CARMELO BENE. LA DISTRUZIONE DEL TEATRO

Sono contento che è morto, lo era già da otto anni, alla sua prima ruga.

Queste le parole d’inizio del necrologio di Bene alla notizia della morte del suo migliore amico/rivale Vittorio Gassmann. Due prime donne, due duellanti, due innamorati di se stessi che si contendevano le tavole del Teatro detestandosi e lodandosi reciprocamente alla ricerca di una risposta saliente alla loro ragion d’essere.

Carmelo Bene, una personalità poliedrica, difficile da comprendere per spettatori che non riuscivano a capire fin in fondo il suo disperato desiderio di fare teatro. Quando lasciò la sua Otranto i suoi genitori gli chiesero perché mai volesse recarsi a Roma, Lui ripose che la sua vera intenzione era quella di distruggere il teatro.

Cosa intendeva con quell’affermazione? E, soprattutto perché la distruzione visto che la sua aspirazione era fare l’attore? Ma forse non lo era o meglio, lo era nella sua accezione personale in quanto egli si proclamava “non attore”, a questo proposito, dichiarava che il teatro per lui era una faccenda personale, un colloquio intimo, un conoscersi a fondo, pertanto anche la presenza del pubblico era assolutamente fuori posto. Non a caso la locandina di uno dei suoi ultimi spettacoli riportava l’immagine di una cornice vuota quasi a testimoniare il nulla della sua performance e l’inutilità dello spettatore.

Di Bene si è scritto tanto e detto tanto essendo un personaggio al difuori delle regole. Il suo era un teatro a togliere, i testi a cui faceva riferimento era privi di orpelli e momenti epici, la sua vera forza era la voce o meglio la “Foné” le vibrazioni delle sue corde vocali erano e rimangono uniche, puntiglioso, attento al particolare, alla minorazione egli usava la voce come unico strumento di recitazione e raccomandava di alzare sempre il volume dell’ascolto quasi a voler stordire e alienare il pubblico con il suo “non teatro”.

Eppure il teatro lo faceva, e come, quando andava in scena una sua esibizione i posti in sala erano tutti occupati, gli spettatori erano aggrappati perfino sugli spalti e non si sentiva volare una mosca (previa cacciata da teatro), la verità è che tutti si restava inchiodati alla poltrona per quel tanto che il “non attore” riusciva, sua malgrado, a trasmettere. Ricordo bene l’emozione in quei momenti di alienazione generale, di eversione dei canoni tradizionali che il teatro impone, una full immersion che toccava le corde intime di ognuno in un testo fosse stato Shakespeare o altri non aveva importanza: il testo era Lui e soltanto Lui. Ricordo in particolare il suo “Pinocchio”, tutti i personaggi della favola erano tante voci riunite in una solo voce, la sua.

Le sue apparizioni rimangono indelebili, non rappresentabili, non hanno lasciato eredità di affetto o ambiti dove poterle ritrovare; personalmente, non accetterei mai di assistere ad una rappresentazione che pretendesse di imitare Bene, sarebbe un oltraggio.

Alla memoria di un personaggio solo apparentemente distruttivo e sovversivo piuttosto di una persona che, in balia di un corpo malato, stanca della vacuità della vita e delle sue banalità, voleva costruire, attraverso il teatro, qualcosa per sé, per dare senso alla sua esistenza, un altrove; dove non sopravvivere ma, semplicemente vivere.

Appresi della morte di Carmelo nel posto più significativo: a teatro. Quella sera assistevo ad uno spettacolo di Buchner ed ero molto presa da quella storia quando l’attore principale, con grande rispetto e cordoglio, diede il triste annunzio; in quel momento il sipario si chiuse, l’ultimo omaggio del teatro a Carmelo Bene!


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