il cangiante tenore della motivazione “nulla cambia”. Indicatore di disaffezione/alienazione di elettori che ritengono con qualche buona ragione che il loro voto non serve, il “nulla cambia” può spiegare anche il fenomeno dell’astensione di coloro, un tempo li avremmo chiamati yuppies (young, urban, professional) che pensano di avere le risorse, nell’ordine, culturali, sociali e materiali per fare a meno della politica. La loro vita, le loro sorti personali e professionali, il conseguimento degli obiettivi ai quali mirano possono essere in qualche modo e in una incerta misura intralciati dalla politica, ma, per lo più, sono nelle loro mani, conseguibili grazie al loro impegno e alle loro capacità senza politica, al di fuori della politica. Perché, dunque, sciupare tempo e energie per dare un voto quasi sicuramente ininfluente?
Chi risponde “Nessuno me l’ha chiesto”.
Questa risposta segnala immediatamente l’esistenza di due fenomeni:
- Da un lato, l’isolamento sociale, molto più che, ma talvolta anche, geografico;
- dall’altro, la debolezza del tessuto associativo del luogo, paese, regione, sistema politico dove si trova a vivere la persona che ha risposto.
Il titolo americano del libro di Robert Putnam, dedicato alle vicissitudini del capitale sociale e al suo declino, Bowling Alone (2000)[3] fotografa la situazione delle società contemporanee. Tutte le associazioni un po’ dovunque, dai sindacati alle associazioni professionali, dalle associazioni religiose a quelle industriali, tranne forse quelle si impegnano nella difesa dell’ambiente, dalle società di mutuo soccorso a quelle per il tempo libero, hanno perso iscritti.
Le loro riunioni sono meno frequentate, durano poco tempo, in maniera crescente si svolgono online. Un lustro e più fa Putnam additava la televisione come la maggior colpevole di un declino apparentemente inarrestabile.
Oggi, sappiamo che la proliferazione dei social network erode quel che rimane di molte associazioni e crea bolle di simili, contenti di chattare, raramente con oggetto la politica, quasi esclusivamente fra simili, non di impegnarsi in azioni collettive, meno che mai andare a votare.
Osservazioni conclusive
Le notevoli differenze nelle motivazioni di non voto attraversano le classi sociali, le generazioni e i generi per lo più rendendo poco significative le analisi tradizionali basate su queste caratteristiche.
Suggeriscono anche di evitare i discorsi giornalistici che fanno del “partito di chi non vota” il vincitore di molte elezioni. Con le motivazioni tanto distanti fra loro che stanno a fondamento del loro non voto, gli astensionisti non riuscirebbero mai a mettersi insieme, neppure opportunisticamente, in qualsivoglia partito.
E, poi, rimane il punto davvero dirimente: chi non vota non conta.
Da qualche tempo, anche a causa della crescita e della diffusione in ogni latitudine dell’astensionismo, austeri e severi commentatori hanno iniziato a lamentarlo e a denunciarlo come un problema di prima grandezza, una ferita inferta alla e alle democrazie, che potrebbe portarle alla morte.
Non sappiamo, non esistono precedenti, se le democrazie implodono per mancanza di partecipazione, specificamente elettorale. Partecipare/non partecipare, votare/non votare sono opzioni alternative che soltanto le democrazie offrono ai loro cittadini, le garantiscono e le proteggono.
In molti contesti l’astensionismo è smobilitazione individuale, graduale, silenziosa, tanto rispettabile quanto criticabile senza piagnistei e vittimismi da coccodrilli. Alcuni studiosi sostengono che, senza in nessun modo rimanere indifferenti nei confronti dell’astensionismo e degli astensionisti, dovremmo temere molto più l’eventualità di una rimobilitazione improvvisa su vasta scala degli astensionisti ad opera di un demagogo che li abbindoli e li conduca in massa contro tutto e contro tutti.
Alla fin della ballata, prendendo atto che ci sono sempre cittadini che partecipano alla cosa pubblica e cittadini che se ne stanno nel privato, possiamo permetterci di concordare con Pericle che i partecipanti sono cittadini migliori.
[1] Contributo preparato per la nuova edizione de Le parole della politica, Bologna, il Mulino. Data prevista di pubblicazione marzo-aprile 2025.
[2] Kay Lehman Schlozman, Sidney Verba, Henry E. Brady, The Unheavenly Chorus. Unequal Political Voice and the Broken Promise of American Democracy, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2012, 728 p.
[3] Robert Putnam, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, New York, Simon&Schuster,2000, 541 p.
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