CARLO PISACANE

1849: a Roma, dopo l’uccisione del primo ministro dello Stato pontificio (15 novembre 1848) il popolo romano insorse ed il Papa Pio IX fuggì a Gaeta (24 novembre) sotto la protezione del re di Napoli. A Roma giunsero rivoluzionari da tutta l’Italia che si unirono ai patrioti locali: venne costituito un governo provvisorio che convocò l’Assemblea costituente. L’Assemblea si riunì il 5 febbraio 1849 e quattro giorni dopo proclamò la repubblica, retta (15 febbraio) da un triumvirato (Carlo Armellini, Mattia Montecchi e Aurelio Saliceti), sostituiti quattordici dopo da un nuovo triumvirato (Armellini, Saffi e Mazzini). Ad una commissione di cinque esperti fu affidato l’incarico di riorganizzare l’esercito della Repubblica, comandato da Giuseppe Avezzana, che poi divenne anche ministro della guerra del governo repubblicano: tra i membri della Commissione era anche Carlo Pisacane, che il giorno prima aveva incontrato Mazzini e ne aveva accettato senza esitazione le direttive.

In quel momento Pisacane, malgrado la giovane età (era nato a Napoli il 22 agosto 1818, figlio di Gennaro, duca di San Giovanni) aveva già una notevole esperienza di cose militari. Allievo dal 1831 del collegio militare della Nunziatella, ingegnere e ufficiale del genio a ventun anni, impegnato (1840) nella costruzione della ferrovia Napoli – Caserta, a venticinque anni divenne primo tenente dell’esercito borbonico. A Civitella del Tronto, dove era stato inviato, fu pugnalato in un agguato e gravemente ferito (3 febbraio 1843) da un marito geloso. Fu nuovamente trasferito a Napoli dove conobbe una donna, Enrichetta Di Lorenzo, sposata e madre di tre figli, ed iniziò con lei una relazione che proseguì con alterne vicende negli anni successivi anche durante le peregrinazioni in Europa. Nel 1845 fuggì da Napoli con la donna abbandonando la carriera militare ed iniziò una lunga peregrinazione in Europa (Marsiglia, Londra, Parigi), fino al 1847, quando si arruolò nella Legione straniera come sottotenente. In Algeria combattè contro i guerriglieri seguaci dell’Emiro ‘Abdel – Quader, che si era ribellato ai francesi: fu una esperienza fondamentale per il giovane ufficiale, che ebbe modo di riflettere sulla tattica della guerriglia contro un esercito regolare, addestrato ad agire secondo schemi predeterminati e poco elastici.

La permanenza nella Legione straniera non durò molto: alla notizia che la rivoluzione che aveva deposto Luigi Filippo (febbraio 1848) in Francia si era diffusa anche in Italia, Pisacane raggiunse la Lombardia, si presentò a Cattaneo, Capo del governo provvisorio di Milano insorta, fu nominato capitano e destinato ad un reggimento di fanteria inquadrato nella Il legione di volontari (la “legione Borra”, dal nome del suo comandante). Combattè contro gli austriaci in Val Sabbia, a Tremassine e a Besana dove (25 giugno 1848) fu ferito. Dopo la sconfitta dell’esercito sardo si rifugiò a Lugano, dove conobbe Mazzini e restò affascinato dal suo programma. Acquisì la convinzione che l’avversario non poteva essere questo o quel tiranno: la lotta doveva essere una lotta di popolo contro la tirannide, da chiunque impersonata. Tornò presto in Italia, si arruolò come volontario con il grado di capitano nell’esercito piemontese, ma chiese presto di essere congedato (26 febbraio 1849) per raggiungere a Roma Mazzini con il quale era rimasto in contatto attraverso Giovanni La Cecilia, un esponente della carboneria meridionale.

A Roma Pisacane divenne (16 marzo 1849) membro della commissione per l’esercito e organizzò in breve tempo l’esercito repubblicano, che portò a cinquantamila uomini, organizzati in dodici reggimenti di fanteria e tre di cavalleria, con ottanta cannoni e due batterie di montagna. Malgrado la forza numerica, si trattava però di un esercito improvvisato, non sufficientemente addestrato, sulla cui opera non era possibile fare gran conto, diversamente da quanto riteneva Pisacane, che entrò in conflitto a questo proposito con Garibaldi circa la opportunità di affrontare le truppe borboniche in Abruzzo Pisacane era un teorico della organizzazione militare e coglieva un punto debole dell’esercito garibaldino nella mancata fusione dello spirito rivoluzionario con la scienza militare da lui appresa sia attraverso le letture, sia durante la permanenza nell’esercito borbonico.

Caduta la repubblica romana, il 3 luglio 1849, Pisacane venne arrestato e rinchiuso nelle prigioni di Castel Sant’Angelo. Poco dopo fu liberato e partì per Marsiglia da dove raggiunse prima Losanna e poi Londra. Nell’ottobre 1850 tornò a Genova dove per vivere iniziò ad impartire, lui ingegnere, lezioni di matematica.

Iniziò per Pisacane un periodo di lenta ma decisiva riflessione politica: divenuto insofferente dello spiritualismo mazziniano, pubblicò il volume “Guerra combattuta in Italia negli anni 1848 – 1849”, fortemente critico su quanto accaduto in quegli anni dal punto di vista militare, e andò sempre più interessandosi dei problemi sociali, vicino più al socialismo francese, utopistico e libertario, che a quello marxista: di qui la sua convinzione che la rivoluzione nazionale doveva scaturire da una rivoluzione sociale che vedesse combattere in prima linea i contadini per affrancarsi dalla tirannia dei proprietari terrieri, che erano anche i pilastri dell’ordine politico esistente. Per Pisacane (e ciò spiega il suo agire successivo) esisteva un nesso inscindibile tra risorgimento nazionale e nuove condizioni dei contadini, specie nell’Italia meridionale, una situazione che egli ben conosceva.

Avversò la spedizione italiana in Crimea (1855), con articoli sul mazziniano “Italia e popolo” e, pur continuando ad avere stretti rapporti con Cattaneo, si riavvicinò a Mazzini che continuava ad insistere per la rivoluzione anche dopo il fallimento (1853) di quella di Milano. Il progetto che andava lentamente delineandosi era quello di uno sbarco nel Regno delle due Sicilie che costituisse l’occasione per una sollevazione delle popolazioni locali.

In linea generale il progetto trovava il consenso di Pisacane, convinto della importanza dell’azione delle avanguardie per suscitare la rivoluzione, di cui l’esempio degli uomini più noti per il loro passato rivoluzionario poteva costituire l’innesco. Nelle regioni meridionali occorreva anche – e di questo sia Pisacane che Mazzini erano convinti – bloccare l’avanzata del movimento che si ricollegava a Gioacchino Murat, l’ex re di Napoli, anch’esso contrario ai Borboni regnanti, che peraltro nel suo testamento politico Pisacane metteva sullo stesso piano dei Savoia, ritenendo anzi questi ultimi anche più pericolosi, in quanto più forti, per la causa italiana. In realtà l’ex ufficiale borbonico si era molto avvicinato al pensiero anarchico, contrario ad ogni governo in quanto limitatore delle libertà dei popoli.

Nel 1856 Mazzini ritenne giunto il momento per uno sbarco in Italia meridionale: Giuseppe Fanelli, il suo uomo di fiducia a Napoli, gli assicurò che nelle regioni meridionali la popolazione era pronta alla rivolta. Avrebbero dovuto far parte della spedizione, oltre a Pisacane e Fanelli, Luigi Dragone e sua moglie Rosa, Nicola Mignogna, Giovanni Nicotera, il futuro Ministro degli interni dei governi presieduti da Depretis e Rudini dopo l’unificazione nazionale, Giovan Battista Falcone e soprattutto il siciliano Rosolino Pilo, che premeva per la rivoluzione nel sud d’Italia. Pisacane accettò il comando della spedizione dopo il rifiuto di Garibaldi: in realtà erano in molti ad avere dubbi sulla sua riuscita ma prevalse la “teoria della scintilla” che aveva in Pisacane un suo tenace sostenitore. Fu stabilito che la partenza sarebbe avvenuta da Genova e, dopo una sosta a Ponza per liberare i detenuti politici rinchiusi nel carcere dell’isola, si sarebbe sbarcato a Sapri, al confine tra Campania e Basilicata, dove si sarebbero attesi i rinforzi per marciare su Napoli.

I fondi necessari furono raccolti con una sottoscrizione. Il contributo maggiore (20.000 lire-oro) venne da un ricco banchiere livornese, Adriano Lemmi, futuro Gran Maestro della Massoneria italiana: non esiste alcuna prova che anche Pisacane fosse massone.

Il 4 giugno 1857 avvenne l’ultima riunione del gruppo: mentre in città i mazziniani davano vita ad una sommossa subito repressa, dopo il fallimento (6 giugno) di un primo tentativo (le imbarcazioni di Rosolino Pilo che avrebbe dovuto consegnare le armi persero il carico durante una tempesta), finalmente il 25 giugno Pisacane e altri 24 patrioti si imbarcarono sul piroscafo di linea Cagliari della società di navigazione Rubattino diretto a Tunisi.

Ancora una volta mancò la consegna delle armi promesse: la nebbia non consentì l’incontro in mare con le imbarcazioni che, guidate da Rosolino Pilo, avrebbero dovuto trasportarle. Pisacane proseguì l’impresa, si impadronì durante la notte della nave con la complicità di due inglesi addetti alle macchine e il 26 giugno sbarcò a Ponza dove furono liberati 323 prigionieri: pochi erano tra loro quelli detenuti per motivi politici. La maggior parte di coloro che erano stati liberati decise di seguire Pisacane, che li armò con le poche armi tolte al presidio borbonico di Ponza.

La sera del 28 giugno il piroscafo giunse nei pressi di Sapri: gli uomini sbarcarono in contrada Uliveto senza trovare alcuno ad attenderli. L’opera di sobillazione dei contadini era fallita: non si fidavano dei “liberali”, troppo distanti socialmente da loro e nei quali non nutrivano alcuna fiducia. Da Salerno si mossero invece le truppe borboniche – circa 2.000 uomini al comando del colonnello Ghio – per combattere gli invasori: ad essi si unirono guardie urbane e contadini ai quali era stato fatto credere che Pisacane ed i suoi compagni d’avventura erano briganti sbarcati per togliere loro le terre.

Pisacane distribuì i circa trecento uomini di cui disponeva in tre battaglioni di dieci squadre ciascuna, al comando degli ex detenuti politici liberati a Ponza e dei militari borbonici che erano stati condannati per reati militari ed avevano accettato di seguirlo.

Non trovando nessuno, Pisacane ed i suoi compagni si inoltrarono nell’interno, fidando che gli aiuti promessi sarebbero alla fine arrivati. Non fu così: trovarono invece le truppe borboniche che uccisero o fecero prigionieri moltissimi insorti. Pisacane, con un centinaio di superstiti, si diresse verso Buonabitacolo, vicino Padula, dove furono accolti a fucilate da 11 “urbani”, collocati in punti strategici. Fu una strage. Pisacane, ferito al fianco, si uccise, così come fece Falcone, il suo più vicino collaboratore. È attualmente sepolto a Sanza (in provincia di Salerno) vicino al luogo ove morì. Nel cimitero monumentale di Napoli è solo un suo monumento.

Nicotera, gravemente ferito, fu fatto prigioniero, portato in catene a Salerno, processato e condannato a morte. Ebbe salva la vita per intervento del governo inglese, e successivamente liberato su pressione di Garibaldi, si diede alla politica con ottimi risultati. Gli altri prigionieri, pure processati e condannati a morte, ebbero dal re commutata la pena nell’ergastolo. I due macchinisti inglesi che avevano collaborato al sequestro del piroscafo non furono processati in quanto dichiarati infermi di mente.

Tre anni dopo Nino Bixio, durante l’impresa dei Mille, liberò i 21 superstiti della sfortunata spedizione, rinchiusi nel carcere dell’isola di Favignana, al largo di Trapani.

La notizia della spedizione e del suo tragico esito ebbe grande eco nei giornali italiani e stranieri. I patrioti italiani trassero da essa una conclusione: nel sud non era possibile tentare con successo una qualunque impresa senza una adeguata preparazione ed un vasto consenso della popolazione locale e senza poter contare almeno sulla benevola neutralità del governo piemontese.

Nel suo testamento politico Pisacane aveva scritto: “lo sono convinto che nel Sud la rivoluzione morale esista: sono convinto che un impulso gagliardo può sospingerlo al moto, e però il mio scopo, i miei sforzi sono rivolti a mandare a compimento una congiura, la quale dia un tale impulso”: è la teorizzazione dell’impresa, tre anni dopo, dei Mille di Garibaldi”.


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