Carissima piccola amica,
Non avrei mai potuto iniziare il 2023 senza augurarti Buon Anno. Davvero mi fa molto piacere immaginare che quello che avevi auspicato per te stessa e che non fosse ancora accaduto, possa avverarsi a partire da domani.
Io, per parte mia, non ho mai considerato il primo dell’anno un rito di passaggio, sono figlio del tempo di Newton, un tempo inesorabile, preciso e per di più estraneo tanto alla natura quanto alla materia. Quando sentissi raccontare di un tempo diverso, moderno, legato solo agli eventi osservati, ricordati che questo vale solo nel mondo infinitamente piccolo o molto lontano da noi, non nel mio o nemmeno nel tuo, che ormai sei diventata grande nonostante gli epiteti affettuosi con i quali ti chiamo. Oggi è solo il giorno dopo ieri, questo volevo dire, ed è questo uno dei motivi per i quali non amo festeggiare l’ultimo dell’anno con la foga con la quale lo si attende: un messia del cotechino, una frattura epistemica alle lenticchie, salvo poi accorgersi che l’indomani è diverso solo per il tasso di colesterolo. Eppure il mondo va in modo diverso, a San Silvestro sono devoti tutti, io no, e non è nemmeno l’unico caso in cui mi capita di essere opposto alla consuetudine.
Poveraccio, San Silvestro nemmeno riuscirebbe ad immaginarlo, si festeggia il 31 di Dicembre perché in quella data fu sepolto, ma qualcuno associa il rito di fine anno al passaggio che avvenne sotto il suo pontificato quando l’imperatore si convertì al cristianesimo. Una transizione, quella dal paganesimo al cristianesimo, che ha richiesto molti secoli e che per alcuni non è mai finita, altro che il giorno dopo. Eppure, è diventato il santo della svolta, il giorno del cambiamento, dell’abito nuovo, delle mutande rosse, dei piatti fuori dalla finestra.
I cambiamenti senza una transizione temporale non mi convincono, mi lasciano perplesso, quando sono troppo bruschi, mi ricordano la povera Cenerentola a mezzanotte, e che diamine! Per una volta al ballo, innamorata, vestita elegante, con una acconciatura da regina, lasciatela stare ancora un poco…. Possibile che l’incantesimo di un poveraccio debba essere sempre a tempo?
Con il conto alla rovescia no, davvero credimi, non ce la faccio.
Ci pensavo proprio l’altro giorno mentre volavo da solo verso la segregazione volontaria anti festività, volavo verso un luogo dove stare insieme ai miei libri e ai miei pensieri nel giorno in cui sembra obbligatorio allontanare la paura di star soli. Sul sedile di fianco al mio c’era la personificazione della eccitazione da “anno che verrà”. Una signora di una eleganza da gran ballo, con marito e figli seduti qualche posto più avanti, aveva l’aria di chi stesse investendo tutte le sue energie nell’organizzare quell’evento.
Curva sul cellulare, scriveva, con la velocità di un missile, fino ed oltre il fatidico annuncio: “Ladies and gentleman you are kindly requested to switch off any electronic devices”.
Aveva un’aria serena, non un capello fuori posto, mi era serenamente antipatica come mi è sempre stata antipatica Barbie che, per altro, non ho mai considerato una bella donna. Comunque ero interessato a capirne l’antropologia.
Al momento dell’atterraggio ha estratto il cellulare e lo ha acceso nello stesso momento in cui il carrello dell’aereo toccava terra, tanto che l’applauso scrosciante e liberatorio dei passeggeri si sarebbe potuto riferire al primo messaggio da lei ricevuto.
Una volta in piedi, nel corridoio, con il marito ed i figli carichi di borse, la svolta.
Un bip di WhatsApp l’aveva raggelata al punto da bloccare la fila che ansimava dietro di lei per uscire. L’ho guardata attentamente in viso, aveva l’aria sconvolta: il dubbio, l’incertezza , l’inquietudine che Sant’Agostino avrebbe attribuito ai fumi del demonio entrati di soppiatto attraverso il portello dell’aereo aperto, erano le segnavano il viso. Brutte notizie, magari tipo: il parrucchiere le ha spostato l’appuntamento, oppure l’influenza di una amica ha scombinato un tavolo di bridge; pensava cosa fare e con il pollice e l’indice della mano destra stringeva le labbra sorreggendosi il mento con il resto della mano sempre più nervosamente nervosamente, non riusciva a capacitarsi di come eventi così disastrosi non abbiano mai la giusta considerazione nei manuali per spiegare le vere ragioni della storia. Capisci perché Barbie non è mai stata il mio tipo e perché fuggo dalle feste e dalle ricorrenze appena posso.
Se ho declinato il tuo gentile invito al veglione di quest’anno non è certo per non passare una serata con te e con i tuoi amici, ma, credimi, ci sono cose che mi assalgono da dentro ed hanno più forza di qualsiasi volontà.
Sarebbe come stare in un mondo estraneo di cui non conosci le regole e in cui non parli la lingua, sarebbe pericoloso avventurarsi senza una preparazione specifica che non avrei tempo di fare.
Ma c’è anche un altro motivo, più importante ancora, e che la confidenza che ci lega mi spinge a confessarti.
Si chiamava Ronson, per me era il simbolo del potere, chi avesse avuto una qualche responsabilità di decidere ne avrebbe dovuto possedere uno. Se ci penso oggi non so dirti perché avesse su di me il fascino che sto provando nel raccontarlo, se per via della forma che accarezzava l’era dei jet supersonici, se per le immagini delle star del cinema che ne avevano sempre uno a portata di mano.
Il gesto aveva la stessa rapidità del jet, il linea con il logo ad ali spiegate che stava sul fianco di quell’accendisigari, come pronto a volare spinto da una propulsione misteriosa. Arrivava sempre prima di qualunque altro nella corsa alla conquista di una donna che, avvicinando la sigaretta alla fiamma, muoveva sensualmente gli occhi in segno di assenso e di ringraziamento, almeno al cinema era così.
Sai cosa penso? Uno dei motivi per cui Barbie mi è sempre stata antipatica è che se avessi fatto io il gesto di accendere la fiamma prima degli altri, con aria scostante mi avrebbe risposto: “fumare fa male, non te lo hanno insegnato?
Era lo strumento del potere. Sono sempre stato convinto che Prometeo, il titano che secondo il mito portò il fuoco agli uomini, fu punito da Zeus perché aveva rubato l’accendino Ronson per portarlo a papà; non posso esserne sicuro, ma il sospetto resta.
Ero troppo piccolo per averne uno, ma non per sognare di averlo.
A parte le volte in cui mio padre mi permetteva di premere il tasto affinché si potesse accendere una sigaretta, l’unico momento in cui potevo usarlo era alla conquista dei bengala di Capodanno.
I bengala erano dei bastoncini di metallo con alle estremità una sostanza grigia che a contatto con la fiamma prendeva vita e crepitava in una miriade di stelline colorate. Esistevano in due versioni, quelle maneggiabili solo da papà, considerate troppo pericolose per me dall’ansia di mia mamma, e quelle piccoline che potevo tenere in mano anch’io, sia pure con una certa prudenza e attenzione.
Per accenderle occorreva avvicinare e tenere a contatto la fiamma fino a che il bengala non avesse raggiunto la temperatura di innesco, questo necessitava di un tempo superiore a quello della durata di un fiammifero da cucina.
Ed è qui che entrava in gioco lui, il divo, il Ronson: l’accendino di papà, l’unica fiamma sufficientemente costante da innescare la combustione e dare vita alla festa. La difficoltà più grande era premere l’attivatore in modo sufficientemente brusco da provocare la scintilla per sfregamento della pietrina focaia, era decisamente duro per un bambino, il butano contenuto nel serbatoio avrebbe alimentalo la fiamma. L’operazione andava fatta con una mano sola, l’altra serviva a tenere fermo e in sicurezza il bengala.
Poi la festa, il crepitio delle stelline che volavano il tutte le direzioni, la vita.
Un odore nemico della mamma, un profumo amico che ancora oggi non assomiglia a nessun altro. Sarà stata la luce, che esplodeva all’improvviso, sarà stato il fuoco, ma a me è rimasta l’idea che fosse l’allegria di quel momento a generare la vita e che quell’accensione significasse portare all’esterno la gioia della attesa di quella notte sul balcone che durava da un anno intero.
Il big bang, deve essere andato così: dal vuoto, una esplosione di particelle indistinte che si sono moltiplicate, hanno conquistato un’identità per poi raffreddarsi, combinarsi ed arrivare fino ad oggi, a me, a te, a questa lettera che puntualmente ci unisce in un legame invisibile e immateriale.
Così pure il bengala di fine anno: in apparenza materia, poi energia, poi gioia per un bambino con un effetto vitale in grado di restare a lungo anche quando gli altri lo credevano spento.
Pensa se qualcuno vedesse quel balcone, da una stella lontana 65 anni luce, vedrebbe le fontane di stelline luminose fluire ritmicamente da tutti i balconi della strada di quel piccolo paese del sud. Vedrebbe la fine degli anni ‘50, potrebbe decifrare la presenta di gioia in quel pianeta lontano denominato terra.
Ti scrivo per assicurarti che aver declinato il tuo invito per il veglione di fine anno non è certo un rifiuto nei tuoi confronti e nemmeno disagio di trovarmi insieme a persone che non conosco; il motivo è molto diverso ed è connesso a quello che ti ho appena raccontato. Nessuna nostalgia per i bengala e per quel tempo, solo che la mia vita professionale, ormai verso la fine, ma ancora attiva, è strettamente connessa al fatto che io possa continuare a vedere le cose con gli occhi di quel bambino, il suo stupore, il calore della casa, la complicità della famiglia, se mi mancasse credo che morirei.
Se mai diventassi grande non sarei più in grado di soddisfare le esigenze di chi ha ancora bisogno di me per una visione fuori dagli schemi. Mi pagano per questo.
Ti rinnovo gli auguri con l’ottimismo del bambino: si avvererà quello che avrai saputo costruire, è quasi sempre così ed è meglio che sia così che non per caso o per grazia ricevuta.
Con immutato affetto, tuo
Aldo
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