BISOGNI E PREGIUDIZI

In Italia, parlare di disabilità significa spesso raccontare un mondo parallelo, invisibile, ma densamente popolato. Un mondo fatto di fatiche quotidiane, equilibri precari e risorse che sembrano sempre insufficienti. In questo scenario, il Welfare Aziendale rappresenta una delle poche leve concrete che possono generare un impatto diretto, umano, e misurabile sulla vita delle persone. Ma quando si parla di contributi a supporto della disabilità familiare, qualcosa ancora non torna.

Partiamo da un dato concreto, spesso ignorato: nel sistema di Welfare Aziendale italiano, il dipendente che è caregiver di una persona con disabilità può ricevere un contributo economico. Un sostegno legato al suo ruolo di familiare assistente. Tuttavia, non esiste alcuna forma equivalente di erogazione diretta per il disabile stesso, anche se lavora all’interno della stessa azienda. In altre parole, se sei un dipendente con disabilità, non hai diritto a quel contributo. Ma se sei il fratello, il figlio, il partner del disabile e lavori nella stessa azienda, sì.

Il messaggio implicito è inquietante e, diciamolo, profondamente sbagliato: il sistema presume che la persona con disabilità non sia lavoratrice, che non sia soggetto attivo del proprio destino, che non abbia voce in capitolo rispetto ai propri bisogni. Il concetto di “cura” resta ancorato a un modello assistenzialista, paternalista, dove la persona disabile è oggetto di cure, mai soggetto autonomo.

Questo approccio è doppiamente penalizzante. Da un lato, lascia il lavoratore disabile fuori da un sistema di welfare che dovrebbe, per definizione, includerlo. Dall’altro, costruisce un modello che riconosce il bisogno solo quando passa attraverso un familiare, legittimando l’idea che la disabilità si gestisca in casa, tra le mura domestiche, e non nel mondo del lavoro o nella società.

Il paradosso è servito. Un’azienda, oggi, può premiare economicamente un dipendente che si prende cura del proprio familiare disabile, ma non è tenuta a sostenere economicamente il dipendente disabile stesso. È come se si dicesse: “Sei disabile, quindi non puoi essere anche un lavoratore. Non puoi aver bisogno di supporto, perché sei tu il problema, non il sistema”.

Eppure, le persone con disabilità lavorano. Studiano, fanno carriera, contribuiscono. E come tutti, hanno bisogno di strumenti di welfare pensati per le loro specificità. Perché il benessere non può essere un lusso concesso solo ai caregiver. Deve essere un diritto anche per chi vive ogni giorno sulla propria pelle i limiti di un sistema che fatica a includere.

Una vera parità passa anche da qui: riconoscere che la persona disabile ha diritto di stare nel mondo, nel mondo del lavoro, con pari dignità e accesso alle stesse opportunità. Questo significa che deve poter guadagnare abbastanza per garantirsi le cure, l’assistenza, la vita autonoma e dignitosa che ogni cittadino merita. Se il sistema esclude il lavoratore disabile dall’accesso a premi, benefit e strumenti di supporto, gli sta dicendo, in sostanza, che la sua presenza nel mondo produttivo è solo tollerata, non accolta.

Questa impostazione nasce da una legge che, a oggi, appare anacronistica e persino delinquenziale, nel senso più civile e politico del termine. Perché taglia fuori i cittadini italiani con disabilità dal sistema dei diritti, come se fossero corpi estranei, elementi di disturbo, eccezioni da gestire e non persone da includere.

Nel contesto del Welfare Aziendale, allora, servirebbe un cambio di passo. Le aziende possono e devono giocare un ruolo più coraggioso, più diretto. Alcuni esempi virtuosi già esistono: realtà che prevedono indennità specifiche per caregiver, permessi extra, consulenze psicologiche gratuite, servizi di care management. Ma è ora che questo stesso livello di attenzione venga rivolto anche ai dipendenti con disabilità.

Questo approccio è più giusto, più efficace e più umano. Perché riconosce il valore della persona disabile non solo come destinatario di cura, ma come soggetto attivo. Perché rompe quella narrazione per cui “è normale” che una madre lasci il lavoro per occuparsi del figlio con disabilità, ma non che quel figlio cresca, studi, lavori e abbia diritto a un bonus welfare come tutti gli altri colleghi.

Il cambiamento è possibile, ma serve un cambio di prospettiva. Serve che aziende, istituzioni e lavoratori si siedano allo stesso tavolo per ridefinire insieme cosa significa davvero inclusione.

La cura non è un favore. E la disabilità non è un limite alla partecipazione. Un welfare equo è quello che riconosce il bisogno senza pregiudizi. Un welfare che abbia il coraggio di dire: “Ti vedo, ti riconosco, ti sostengo”. Anche quando non sei solo il familiare, ma sei la persona. Il lavoratore. Il cittadino. Il protagonista della tua storia.