Non sempre idee e realizzazione sono sulla stessa linea d’onda; infatti, spesso, capita che determinate performance, nonostante i supporti dei vari apparati tecnologici e non solo, non comunicano ai fruitori le stesse intenzioni e/o emozioni che hanno ispirato le opere degli artisti.
In un’epoca come la nostra, così esigente, anche dal punto di vista squisitamente artistico, abituata a concepire l’arte in base a canoni classici e stereotipati, può capitare di non comprendere appieno l’essenza delle varie rappresentazioni moderne. Sta di fatto che le persone, di fronte ad opere nuove, a volte, rimangono perplesse e, se interpellate per un giudizio, mettono, come si suol dire, le mani avanti dicendo che esse sì si intendono di arte ma solo di quella antica. In verità forse esse non si intendono nemmeno di quella antica poiché, se così fosse, sarebbero in grado di scorgere nelle opere contemporanee quella antichità di cui noi siamo i diretti discendenti. Spesso però gli stessi artisti, che, pur rispondendo alle proprie pulsioni artistiche entrano in conflitto con le loro idee depistando gli indizi formali cosicché il pubblico ne risulta disorientato.
Un’artista contemporanea tra le più conosciute è Marina ABRAMOVIC, serba nata a Belgrado, grande performer ha iniziato il suo discorso artistico fin dagli anni settanta portando una ventata di aria nuova nel campo dell’arte, sia per le sue idee, sia per la sua stessa vita che si è intrecciata con quella di ULAY altro rappresentante performer suo importante compagno di vita e di lavoro. La Abramovic ha impostato il suo concetto di arte su una condizione performativa quale performer eccezionale ha usato fin dall’inizio il suo corpo come esplorazione di relazioni fra l’artista e il pubblico e il contrasto tra i limiti del corpo stesso e la possibilità della mente. Tra le tante performance è utile ricordarne alcune tra le più interessanti, come Rythm O avvenuta nella Galleria Morra di Napoli nel 1974 e durata sei ore, tesa ad inglobare le tensioni tra abbandono e controllo e BalKan Baroque alla Biennale di Venezia del 1977 per la quale le fu assegnato il “Leone d’oro” finalizzata a condannare gli orrori della Guerra nei Balcani.
Questo e tanto altro è Marina Abramovic, nessuno mai ha contrastato il suo cammino artistico anche se non sono mancate le vare correnti avverse ma che non hanno certo creato ostacoli anzi hanno accresciuto la notorietà dell’artista. Allora io mi chiedo: Perché mai un’artista di tale successo e notorietà, che ha sempre creduto nella sua arte effimera e nel “hjc et nunc”, alla soglia della sua età matura cerca giovani artisti che sappiano portare avanti nel tempo ciò che lei stessa, letteralmente, con la sua persona ha realizzato nella sua lunga carriera?
Perché mai si pone l’interrogativo di cosa resterà delle sue opere, al di là delle riprese e fotogrammi impressionati sulle pellicole?
Cosa può spingere una persona dopo essere stata così innovativa, per se stessa e per l’arte, sempre bordline a dettare i canoni della sua arte e a consentire ai suoi alunni di eseguire le performance al suo posto?
Nel campo della cultura visuale ciò può risultare contraddittorio in quanto l’uomo si è sempre servito della distruzione delle immagini costruite forse perché, col tempo, non si riconosce più in alcuni passaggi oppure, come accade per le religioni monoteiste, per dimenticare Dio o l’assenza di un Dio senza volto.
A dicembre del 2016 è uscita un’autobiografia della Abramovic scritta con James Keplan intitolata “Attraversare i muri”. Il libro descrive la storia della trasformazione della performance art da sperimentazione a canone artistico, che inizia nei circoli artistici degli studenti alternativi di Belgrado e si conclude con la creazione del MAI e cioè del “Marina Abramovic Istitute” di New York.
Credo che la necessità di lasciare ai posteri la traccia del tempo trascorso qui, è qualcosa insita nella nostra natura umana, l’idea di passare alla storia, di essere ricordati crea l’illusione che si possa sfidare il tempo per conquistare un po’ d’immortalità per confrontarci con l’eternità che non ci appartiene in quanto essere finiti in un tempo concentrato senza scampo, ma alla quale tendiamo senza averne conoscenza.
In un bel libro di Pasquale Festa Campanile “Per amore solo per amore” Giuseppe, padre adottivo di Gesù in punto di morte si rammarica perché non passerà mai alla storia, nessuno si ricorderà della sua vita dei suoi gesti perché nulla di particolarmente importante aveva realizzato! Quindi non aveva coscienza che, comunque, sarebbe passato alla storia sua malgrado.
Quello che conta è la coscienza delle proprie azioni, di quanto ognuno sia importante, indipendentemente dalla condizione qualunque essa sia perché, essendo anello, se pur piccolo dell’umanità, contribuisce alla continuazione della specie umana.
Cosa resterà?
Dalisca Roma, 27 aprile 2023
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