BHUTAN

La terra dei draghi del tuono

Arrivando in questo piccolo regno Himalayano di 760 mila persone nascosto tra la Cina e l’India che si fa perfino fatica a trovare sulle carte geografiche, si capisce subito che si è davvero arrivati in un luogo “diverso”. Diverso da cosa? Diverso da tutto ciò a cui siamo abituati. Il paese, con le sue foreste meravigliose che pian piano si arrampicano lungo i pendii delle montagne più alte del mondo, si è difeso e si continua a difendere dall’ attacco della modernizzazione selvaggia.

La storia di questo piccolo Paese affonda le sue radici più profonde nella mitologia. Secondo una leggenda, intorno al VII secolo a.C.   la zona fu governata da un Re della regione indiana del Bengala, ma si conosce poco di tutto il periodo antecedente all’introduzione del Buddismo dal Tibet che avvenne quando i disordini costrinsero molti monaci tibetani a fuggire in Bhutan dove fondarono la scuola Drukpa (Drago del tuono), che, ancora oggi, è la forma predominante di Buddismo nel Paese nonché religione di Stato.

Per molti secoli, il mondo esterno non ha avuto un nome per il Bhutan. Le sue alte frontiere lo avvolgevano in un impenetrabile mistero. I cronisti tibetani del XVIII secolo lo chiamavano con tanti nomi diversi, tra cui “Terra Santa nascosta”, “Valle meridionale delle erbe medicinali”, “Giardino di loto degli dei”. Tuttavia, i bhutanesi avevano un nome per il loro Paese e ancora oggi si riferiscono alla loro terra come Druk Yul, che significa il “Regno del Drago del tuono”.

Il Paese, in realtà, divenne Regno solamente all’ inizio del 1900 quando fu nominato come Re ereditario, col nome di Druk Gyalpo (Re Drago), Ugyen Wangchuck, un notabile molto stimato e amato dalla popolazione locale perché era riuscito a mediare un accordo tra il Tibet e gli Inglesi della vicina India evitando feroci scontri e permettendo al Paese di rimanere indipendente. Nel corso della sua storia, il Bhutan non fu mai conquistato, occupato o governato da un potere esterno. Per ben tre volte i Bhutanesi riuscirono a sconfiggere Gengis Khan, la punizione di Dio, e ad impedirgli di annettere il Bhutan all’ impero mongolo. Gli abitanti sono molto fieri di questa loro indipendenza e il timore di perderla è uno dei motivi principali per cui li Paese è rimasto isolato dal contesto internazionale fino a pochi decenni fa. Ancora oggi i collegamenti con il Paese non sono facili. Vi è un unico aeroporto con pochi voli limitati alle nazioni confinanti. Si tratta dell’aeroporto di Paro a 2.500 metri di altitudine, incastonato tra le imponenti montagne dell’Himalaya, sulla riva dell’omonimo fiume. I venti che si incanalano lungo la valle dove è collocata l’unica pista, sono consistenti e continui, capaci di causare, durante le fasi di avvicinamento e di atterraggio, forti e pericolose turbolenze. E’ per questo che l’aeroporto di Paro è considerato uno dei più pericolosi del mondo e sono solo quindici i piloti autorizzati a decollarvi e atterrarvi. Nonostante questo, l’atterraggio in Bhutan non è vissuto come un pericolo perché gli occhi si incantano a guardare fuori dai finestrini la catena dell’ Himalaya innevata che abbraccia le nuvole in un rapporto intimo sul tetto del mondo e tutto il resto sembra non esistere (f.1).

Appena l’aereo si ferma al margine della pista e vengono spenti i motori, si esce all’aperto e, attraversando quei pochi metri che separano la pista dal terminal, si viene colti da un altro stupore: si entra nel mondo misterioso del completo silenzio. Un silenzio che ti invita subito ad uscire dalla banalità e a disporti all’ ascolto. La vivace bandiera nazionale sventola davanti al piccolo terminal di legno intagliato e dipinto a mano. La bandiera è di due colori separati in diagonale, il giallo rappresenta il potere secolare del Re e l’Arancione, la pratica secolare e il potere del buddismo. In mezzo il dragone, simbolo di purezza e forza. Oltre alla bandiera è il Re che accoglie i visitatori. La rassicurante immagine del Re e della famiglia reale terrà compagnia a tutti i visitatori, indipendentemente da quale sia il proprio itinerario. All’ interno del terminal si viene subito colpiti dall’abbigliamento delle persone. In particolare quello maschile. Gli uomini si vestono con il gho, una veste di cotone o di lana a seconda della stagione, lunga fino alle ginocchia, stretta in vita da una cintura di cotone e ripiegata in modo tale da formare una specie di grande tasca a livello dello stomaco, utile al trasporto di utensili, attrezzi, cibo etc.. (f.2).

Le maniche terminano con un alto polsino bianco. Diversamente da quello che si potrebbe supporre, si tratta di un abbigliamento molto maschile.

E usciti all’esterno si respira a pieni polmoni il profumo dell’aria che davvero sa di aria. Fresca, secca, inodore. E’una gioia respirare!

Del resto la costituzione del Paese obbliga a mantenere almeno un 70% del terreno occupato da foreste incontaminate in modo che il Bhutan possa rimanere un luogo d’ elezione non solo per gli esseri umani, ma anche per piante, animali, uccelli, farfalle. Il risultato è davvero straordinario per la grande varietà di piante rare che crescono in queste valli, erbe medicinali presenti solo qui, rododendri che rivestono intere vallate, il raro papavero blu che cresce sopra i 5mila metri e che è il fiore nazionale. Molto spesso in occasione di feste o ricorrenze il regalo che viene fatto ai bambini è un piccolo albero che il bambino stesso pianterà vicino a casa o ai margini della foresta.

Nel Paese la televisione e Internet hanno fatto i primi passi nel 2000 e sono ancora poco rilevanti nella vita quotidiana della popolazione locale. I cellulari trovano poca rete e quasi esclusivamente nelle aree urbane.

Esiste un’unica strada asfaltata che collega l’aeroporto alla capitale e alle quattro piccole cittadine del Paese. Le altre strade sono sterrate, a tratti, non facili da percorrere soprattutto alla fine della stagione dei monsoni che affliggono il Paese con le piogge torrenziali. Qualche vecchio camion dai colori vivaci agghindato alla maniera indiana transita con fatica su per le ripide salite.

Le auto sono pochissime. In tutto il Paese non vi sono semafori, né polizia stradale. Solo in una piccola rotonda nel centro della capitale vi è un elegantissimo vigile in guanti bianchi che dirige le poche macchine che vi arrivano con movimenti che assomigliano ad una elegante danza (f.3).

Oltre il 60% dei butanesi abita piccoli villaggi e si dedica all’ agricoltura (f.4-6),

condotta manualmente nelle piccole terrazze ritagliate quasi come una scala lungo le pendici delle montagne. Coltivano riso rosso, grano saraceno, ceci, lenticchie, mais. Ogni famiglia, ogni comunità coltiva quello che serve per la loro vita.

Spesso nei dintorni delle case si vedono gli enormi Yak meglio conosciuti come buoi tibetani. Si tratta di bovidi imponenti con le corna rivolte verso l’alto e ricoperti da una folta pelliccia che cade naturalmente in primavera. Il pelo viene utilizzato per fare indumenti, coperte e tappeti, il latte usato per ottenere burro e formaggi.

Meno frequentemente si vede il takin (Budorcas taxicolor ) l’ animale nazionale del Paese. Si tratta di uno strano, massiccio e goffo animale (f.7)

imparentato col capricorno e con la mucca, la cui evoluzione scientifica è alquanto incerta. Secondo la leggenda, quando il lama Drukpa Kunley visitò il Bhutan nel XV secolo una numerosa folla di devoti si radunò attorno a lui per essere testimoni dei suoi poteri magici. Il Lama, con un fare poco ortodosso, ordinò per prima cosa una mucca intera e una capra per pranzo. Divorò queste con gusto, lasciando solo le ossa. Dopo aver finito, prese la testa della capra e la mise sulle ossa della mucca. In seguito, schioccando le dita, ordinò alla strana bestia di alzarsi in piedi e di andare a pascolare sui monti. Tra lo sbigottimento degli astanti l’animale si rizzò in piedi e corse verso i prati. Da quel giorno i suoi discendenti si possono vedere al pascolo sui prati delle vette dell’Himalaya orientale.

I takin sono però animali in estinzione e affinchè ciò non avvenga il Re ha creato un centro apposito dove gli strani animali vengono fatti riprodurre e poi rilasciati in natura.

La gente vive principalmente nelle valli e la comunicazione tra una valle e l’altra è difficile per via dei passi molto alti da cui si gode una vista meravigliosa sulle cime himalayane (f.8),

ma che sono faticosi da raggiungere soprattutto a piedi, il principale mezzo di locomozione per la popolazione delle valli.

Tutto ciò aumenta il senso di individualità e indipendenza di questa gente fisicamente molto forte e con un aperto senso dell’umorismo coniugato ad una forte solidarietà e disponibilità all’aiuto reciproco (f.9-12).

Nessuno resta senza un tetto sotto il quale dormire o senza cibo da mangiare. Si vedono persone, soprattutto donne, che camminano lungo interminabili strade di montagna senza una borsa, senza uno zaino e ti dicono, magari ridendo, che devono andare a decine di chilometri di distanza e che impiegheranno un mese per arrivare alla meta. Sanno che lungo la strada otterranno vitto e alloggio e magari qualche passaggio dai pulmini dei turisti in transito.

Per le strade, oltre ai monaci e alle donne, c’è una grande popolazione di cani di vari colori, varie conformazioni e vari stati di salute. I cani dormono tutto il giorno anche in mezzo alla strada, sui marciapiedi, ovunque, incuranti di ciò che accade attorno a loro. Solo verso sera si animano in cerca di cibo e tengono compagnia a tutti fino a mattina.

Di gatti, invece, se ne vedono pochi. I gatti bhutanesi assomigliano agli abissini sia nella corporatura che nel mantello che è di color nocciola leggermente screziato. Sono animali selvatici ed è raro incontrarli.

Custodi della salvaguardia dell’integrità della natura e della cultura del Paese sono il giovane Re e la Regina per la quale il Re ha rinunciato alla poligamia. L’ambiente rurale della monarchia bhutanese favorisce un contatto stretto tra il Re e il suo popolo. L’attuale monarca, proprio come suo padre, ha scelto di vivere in modo molto semplice, con un minimo di cerimonie e si preoccupa molto di più del benessere dei cittadini che del rituale di corte. Ogni mattina dopo le preghiere di rito, si reca in ufficio dove svolge attività amministrativa insieme ai suoi collaboratori. L’ ufficio è collocato nello Dzong (f.13)

della capitale, uno dei più belli del Paese. Gli Dzong sono bellissime costruzioni edificate nel XVI secolo e molto diffuse in Bhutan con funzione di centro religioso, militare, burocratico, amministrativo e sociale dei vari distretti. Di fatto sono i luoghi in cui si riuniscono i poteri che governano il Paese ai quali i cittadini possono rivolgersi.

Non esistono caste sociali ben definite come nella vicina India. Anche la differenza tra il tenore di vita delle diverse famiglie è limitata. La donna gode degli stessi diritti dell’uomo. Ognuno può vivere come gli pare e non necessariamente deve sposarsi. I costumi sessuali sono liberi. E’ legale anche la poliandria. Molto amati e curati i bambini e gli anziani. Non esiste nemmeno il concetto di residenza per gli anziani.

Il turismo non è al centro dell’attività del Paese e i pochi turisti che ci arrivano vengono gestiti dall’ agenzia turistica nazionale. Il costo giornaliero richiesto dalla agenzia è indubbiamente alto e scoraggia la maggior parte dei possibili turisti, ma comprende tutto, dalle necessità per dormire, all’alimentazione, agli spostamenti, alle guide locali.

La maggior parte dei turisti sono sportivi che si avventurano in trekking lungo le pendici dell’Himalaya anche fino alle vette più alte oppure persone desiderose di cogliere ancora ciò che resta in questo mondo di intimo e di umano.

L’ architettura è un altro aspetto significativo della identità di questo paese che abbina importanti competenze architettoniche a delicate bellezze estetiche sia nelle grandi fortezze monasteriali che nelle singole case. Molti ponti sospesi decorati con le bandierine delle preghiere (f.14)

facilitano il passaggio da una parte all’ altra delle valli.

Immagini dipinte a mano di uccelli e fiori himalayani, animali ed anche falli ornano le pareti esterne delle case. In effetti, visitando il Monastero Chimi Lhakhang, il Monastero della fertilità, e i villaggi nei dintorni, si vedono elementi fallici di ogni forma, dimensione e colore dipinti sulle case (f.15).

Si tratta di una tradizione che trova origini nel XV secolo grazie all’eccentrico monaco Drukpa Kunley, famoso per i suoi metodi anticonvenzionali di insegnare il Buddismo basati anche sui rapporti sessuali. Il monastero ancora oggi viene raggiunto da coloro che vogliono avere un figlio e dai turisti incuriositi ai quali viene offerta la benedizione con un tocco di fallo sulla fronte.

Molti altri sono i Monasteri che sorprendono sia per la loro struttura che per le loro decorazioni esterne ed interne sia per la posizione in cui sono stati costruiti. Uno dei luoghi più magici dell’intero paese è certamente il monastero di Taktsang conosciuto anche col nome di Nido della Tigre (f.16),

un prominente sito sacro e complesso di templi, posto su di un picco montuoso a strapiombo sulla valle di Paro. E’ faticoso il trekking per raggiungerlo, ma la fatica viene ampiamente ricompensata. Lungo il sentiero si trova il villaggio dei monaci ed il tempio di Urgyan Tsemo che è collocato su un plateau roccioso nei pressi di un precipizio più basso. Lungo il sentiero si trova anche una cascata di 60 metri che è considerata sacra e che crea un alveo attraversabile tramite un ponte. Il complesso di templi venne iniziato a metà del XVII secolo attorno alla caverna dove il Guru Padmasambhava (Guru Rimpoche), colui che introdusse il buddismo in Bhutan e adorato come “protettore santo del Bhutan”, dopo essere stato portato qui a cavallo di una tigre volante nell’ VIII secolo,  si dice avesse meditato per tre mesi.

I dipinti presenti all’ interno del monastero, dove è assolutamente vietato fotografare, sono ancora oggi una delle attrazioni principali per l’arte, la cultura e la religione locale nonché uno scorcio suggestivo di tutto il Paese in cui si respira una atmosfera di fede vivente. La lingua, la letteratura, le arti, l’ artigianato, le cerimonie, gli eventi, i valori culturali e sociali di base del Paese derivano la loro essenza da una lunga e ininterrotta storia di Buddismo. Ancora oggi, il 98% della popolazione lo pratica con grande convinzione e il secondo genito di ogni famiglia deve entrare in monastero dove potrà rimanerci per tutta la vita oppure uscire dopo un lungo periodo di studio e meditazione.

Ogni mattina, prima di iniziare le attività quotidiane, tutti i cittadini si recano in un luogo sacro, portano una offerta, che, nonostante lo stato sovvenzioni i monasteri, è necessaria alla vita quotidiana dei numerosi monaci e spesso anche delle scimmie se queste riescono ad introdursi furtivamente nei punti giusti al momento giusto.

Al mattino i fedeli, durante i rituali giri che compiono in senso orario attorno al cuore del tempio, fanno le loro offerte, cantando litanie, meditando e facendo ruotare le ruote delle preghiere (f.17),

cilindri di pietra, metallo o legno, di dimensione variabile, ruotanti su un asse centrale sui quali c’è inciso in sanscrito il mantra “Om Mani Padme Hum ( gioiello nel fiore di loto)”. Essendo il fiore di loto il simbolo della coscienza umana, queste parole rappresentano una forte invocazione all’aiuto reciproco.


Durante la giornata vi è un costante richiamo alla spiritualità. Molte persone tengono in mano o al collo o arrotolate al polso le ghirlande (i mala) composte da 108 grani di semi di color ramato provenienti dalla pianta Elaeocarpus angustifolius o altre piante sacre o officinali della medicina ayurvedica.

I mala, benché richiamino i nostri rosari, sono in realtà molto più antichi. Il rosario cristiano risale infatti al XIII secolo mentre la prima attestazione dei mala è datata al II secolo a.C.

Il principale scopo di queste corone è quello di aiutare a non distogliere l’attenzione dalle pratiche spirituali.

Lo stesso vale per le bandiere di stoffa colorata su cui sono scritte le preghiere, attaccate alle rocce, agli alberi, appese su corde o legate a pali verticali (f.18).

Sono ovunque, spesso caratterizzano il paesaggio in modo fermo e gentile.

Tradizionalmente sono legate in file da cinque, ognuna di un colore diverso. I cinque colori sono sistemati da sinistra a destra in uno specifico ordine: il blu che simboleggia il cielo, il bianco l’aria, il rosso il fuoco, il verde l’acqua, il giallo la terra.

Oltre alle bandierine colorate si incontrano sui pendii delle montagne, vicino ai monasteri, in riva ai fiumi, grandi bandiere bianche verticali sostenute da alti pali piantati nel terreno che augurano a tutti salute e benessere. Gruppi di queste bandiere che ondeggiano al vento sono uno spettacolo delicato e potente (f.19).

Le tradizioni storiche del Bhutan possono essere viste ancora più in profondità e in tutto il loro splendore durante i festival religiosi, gli “tsechu”,  che si svolgono una volta all’anno (di solito in primavera o in autunno) presso i monasteri e gli dzong. I festival nazionali e regionali coincidono con le stagioni e altri eventi della natura e sono attività che impegnano la popolazione locale tutto l’anno. Le danze e le cerimonie eseguite durante i festival sono considerate forme di meditazione e devozione, finalizzate a purificare gli spettatori e garantire benedizioni per il futuro. Ogni danza ha un significato simbolico e racconta storie delle vite dei santi buddisti, demoni sconfitti e miti antichi (f.20-25).

Partecipare a queste danze è considerato un atto di purificazione spirituale, un modo per accumulare meriti. Costumi, maschere, strumenti musicali, coreografie in diurna e in notturna sono uno spettacolo emozionante per tutti, locali e turisti.

I fotografi sono inevitabilmente colti da ansia da prestazione…

Il Bhutan viene da tempo definito come il Paese più felice del mondo.

Una delle motivazioni è legata al fatto che invece del PIL (Prodotto interno lordo) per calcolare il benessere della popolazione e il successo delle politiche pubbliche il governo misura il FIL: Felicità Interna Lorda.

È l’unico Paese del mondo che usa questo sistema. L’idea di misurare la felicità e non la ricchezza – come invece fa il PIL – fu introdotta alla fine degli anni Settanta dal quarto re del Bhutan e fu codificata nel 2008 quando fu inserita nella Costituzione nazionale: in quell’anno il Bhutan passò da essere una monarchia assoluta a una monarchia costituzionale con un Parlamento ed elezioni democratiche dopo un lungo processo di convincimento della popolazione, ben descritto dal toccante e ironico film “C’era una volta in Bhutan” del giovane regista indiano Pawo Choyning Dorji.

L’ indice della Felicità Interna Lorda, ha contribuito alla popolarità del Bhutan ed è una delle idee centrali attorno a cui ruota la vita politica bhutanese.

L’idea alla base di questa decisione è che il benessere di un Paese non deve dipendere unicamente dalla grandezza della sua economia e dalla crescita economica. Calcolare la Felicità Interna Lorda è utile per separare l’idea di felicità e benessere da quella di crescita economica e avere un approccio più sostenibile ed equo al concetto di progresso.

Il FIL viene calcolato attraverso 33 indicatori che misurano nove “domini di felicità”: benessere psicologico, salute, livello di istruzione, uso del tempo e standard di vita dei cittadini, diversità culturale e biodiversità, buon governo e vitalità della comunità.

Il dato finale si ottiene incrociando statistiche oggettive (come ad esempio quante persone hanno raggiunto un determinato livello di istruzione) e sondaggi nazionali in cui viene chiesto direttamente ai cittadini quanto si sentano felici sulla base di questi campi. Alla fine, la popolazione viene divisa in quattro gruppi: profondamente felice, ampiamente felice, poco felice e “non ancora felice” e su questi dati il governo fa la sua programmazione di interventi.

Secondo gli ultimi risultati ufficiali, nel 2022 il 48,1% delle persone del Bhutan di età pari o superiore a 15 anni è stato classificato come felice, rispetto al 40% del 2010.

Certo è che a fronte del 48,1% delle persone classificate come felici, una persona su otto in Bhutan vive sotto la soglia di povertà calcolata secondo gli standard occidentali. Probabilmente, però, sono standard non applicabili in quelle zone.

Di fatto circa il 6% delle popolazione giovanile è emigrata in Australia in cerca di migliori opportunità lavorative. Preoccupato per questa emigrazione il Re sta mettendo in pratica un progetto ambizioso e visionario che consiste nella costruzione di una nuova città al confine centro meridionale del paese la Gelephu Mindfulness city (Gmc) per un milione di persone.

La Gmc si ispira alla cultura bhutanese, ai principi dell’indice di FIL e al forte patrimonio spirituale del Paese. Avrà una Amministrazione Speciale, sfrutterà la sua posizione e la sua connettività con l’Asia meridionale e sudorientale per gettare le basi della futura crescita del Paese e creare opportunità economiche per i suoi cittadini attraverso investimenti in tecnologie verdi, istruzione e infrastrutture. Progettato dal team di progettazione urbana e paesaggistica, il masterplan comprende un nuovo aeroporto internazionale, collegamenti ferroviari, una diga idroelettrica, spazi pubblici e un linguaggio per le tipologie edilizie locali, basato sui nove domini: Psychological Wellbeing, Health, Education, Living Standards, Time-Use, Ecological Diversity and Resilience, Good Governance, Cultural Diversity and Resilience, and Community Vitality.

Direttamente dalle parole del Re: “Questo progetto vuole essere una testimonianza del legame indissolubile dell’umanità con la natura e con la religione e un esempio globale di come costruire una presenza umana sostenibile sulla Terra”.


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