Tra tutte le parole del vocabolario, cultura è una delle più belle. Per me almeno.
Lo è in senso etimologico, poiché deriva dal verbo latino colere, che significa coltivare la terra. Lo è in senso traslato, perché dall’idea di “culto della terra” il termine è passato a indicare l’istruzione e la buona educazione di un essere umano così come il grado di evoluzione di una società intera. Lo è in senso semantico: in ognuna delle sue accezioni, “cultura” sottintende la cura, l’attenzione e la fatica richieste affinché un albero dia frutti, un animo sappia guardare con consapevolezza alla vita, una società sia in grado di evolvere in maniera dinamica, tollerante, libera e aperta al nuovo. Lungi dall’incarnare la pura erudizione, la cultura allude quindi alla profondità individuale e alla civiltà collettiva.
Noi, che siamo un luogo vecchio e stanco del mondo, abbiamo perso cammin facendo il gusto della cultura: del suo senso e del suo valore. La giovane Africa no. Per questo, di tutte le chiavi di accesso che riescono ad aprirne le porte la cultura è la più importante. Vorrei argomentare l’affermazione considerandola da due prospettive diverse e complementari: in sintesi una “riflessiva” e una “attiva”.
Il primo biglietto da visita
Per “cultura riflessiva” intendo la fase di preparazione e di studio: il background di conoscenze che si riesce a costruire prima di andarci. Non è sufficiente infatti leggere gli ultimi articoli di giornale. È bene leggere di tutto. Leggere e basta: saggi storici, metodi antropologici (tra cui i famosi parametri valutativi di Geert Hofstede che ho citato), romanzi, poesie, ricette di cucina e manifesti pubblicitari relativi al Paese in cui ci si deve recare. Questo bagaglio di conoscenze rappresenterà il nostro primo biglietto da visita e un vantaggio competitivo più importante di quanto si possa supporre. Illustro ciò che intendo con un esempio.
Pochi mesi dopo il mio arrivo in Africa, quando ancora lavoravo come avvocato, andai in Senegal con un cliente italiano che aveva un problema da risolvere in quel Paese. Io non ero abbastanza preparato e lui neppure. Nel corso della conversazione, il nostro interlocutore senegalese, uomo colto, elegante nei modi e severo nell’animo, per dirci quanto fosse tenace e quanto poco lo spaventassimo con le nostre chiacchiere occidentali, citò in francese due versi che ho già menzionato in queste pagine: «Nous sommes les hommes de la danse / dont le pieds reprennent vigueur en frappant le sol dur». Li tradussi sottovoce al mio accompagnatore che lo guardava stupito, senza capire: «Noi siamo gli uomini della danza, / i cui piedi riprendono vigore colpendo il suolo duro». Quasi per aiutarci, il nostro ospite aggiunse: «Sono di Sédar Senghor». Il mio cliente ebbe allora l’idea, veramente pessima, di replicare in inglese – la lingua che stavamo usando nella conversazione – «E chi è?». L’altro si irrigidì e cambiò espressione. Il seguito dell’incontro fu assai difficile e dovetti impiegare tempo, fatica e diplomazia per raggiungere alla fine un accordo, che si rivelò comunque meno conveniente di quel che sarebbe potuto essere.
Per un senegalese il fatto che un suo interlocutore straniero non conosca nemmeno il nome del primo presidente della Repubblica dopo l’indipendenza, il quale in aggiunta è un grande poeta e uno dei più prestigiosi intellettuali africani del XX secolo, è del tutto inaccettabile. Significa ai suoi occhi che il signore che ha di fronte non solo è poco istruito, ma non ha dato peso all’incontro e non si è preparato per affrontarlo.
Lasciata Dakar e rientrato a Nairobi, dove abitavo, per prima cosa ordinai Canti d’ombra, il libro da cui la poesia era tratta: mi dissi che sapevo chi fosse Senghor, ma non conoscevo abbastanza le sue opere. Il primo testo che lessi fu proprio quello citato dal signore senegalese. Ne riproduco alcuni versi perché sono ricchi di significati:
«Ecco che muore l’Africa degli imperi,
agonia di principessa pietosa,
ed anche l’Europa a cui l’ombelico ci unisce. […]
Fate che noi rispondiamo presente alla rinascita del mondo
come il lievito alla bianca farina. […]
Ci dicono uomini del cotone, dell’olio, del caffè,
ci dicono gli uomini della morte.
Ma noi siamo gli uomini della danza,
i cui piedi riprendono vigore colpendo il suolo duro».
Non solo ci sono in queste parole la storia e la fierezza africane, ma anche l’evocazione del legame “ombelicale” con l’Europa, i cui destini, allora come oggi, sono connessi a quelli dell’Africa. Il concetto di Eurafrique era centrale nel pensiero di Senghor. E lo resta nel nostro avvenire.
La seconda volta che visitai il Senegal, in questo caso con alcuni colleghi della grande impresa italiana per cui avevo iniziato a lavorare, li preparai meglio. Oltre a raccontare diffusamente la storia del poeta-presidente, spiegai un paio di cose della cultura senegalese che mi parevano essenziali.
Il primo è il rispetto per gli anziani, che accomuna tutti i Paesi africani. In swahili li si chiama mzee. E la presenza di un mzee è vista sempre come un dono di saggezza e un segno di buon auspicio in ragione della sua longevità. I mzee sono accolti con deferenza, serviti per primi, aiutati nelle loro incombenze e soprattutto ascoltati con attenzione. Ne consegue, per gli europei, la necessità di adeguarsi, con uguale rispetto, alle stesse regole, che noi troppo spesso trascuriamo.
Il secondo suggerimento che ritenni di dover trasmettere fu relativo alla tendenza senegalese a imbastire lunghe conversazioni, che mettono volutamente alla prova la pazienza dell’interlocutore. Non per nulla un proverbio locale dice «chi vuole il carbone sopporti il fumo». Chi mira a un obiettivo, deve accettare i sacrifici che ne derivano.
E qui passo alla cultura in senso “attivo”, con cui intendo la capacità di interagire con gli africani in modo “colto”: con attenzione all’altro e consapevolezza dell’età, genere, ruolo, costumi e storia di chi si ha di fronte. È questa associazione di valori che li interessa: l’istruzione certamente e soprattutto la sensibilità umana che dall’istruzione deriva.
Aggiungo che, in parallelo al rispetto autentico che nutrono per gli anziani, l’importanza riservata all’istruzione è l’investimento che riservano ai loro giovani. Sanno più di noi che la cultura possiede un ROI o Return on Investment, come si dice nel mondo finanziario, elevatissimo dal punto di vista sia personale sia sociale. Basti pensare che la media UE degli investimenti per la pubblica istruzione è di circa il 4,7% del PIL, quella dell’Italia del 3,9% (siamo tristemente gli ultimi in Europa). Quanto all’Africa, i dati della Banca Mondiale ci dicono che alcuni Paesi, come la Namibia, la Sierra Leona o il Botswana, investono tra l’8 e il 10% e altri, come il Kenya, il Senegal o il Mozambico, tra il 5 e il 6%. Beninteso, la differenza in valori assoluti resta elevata, ma le percentuali sono segno di un diverso ordine delle priorità. Quattro esempi concreti, due storici e due attuali, ne sono prova.
Torno ancora a Sédar Senghor: egli fece della cultura un fondamento della sua politica nei vent’anni in cui fu presidente del Senegal. Considerò il rilancio delle arti autoctone uno strumento per costruire l’unità del continente attraverso un nuovo sentimento identitario pan-africano e, nello stesso tempo, per acquisire maggiore influenza in Europa. Nonostante i suoi scarsi denari riuscì a costruire scuole, biblioteche, archivi e musei.
Tenace sostenitore della scuola, dell’educazione e della cultura fu anche, diecimila chilometri più a sud, il mito africano per eccellenza: Madiba o Nelson Mandela. Dopo otto anni di lotta contro l’apartheid e ventisette di carcere, scelse da presidente del Sudafrica la via della riconciliazione e considerò l’istruzione il metodo più efficace per conseguirla perché avrebbe permesso ai neri di arrivare a svolgere le stesse professioni dei bianchi e ai bianchi di guardare ai neri con occhi diversi. Dichiarò all’inizio del suo mandato:
«L’educazione è il grande motore dello sviluppo personale. È grazie all’educazione che la figlia di un contadino può diventare medico, il figlio di un minatore capo-miniera o un bambino nato da una famiglia povera presidente di un grande Paese. L’educazione è l’arma più potente che abbiamo per cambiare il mondo».
L’allusione autobiografica è evidente e toccante. E il convincimento sincero e condivisibile.
Le parole e le azioni di questi due uomini di grande influenza hanno nello stesso tempo risposto a un’esigenza imperiosa di crescita dei loro popoli e lasciato una traccia che resta negli animi di chi vive in Senegal, in Sudafrica e in tutti i paesi del continente.
La pagella nascosta sul cuore
Vengo ora ai nostri giorni. Ho già fatto cenno alla volontà della Cina di posizionarsi come partner privilegiato dell’Africa. Uno strumento che la Terra di Mezzo impiega per farlo è proprio la cultura. Il primo passo è stato quello di promuovere nelle scuole l’insegnamento del mandarino. Già nel 2014 questa lingua è diventata opzionale in Sudafrica, cui hanno fatto seguito l’Uganda nel 2018 e il Kenya nel 2020. Inoltre Pechino ha aperto un canale televisivo con contenuti interamente made in China e collabora costantemente con università, centri di ricerca e istituti di cultura, inviando in Africa docenti cinesi e invitando in Cina docenti africani.
Xi Jinping ha imparato benissimo la lezione di Washington, che per anni ha usato il cinema, le fictions televisive e la letteratura come strumento di propaganda subliminale presso i popoli esteri (e continua a farlo: Netflix docet). Ha capito inoltre la grande sensibilità degli africani per la cultura e gli scambi culturali, che rappresentano senza dubbio una chiave d’accesso ai loro mercati. Gli africani non sono tuttavia osservatori passivi di ciò che sta facendo. Uno di loro mi ha detto: «Sta a noi non essere solo riceventi, ma trasformatori attivi di queste opportunità».
Per passare dalla geopolitica planetaria alla vita (e, purtroppo, alla morte) di una persona qualunque, c’è un ultimo episodio di sette anni fa che vorrei menzionare. Si tratta di una vicenda dolorosa che ha colpito me come molti altri nel mondo. Quella di un ragazzino, la cui età stimata è di quattordici anni, morto in un naufragio nel Canale di Sicilia il 18 aprile 2015. Veniva dal Mali, ha viaggiato per 4.000 chilometri fino alla Libia e lì ha avuto la sfortuna di salire su un barcone troppo affollato. La sua storia è venuta alla luce quando l’anatomopatologa milanese Cristina Cattaneo, che partecipa a un progetto pilota di identificazione dei migranti morti nel Mediterraneo, l’ha raccontata nel suo libro Naufraghi senza volto, uscito a fine 2018.
È una storia semplice: la dottoressa Cattaneo nell’esaminare il corpo e gli abiti del ragazzino ha sentito qualcosa di spesso nascosto dietro la fodera della sua giacca. Era una pagella, ripiegata con cura nel luogo più sicuro, scritta in francese e in arabo e piena di dieci.
Quella pagella ha commosso tutti: la gente comune, gli artisti, le autorità e molti insegnanti. Ciro Cerullo detto Jorit, il bravo e celebre artista napoletano specializzato in street art, gli ha dedicato un murale a Palma Campania. Davanti alla porta di alcune scuole è stata messa una pietra d’inciampo che dice: «Qui aspettavamo il giovane del Mali morto il 18 aprile 2015 portando una pagella sul cuore. Ogni insegnante giusto lo avrebbe accolto». Quanto al presidente Mattarella, nell’inaugurare a L’Aquila l’anno scolastico 2019, ha dato voce ai sentimenti di tanti tra noi. «Questa pagella, che aveva il valore di un passaporto, di un accreditamento verso i Paesi in cui il ragazzo sperava di sviluppare la sua vita, la sua cultura, il suo benessere, interroga fortemente le nostre coscienze».
Speriamo continui a farlo in una penisola che, purtroppo, studia poco e dimentica in fretta.
In conclusione
Con questo testo si chiudono i miei contributi africani. Mi auguro abbiano concesso, a chi ha avuto la pazienza di leggerli, di intravedere orizzonti nuovi e comprendere una terra immensa, piena di ossimori e molto diversa dalle sue rappresentazioni abituali.
Chiudo con un pensiero in cui mi riconosco senza esitazioni. La sua autrice è la scrittrice Beryl Markham, nata nelle Midlands inglesi e morta a Nairobi dopo averci trascorso la maggior parte della sua vita. Eccolo:
«L’Africa è quello che vuoi tu e si presta a molte interpretazioni. È l’ultimo vestigio di un mondo antico e la culla di uno nuovo e lucente. Per me, e per molti altri, è semplicemente casa mia».
Anch’io considero il continente al di là del mare «casa mia». È una fortuna che la vita mi ha concesso.
Mi auguro che anche tanti tra coloro che ancora non lo conoscono riusciranno a intravedere nella sua pienezza quel «mondo nuovo e lucente» cui sta dando vita.
Se ciò avvenisse, sarebbe un bene per l’Africa. Ma soprattutto per noi.
SEGNALIAMO