Eccomi puntuale a rispondere ai tuoi dubbi sul mio appello a saper gestire la transizione di sistema in cui viviamo. Il sistema economico non è capace di reggere alle disuguaglianze emergenti, non trova equilibrio con il cambiamento climatico tanto da arrivare a negarlo per impossibilità ad affrontarlo, la ridistribuzione del reddito che ha garantito al mondo capitalista la sopravvivenza non ha più gli strumenti per farlo, non si può aumentare il salario quando non esiste il salariato.
Aggiungo gli effetti dell’ambiente digitale che sta modificando i modi di vita, le relazioni, fino ad avere un effetto sull’umanità intesa come caratteristica della specie umana. Non accenno nemmeno alla Intelligenza artificiale, sarà argomento futuro.
La differenza tra una crisi ed una transizione te la spiego con un esempio. Se si rompesse il motore della tua automobile, sarebbe necessario un meccanico; banale dirai tu, sì, banale, chiameresti in aiuto qualcuno dotato degli stessi saperi e delle stesse competenze di chi ha costruito la tua automobile prima che, nuova fiammante, la ritirassi dal concessionario. Riparare un sistema in crisi richiede una ingegneria interna allo stesso sistema di produzione, con le stesse regole, più è allineata alle procedure e meglio riuscirà la riparazione.
Durante una transizione, al contrario, il motore potrebbe fermarsi perché non più idoneo allo scopo per cui fu costruito, potresti essere ferma perché di fronte a una strada completamente diversa, troppo ripida per quel motore oppure potresti trovarti di fronte ad un ostacolo che prevederebbe un’auto idonea a volare. L’esempio è interessante, anche se avessi la tecnologia per farlo dovresti comunque avere una licenza di volo che non hai. Insomma, il tuo meccanico non serve. Di fronte ad una transizione di sistema occorrerebbe cambiare radicalmente il modo di affrontare i problemi, sarebbero diverse le regole del costruire, perfino il numero di telefono del tuo meccanico di fiducia sarebbe inutile.
Transizione fu passare dalla struttura agricola a quella industriale, quando i nostri nonni faticarono ad adattarsi al nuovo mondo anche a costo di crisi personali drammatiche. Rocco e i suoi fratelli, capolavoro di Luchino Visconti, racconta perfettamente questo disagio: sociale e individuale. Perdona la digressione, ma vedi come l’arte gioca un ruolo importante, un’opera come quella, in poco più di due ore, ti lascia quello che dovresti studiare in anni di documentazione. Non che non sia utile studiare, ma l’arte consente a chiunque di conoscere un problema, non come uno studioso, ma in linea con la contemporaneità, perché costruisce storie sulla base di quel misterioso rapporto tra emozione e conoscenza che intuito da Kant nella sua Critica del giudizio, trova oggi conferme nelle ricerche degli ultimi trenta anni nel campo delle neuroscienze.
Il pensiero astratto identifica il genere umano e costruisce il percorso della evoluzione dell’uomo.
Per Marco Aurelio l’anima si tinge con gli stessi colori dei propri pensieri, per Shakespeare è fatta con la stessa materia di cui son fatti i sogni, per entrambi le manifestazioni della mente, sotto forma di rappresentazione della realtà cosciente o attraverso i nostri più profondi desideri e le nostre più ataviche paure, costruiscono il nostro modo di saper affrontare il mondo.
Io sono molto meno intelligente di loro e sono convinto che l’anima (diciamo la coscienza per non rischiare il sacrilegio) costruisca i propri pensieri sulla base della capacità di articolare le parole in concetti astratti, che esista un legame strettissimo tra il modo di esprimersi ed il modo di pensare.
In realtà non lo credo io, sono le scienza cognitive che dagli esperimenti e dai progressi degli ultimi 30 anni di ricerca ce lo hanno dimostrato.
Adesso non mi prendere in giro come fai di solito, ma nella antica Grecia esisteva la parola logos, quella che noi traduciamo come razionalità, intelletto, la ratio dei latini. Spesso sentiamo dire che questa parola, per me il lascito più alto che il mondo antico ci abbia lasciato, aveva due significati: discutere attraverso la parola (in italiano esiste ancora dialogo) e razionalità (in italiano esiste la parola logica).
Non pensare che il termine fosse uno per povertà di linguaggio, mi piace pensare che per quei signori, padri della filosofia, il legame tra l’espressione verbale e l’organizzazione del pensiero fosse talmente stretta e interconnessa da dover essere espressa in un termine solo affinché non ci fossero dubbi. Dunque il pensiero si articola in funzione di come ciascuno riesce ad articolare le forme del linguaggio che usa e, in modo retroattivo, il pensiero produce nuove forme espressive. Le due attività che la specie umana possiede come caratteristica di animale superiore si influenzano a vicenda.
Io sono nato in un paese del sud Italia qualche anno dopo la fine della guerra, quando le macerie, che pure ricordo da bambino, erano stati palazzi dove vivevano uomini le cui menti già volavano oltre la ricostruzione. C’era una energia che si percepiva nell’aria, la voglia di ricominciare. Era una tradizione del tardo pomeriggio uscire con mia madre per accompagnarla nei due o tre negozi intorno a casa per fare la spesa.
Si chiamava “passeggiata”, ma non era un “andare in giro”, aveva sempre una meta. Nei negozi di frutta o dal salumiere che stava dalla parte opposta della piazza incontravamo sempre le stesse persone e mia madre, che era l’insegnante di lettere della scuola del paese, veniva sempre accolta con il rispetto che a quei tempi si doveva ad una persona di cultura. Succedeva con puntualità svizzera che nel mostrare la freschezza della verdura o quanto fosse magro il prosciutto aperto da poco, il venditore, per poca familiarità con la grammatica o perchè spinto dalla presenza della professoressa a tradurre in italiano una espressione dialettale, inciampasse in una forma verbale drammaticamente sbagliata.
A quel punto lo sguardo della mia mamma diventava un fucile puntato sui miei occhi, Dovevo memorizzare l’errore e riferire la forma verbale corretta nel minor tempo possibile. Per fortuna non era tanto difficile, in casa l’italiano forbito era un obbligo di legge e la legge era mia madre. Io a quei tempi non arrivavo nemmeno all’altezza del bancone, mi affascinava l’enorme ruota rossa della affettatrice che Enzo faceva girare, si sforzava, lo vedevo dalla faccia, solo nei primi momenti, poi lasciava che la lama facesse il suo dovere mentre il carrello andava vanti e indietro una fetta dopo l’altra.
Un meccanismo perfetto, molti anni più tardi mi sarei ricordato di quella affettatrice studiando la fisica dei corpi rotanti, il momento d’inerzia di quella macchina affascinante che serviva a stabilizzare la velocità di rotazione della lama per ottenere fette sempre uguali e del giusto spessore con una meccanica in grado di sincronizzare l’avanti e indietro del carrello. Era per me un universo in miniatura: la luna, le stelle, i pianeti che guardavo nel cielo di sera dalla poltrona del marciapiede di fronte dovevano avere anche loro una ruota rossa a manovella, ma non sono mai riuscito a vederla.
Scusa la digressione, i ricordi d’infanzia diventano negli anziani come i cerotti per coprire una ferita. Dicevo che la necessità di costruire un linguaggio forbito o per lo meno corretto influisce sulla capacità di pensare: anche senza chiamare in causa gli studi sulle neuroscienze capisci da sola che noi agiamo all’indicativo, ma sogniamo, speriamo, desideriamo al congiuntivo e per costruire la conoscenza di qualcosa adoperiamo ragionamenti ipotetico–deduttivi che non possono essere costruiti senza l’uso del condizionale. Ora, torniamo alla necessità di conoscere: la conoscenza è ricerca, la ricerca è dubbio, il dubbio si esprime con forme verbali complesse, dunque semplificare il linguaggio mortifica la capacità di conoscere. Se ho fatto un esempio riferito agli anni ’50 è perchè la legge sull’obbligo scolastico era stata varata da poco e la non conoscenza della lingua in quegli anni coincideva con il disagio sociale, era un fenomeno di classe diremmo oggi e, come tale, un fronte di lotta politica, di crescita, di solidarietà, di mobilità sociale e quindi di democrazia.
Tieni a mente che la democrazia esisteva da poco più di 5 anni e non tutti erano ancora in grado di capirne la forza. Poi è arrivata la televisione che ha trasportato la lingua italiana in tutte le case, invadendole a poco a poco come un fiume che si insinua nelle pieghe di un territorio. Cerca di capire il mio disagio: se all’interno di un talk show televisivo di oggi ci si trova di fronte agli stessi strafalcioni sintattici del garzone del salumiere di allora, significa che la distruzione della lingua non deriva da un disagio sociale, ma è tollerata da una industria culturale pubblica a settanta anni di distanza dalla legge sull’obbligo scolastico. In questo caso la lotta per la cultura di massa contro chi la fai?
Molti anni prima della televisione commerciale il filosofo ateniese Platone si pose il problema di quali passi occorresse compiere per arrivare alla conoscenza delle cose (epistème) a parte mettere in guardia sul fatto che il politico dovesse conoscere bene la filosofia per operare per il governo della città, cosa che oggi farebbe ridere chiunque, si concentra sul dialogo ( quello del logos di cui dicevo all’inizio) e sulla scintilla che provochi l’evento.
La conoscenza, per il grande pensatore necessità di un clima di saggezza in un ambiente in cui mitezza e moderazione rendano fruttuoso il dialogo, tradotto oggi significa rispetto nel confronto delle posizioni dialettiche. Non è detto che Platone avesse ragione per forza, ma due sono le cose: o era a conoscenza con largo anticipo del clima di rissa e di insulti comune ai talk show televisivi dei nostri giorni e ci metteva in guardia sulla loro incapacità di incidere sul pensare comune, oppure viceversa, sono gli autori televisivi che, essendo a conoscenza delle tesi di Platone e lungi dal voler produrre coscienza, costruiscono risse per riempire un vuoto esistenziale con un vuoto di idee più grande ancora. Pasolini ci aveva avvisato: aboliamo la TV.
Con immutato affetto.
Tuo
Aldo
2 OTTOBRE 2023
SEGNALIAMO
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Una risposta a “CARISSIMA AMICA MIA, LA TRANSIZIONE”
un libro illuminante