ATTUALITÀ DEI PARADOSSI DELLA TOLLERANZA E DELLA DEMOCRAZIA

Tolleranza e democrazia possono trasformarsi nel loro contrario?

Nel 1733, nelle sue “Lettere filosofiche”, Voltaire scriveva: “Se in Inghilterra ci fosse una sola religione, ci sarebbe da temere il dispotismo; se ce ne fossero due, si taglierebbero la gola; ma se ce ne sono trenta, vivono in pace e felici”. La tolleranza è convivenza di diversità.

Voltaire, francese ma irrequieto girandolo europeo, come David Hume, il grande pensatore scozzese che risvegliò Kant dal suo “sonno dogmatico”, aveva ben presente la tragedia delle guerre di religione che avevano insanguinato l’Europa per più di un secolo dopo la rottura dell’unità cristiana, con la riduzione della religione a “instrumentum regni” e la verità a dogma a cui piegare la coscienza individuale. Sapevano, lui e Hume, che la tolleranza è pluralità che comincia con il numero tre ed è regolata da leggi.

È stato dunque non a caso proprio Hume a vedere per primo l’identità dell’Europa, più che in un qualche carattere da tutti condiviso, nella diversità dei paesi che la compongono. Si potrebbe dire perciò che secondo Hume, paradossalmente, è la divisione che fa l’unità e la forza dell’Europa, perché è da questa caratteristica di una pluralità di esperienze che nascono curiosità e confronto, dunque lo spirito critico, la libertà della ragione che non si ferma di fronte ai tabù e cerca la condivisione. Un punto su cui riflettere anche oggi.

È la stessa convinzione di Montesquieu, secondo cui il diritto di critica, che si fonda sulle diversità di pensiero e parola, massima espressione di libertà, può essere garantito solo se il potere, invece che nelle mani di uno solo, è nelle mani di molti. Da qui nasce non solo la divisione dei poteri, fondamento della democrazia liberale e dello stato di diritto, ma la possibilità e la capacità di integrare le differenze senza annullarle, insieme strategia istituzionale e messaggio politico di valore universale.

Questo è il patrimonio culturale, etico e politico, che l’Europa ha conquistato pagando prezzi altissimi e che si può dire abbia avuto l’ardire di “regalare” all’occidente e al mondo. Una presenza da far vivere. Di sicuro una grande scommessa e in fondo un grande azzardo. La scommessa, dopo aver attraversato i drammi del Novecento, in un certo senso si può dire che è stata vinta seppure nella sua costante provvisorietà, mentre l’azzardo non solo resta in piedi ma oggi potrebbe anche trasformare la vittoria in pesante sconfitta.

Il fatto è che la scommessa della democrazia è che il patrimonio di libertà e di diritti che ne costituisce la sostanza è nelle mani dei cittadini, nel senso che la sua effettiva custodia, il suo alimento e la sua difesa, dipendono dall’intelligenza e dalla partecipazione informata e responsabile di ciascuno e di tutti secondo regole condivise e praticate. Che succede allora se vengono meno lo sforzo di informazione e comprensione, la volontà di partecipazione, l’attenzione e la cura, e l’assunzione delle responsabilità politiche e civili? Se alla fine la stanchezza diventa indifferenza? Insomma, se ad un certo punto si attenuano fino a scomparire i doveri di cittadinanza?

Succede non solo che non si va a votare rinunciando ad un diritto fondamentale, ma si produce quel vuoto di senso che rende permeabili i gangli vitali delle democrazie liberali all’assalto delle cavallette dell’intolleranza e dell’antidemocrazia militante. Oggi siamo esattamente in questa situazione: in un mondo che vede l’avanzata veloce di pretese neoimperiali da parte di spregiudicate e fameliche oligarchie di vecchio e nuovo conio, dentro le strutture portanti della democrazia penetrano e diventano riferimenti del dibattito pubblico posizioni culturali e politiche volutamente disgreganti che deprivano queste strutture della loro forza di difesa e reazione.

All’attacco esterno si affianca, non sappiamo bene quanto in modo casuale o coordinato, un attacco interno ben mascherato e anche per questo molto efficace. Incomincia così a serpeggiare il dubbio che vi sia un uso della libertà che tende a colpire la libertà (vedi il discorso di D.J. Vance a Monaco). E con ciò anche il sospetto che ci stiamo avvicinando pericolosamente al momento nel quale il paradosso della tolleranza potrebbe diventare realtà sperimentata.

In che cosa consiste questo paradosso è presto detto. Si tratta di un famoso passaggio del pensiero di Karl Raimund Popper contenuto nel suo saggio del 1945 “La società aperta e i suoi nemici”. Questo: “Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti; se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”. Detto in modo ancor più stringato,se vogliamo salvare la società aperta “Noi dovremmo quindi proclamare, in nome della tolleranza, il diritto di non tollerare gli intolleranti”.

La democrazia deve difendersi. Se non lo fa, se scambia la tolleranza per dovere di accettazione di ogni teoria e conseguente comportamento in nome della libertà secondo il principio che la libertà è tale se non è sottoposta a limiti, si condanna all’inconsistenza, alla non credibilità e alla fine alla scomparsa. Ed è inevitabile che se diventa reale il paradosso della tolleranza, diventa reale anche il paradosso della democrazia, la trasformazione nel suo contrario attraverso le sue stesse regole.

Lo sapeva già Platone che questo può accadere, come è evidente dal seguente passo de “La Repubblica”: “L’eccessiva libertà… non può trasformarsi che in eccessiva schiavitù, per un privato come per uno stato … È naturale quindi … che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia; cioè a mio avviso, dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce”.

Lo sa anche la storia recente. Non è forse vero che la democrazia ha realizzato il suo paradosso sia con Mussolini che con Hitler? Potrebbe di nuovo accadere. D’altronde che la democrazia, come sistema che tiene insieme le libertà individuali e le regole pubbliche, sia entrata in una fase di crisi molto seria è reso evidente non solo dall’involuzione della prima e per più di un secolo strategica democrazia del mondo, ma dal fatto che in tutte le democrazie si affermano e si rafforzano, in un clima di indifferenza e disaffezione per la verità, di gusto osceno per la distruzione di ogni principio, e appunto di intolleranza, posizioni e organizzazioni apertamente illiberali con una pletora di sostenitori.

Come si fa a non preoccuparsi se di fronte alla violenta offesa al diritto internazionale, di fronte al tentativo dei nuovi poteri oligarchici di ridisegnare il mondo in zone di influenza, di fronte a trattative di pace che a tutto fanno pensare tranne che alla giustizia, prende piede da una parte il sostegno manco tanto nascosto dei nuovi padroni e dall’altra, in perfetta sintonia, la turlupinazione dell’opinione pubblica mediante sia la sistematica disinformazione sia un pacifismo che trasforma un nobile sentimento nell’idea che è chi si difende a provocare la guerra?

Come reagire allora? In questa situazione di estrema confusione, in cui non si capisce più dove può stare sensatamente una linea del giusto per la difesa efficace delle libertà democratiche, pullulano le indicazioni più diverse, da quelle più moderate a quelle più radicali. C’è ad esempio la proposta in stile riformista di Gianni Cuperlo di sposare il mix di programmi e valori contenuto nel libro di Daniel Chandler “Liberi e uguali. Manifesto per una società giusta”. C’è la proposta in stile democratico radicale di Rino Formica secondo cui, dovendo prendere atto che “la decomposizione internazionale operata da Trump non trova un freno e un contenimento nel nostro paese, … c’è bisogno di un colpo di stato costituzionale, ovvero di un ritorno radicale alla Costituzione. E di una rigenerazione dell’equilibrio dei poteri democratici e repubblicani”.

Andando di questo passo si potrebbe anche invocare la “democrazia militante” di Karl Loewenstein che nel 1937, di fronte all’avanzata dei partiti nazifascisti in tutta Europa, alzò il suo grido di allarme invitando nel contempo a liberarsi della “miopia legalista” e ad “adottare misure urgenti e forti per combattere i nemici interni con le loro stesse armi: leggi illiberali che limitino drasticamente la parola e la libertà di chiunque abbia in odio la democrazia”. Penso che non siamo ancora in questa situazione di estremo pericolo, ma che siamo in emergenza si.

E comunque penso che non vada mai dimenticato né l’ammonimento di Popper, il paradosso della tolleranza, né la perfidia di Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda del Terzo Reich, che una volta disse: “Resterà sempre uno dei più riusciti scherzi della democrazia il fatto che essa stessa abbia fornito ai suoi nemici mortali gli strumenti con cui annientarla”, il paradosso della democrazia. Bisognerà dunque rimettere in fila i principi fondamentali e gli obiettivi prioritari.

Compito non facile e non breve. Ma, come si è detto e dimostrato, non si parte dal deserto né è difficile immaginare in una potente svolta europeista il suo punto di urgenza e il terreno su cui costruire i cambiamenti e le difese della democrazia liberale nell’età del bullismo neoimperiale. Però vanno unite le forze che hanno orientamenti simili.

Come Hume e Montesquieu, anche noi sappiamo che la tolleranza comincia da tre, e però alla luce dell’esperienza sappiamo che anche la democrazia sarebbe bene che cominciasse da tre, perché se si ferma a due la lotta presentista per il consenso può favorire il ritorno all’uno. È anche da troppo tempo che si sa, ora bisogna farlo. C’è bisogno di chiarire le posizioni di tutti. Se non si inizia a farlo nei momenti di emergenza, quando mai sarà poi possibile?


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