CARMINE FOTIA
La sconfitta della destra in Sardegna è indubbiamente una buona notizia per le opposizioni, perché offusca il mito dell’invincibile Giorgia e ne punisce l’arroganza (il suo vero punto debole). Se la maggioranza farebbe bene a riflettere sui suoi errori le opposizioni (e in particolare il Pd) commetterebbero però un grave errore se interpretassero il voto sardo come il segnale di una irreversibile crisi della maggioranza e del governo e della maturità di un’alternativa ancora lontanissima. Cessati i legittimi festeggiamenti il Pd dovrebbe riflettere sui dati reali del voto sardo.
- La destra perde per una serie di errori sia di carattere nazionale che locale. In primo luogo, sottovalutando il fatto che l’immagine di un governo che manganella i ragazzini, messa in luce dal duro intervento del capo dello stato, avrebbe suscitato una mobilitazione che ha compattato e motivato l’elettorato di centrosinistra. Quanto al territorio, dopo la gestione disastrosa del governatore uscente targato Lega, per rimpiazzarlo, Giorgia Meloni ha scelto un suo fedelissimo incurante del fatto che il sindaco di Cagliari, Paolo Truzzu, detto Trux, era talmente impopolare da essere stato umiliato nella sua stessa città.
- Alessandra Todde, candidata da Pd e M5S, ha un’ottima performance personale sulla quale ha influito molto il discredito dell’avversario. Se si guarda ai voti di lista, però, il discorso cambia e vede il centro destra in vantaggio. Da ciò ne deriva che se si fosse votato per elezioni politiche, con gli stessi risultati e gli stessi schieramenti, avrebbe vinto il centrodestra.
- In Sardegna non ha vinto il “campo largo”, se con questo intendiamo una coalizione che raccolga tutta l’opposizione al governo di destra, bensì un’alleanza tra Pd, sinistra e M5S che ha tenuto fuori i moderati del centrosinistra, confluiti nell’appoggio a Renato Soru. Il suo 8% non ha impedito la vittoria di Alessandra Todde nella competizione regionale, ma se vogliamo tentare una proiezione politica nazionale il voto sardo ci dice che, se anche a livello nazionale si riproducesse la stessa situazione, il centro destra vincerebbe di nuovo e a man bassa. E temo che ciò sarà chiaro alle prossime elezioni europee.
Esultare, dunque, ma con giudizio, perché i nodi politici che impediscono che si realizzi quel campo largo onnicomprensivo (unica possibilità di sconfiggere la destra a livello nazionale) sono tutti ancora irrisolti. A cominciare dal rapporto con il M5S perché Conte pensa che l’alleanza con il Pd funziona solo se a guidarla è lui e il Pd, come si dice a Roma, “je porta l’acqua con le ‘recchie”, come avvenuto nel governo giallorosso.
Ci sono poi enormi differenze in politica estera, sulla Nato, sull’Ucraina, su Israele e Palestina, con il M5S a presidiare il campo “pacifista” ammiccando a Putin. Tutte questioni che non influiscono su un governo regionale, ma che diventano dirimenti nel governo nazionale: cosa farebbe oggi una maggioranza dominata da Conte sulla necessità di continuare a sostenere l’Ucraina?
È del tutto evidente, quindi, che affidare la guida della coalizione a un leader populista significherebbe abdicare al ruolo di equilibrio tra le spinte più moderate e quelle più radicali che i partiti socialdemocratici esercitano in tutta Europa e che, sia pure tra enormi difficoltà per la forza del populismo e della destra, è l’unico modo (Inghilterra docet) per conquistare la maggioranza degli elettori. E tra gli elettori c’è, in Sardegna come in Italia, circa un dieci per cento che non voterebbe mai per una coalizione a guida populista. È vero anche il contrario e per questo è difficilissimo far quadrare il cerchio.
Con tutti i suoi difetti, che sono enormi, il Pd è l’unico che potrebbe riuscirci, rivendicando con orgoglio un riformismo popolare concreto e fattivo – in grado di contrastare le enormi diseguaglianze che alimentano destra e populisti, svuotandone il bacino di consenso – e un’identità europeista e atlantica.
Rivendicando dunque l’egemonia sulla coalizione larga. Insomma, quel che secondo me il Pd dovrebbe fare, ecco un consiglio non richiesto e che resterà del tutto inascoltato, è il contrario di quel che suggeriscono quanti (e sono tanti anche nel Pd) indicano il ritorno ai tempi di Conte “fortissimo punto di riferimento” dei progressisti.
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