Gli Italiani sono un popolo di migranti, per lo più abituati a percepirsi come tali, nonostante le ultime ondate migratore dall’est Europa e dal sud del mediterraneo.
Negli anni però è decisamente cambiato il profilo dell’italiano che va via dal Belpaese. Il lavoro resta la motivazione più frequente, ma oggi chi emigra ha mediamente più competenze e più istruzione di quanta ne avevano gli immigrati nel secolo scorso.
Il magazine IL MONDO NUOVO in edicola dal 20 MARZO (e in alcune librerie e supermercati) ospita un saggio breve di Giuseppe Bea dal titolo BRAINS DRAIN in cui l’autore descrive i nuovi migranti italiani del XXI secolo.
Anticipiamo qui parte dell’articolo di Giuseppe Bea cui ha collaborato il professor Franco Pittau, Presidente onorario del Centro Studi per l’Immigrazione IDOS.
“La grande crisi economica del 2008, la vicenda LEHMANS BROTHERS, che in Italia arrivò in modo virulento tra il 2009 ed il 2010 ha innescato un movimento migratorio soprattutto di giovani italiani come non si vedeva da qualche decennio. Dal 2011 al 2021 sono usciti dal nostro Paese, secondo i dati ISTAT 377.000 italiani tra i 20 e i 34 anni verso i Paesi, si diceva una volta, più avanzati. Una cifra apparentemente non significativa se, non si da il caso che essa è sottostimata.
Essa va almeno moltiplicata per tre cioè circa 1.200.000. Una ondata di migranti di “brain drain” che ci richiama a dimensioni non molto lontane a quelle del passato. Mentre oggi il dibattito politico, quando si affrontano le politiche migratorie, è tutto incentrato sulle problematiche demografiche della natalità e dei flussi migratori in entrata, si perde di vista il fenomeno degli espatriati che è indice di una morte annunciata per il futuro del nostro Paese.
Per ogni straniero che entra in Italia, ne corrispondono ben circa otto che se ne vanno.
Comunque sia il dato ISTAT, pur sottostimato ci dice che esiste un circuito di libera circolazione giovanile al quale noi non partecipiamo se non come donatori di intelligenze formate a spese del contribuente e dello Stato italiano senza averne un ritorno. Sempre dalla ricerca summenzionata rileviamo il dato che i giovani stranieri laureati che entrano in Italia sono nel decennio, appena 51.000 ovviamente per gli stessi motivi che invogliano i nostri giovani ad andare via scoraggiano quelli di altri Paesi a venire in Italia.
Noi siamo all’ultimo posto per attrattività con appena un 6% di gradimento tra i giovani intervistati, il perché è ben noto: siamo attrattivi per il turismo e tanti giovani ogni anno invadono l’Italia attratti dalle nostre bellezze, ma per studio e lavoro non è la stessa cosa. Siamo un Paese poco attrattivo per una serie di cause anche infrastrutturali, di mobilità, di rapporto con la pubblica amministrazione e di servizi in generale ma soprattutto c’è un atteggiamento molto diverso verso la cultura del lavoro. In primis da noi non esiste il cosiddetto ascensore sociale, siamo ancora divisi in caste professionali e di potere, il merito è una chimera. Diverso è l’atteggiamento all’estero verso i giovani, là vengono responsabilizzati e avviati a carriere importanti se meritevoli indipendentemente da fattori che da noi sono legati a quella che chiamiamo “cultura del particulare”: da noi per sperare in qualche ruolo bisogna essere vecchi e sempre però legati a cerchie di potere o gruppi o gruppetti di pressione. I giovani spesso sono sfruttati.
In Italia mancano politiche credibili che rendano fluido non solo il mercato del lavoro ma che esaltino le qualificazioni professionali ed il merito di studio, e diano modo ai più capaci attraverso giudizi di autorità indipendenti sia a livello di lavoro pubblico che privato di occupare i posti migliori nell’interesse del Paese. Ne gioverebbe non solo l’economia in generale ma la cultura in particolare. Servono politiche di sostegno per i giovani che forniscono loro tutte le possibilità di potersi costruire un futuro di soddisfazioni nella vita personale e nel lavoro. La perdita di capitale umano rischia di comportare stagioni di decrescita economica e sociale impressionanti, ma soprattutto accentuare il calo demografico già in atto sia di persone ma anche di imprese, non permettendo di accedere a tutti i processi innovativi che il digitale offre e che l’ economia verde fa intravedere. “
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