Gli sviluppi dei negoziati in Medio Oriente duecento giorni dopo l’attacco di Hamas
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Europa
Giampiero Gramaglia
Giornalista,
co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles
Democrazia futura in “Cercasi tregua a Gaza anche per fugare i timori di un nuovo Sessantotto” raccoglie due corrispondenze di Giampiero Gramaglia su “Gli sviluppi dei negoziati in Medio Oriente duecento giorni dopo l’attacco di Hamas”. Nel primo articolo “Università statunitensi in fermento, negoziati a punto morto” – scritto il 23 aprile – l’ex direttore dell’Ansa dopo aver constatato come “Nelle Università statunitensi, è tornato il Sessantotto: gli studenti contestano la guerra nella Striscia di Gaza come i loro nonni, allora, contestavano quella nel Vietnam e denunciano l’atteggiamento troppo tollerante dell’Amministrazione Biden nei confronti delle violazioni dei diritti umani israeliane. Negli Stati Uniti e altrove nel Mondo, anche in Italia, l’inizio dell’ultima settimana di aprile ha visto un’ondata senza precedenti di proteste e arresti: alla Columbia e alla New York University e ad Harvard, Yale, Princeton, ovunque; alcuni atenei hanno sospeso le lezioni in presenza, almeno in coincidenza con la Pasqua ebraica, perché gli studenti ebrei hanno paura e denunciano atteggiamenti anti-semiti”, commenta amaramente: “Nel giro di sei mesi, ma in realtà già nel giro di poche settimane, il governo Netanyahu ha saputo trasformare l’enorme afflato di vicinanza e solidarietà a Israele, dopo gli attacchi terroristici compiuti da Hamas e da altre sigle palestinesi il 7 ottobre – 1200 vittime e quasi 300 ostaggi presi -, in una diffusa denuncia degli eccessi e delle provocazioni compiuti dalle forze armate israeliane: oltre 34 mila vittime in 200 giorni nella Striscia, civili, donne, bambini; e il rischio che il conflitto infiammi l’intera Regione”. Il tutto mentre sull’altro fronte, quello ucraino “Kiev attende le armi dagli Stati Uniti e spera in una vittoria. Mosca dice che non cambia nulla”. A distanza di una settimana nel secondo pezzo, “Un barlume di speranza dal negoziato in Medio Oriente” scritto il 1 maggio, Gramaglia nota come “[…] all’improvviso, la trattativa si rianima: c’è una proposta israeliana, che Hamas non ha subito respinto (“La stiamo studiando”); il segretario di Stato statunitense Antony Blinken ritorna nella Regione – per la settima volta, finora sempre senza risultati positivi – e definisce la proposta israeliana “generosa”; l’Egitto invita delegazioni di Israele e di Hamas al Cairo per negoziare. Israele – commenta il giornalista di Saluzzo – agita una carota, per i palestinesi: la tregua, si dice di 40 giorni, e la scarcerazione di detenuti in cambio della liberazione degli ostaggi ancora trattenuti, o di una parte di essi – sulla carta, circa 130; ma i superstiti sarebbero molti meno -. Ma Israele tiene anche bene in evidenza un bastone: l’operazione di terra a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove raid israeliani continuano a fare vittime”. Sulle trattative in corso pesano non solo l’effettivo raggiungimento di “un’intesa su tregua e ostaggi” ma anche “il timore che la Corte penale internazionale, entro la prima decade di maggio, spicchi mandati di cattura per crimini di guerra contro il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Aluf Yoav Gallant” nonché gli sviluppi del fermento studentesco: “Nell’ultimo fine settimana di aprile, a Gaza si sono viste manifestazioni palestinesi di gratitudine e solidarietà con gli studenti americani in lotta. Il protrarsi della situazione [negli atenei statunitensi] potrebbe alienare a Biden, nelle elezioni presidenziali del 5 novembre, sia il voto degli arabo-americani, cruciale in Stati in bilico come il Michigan, sia quello dei giovani della sinistra democratica. Né gli arabo-americani né i giovani di sinistra voteranno Donald Trump, ma, a compromettere la vittoria di Biden, basterebbe la loro astensione o il dirottamento dei suffragi su un candidato terzo”.
03 maggio 2024
Università statunitensi in fermento, negoziati a punto morto1
Nelle Università statunitensi, è tornato il Sessantotto: gli studenti contestano la guerra nella Striscia di Gaza come i loro nonni, allora, contestavano quella nel Vietnam e denunciano l’atteggiamento troppo tollerante dell’Amministrazione Biden nei confronti delle violazioni dei diritti umani israeliane. Negli Stati Uniti e altrove nel Mondo, anche in Italia, l’inizio dell’ultima settimana di aprile ha visto un’ondata senza precedenti di proteste e arresti: alla Columbia e alla New York University e ad Harvard, Yale, Princeton, ovunque; alcuni atenei hanno sospeso le lezioni in presenza, almeno in coincidenza con la Pasqua ebraica, perché gli studenti ebrei hanno paura e denunciano atteggiamenti anti-semiti.
Nel giro di sei mesi, ma in realtà già nel giro di poche settimane, il governo Netanyahu ha saputo trasformare l’enorme afflato di vicinanza e solidarietà a Israele, dopo gli attacchi terroristici compiuti da Hamas e da altre sigle palestinesi il 7 ottobre – 1200 vittime e quasi 300 ostaggi presi –, in una diffusa denuncia degli eccessi e delle provocazioni compiuti dalle forze armate israeliane: oltre 34 mila vittime in 200 giorni nella Striscia, civili, donne, bambini; e il rischio che il conflitto infiammi l’intera Regione.
Hai voglia a dire di stare calmi, di tenere i nervi a posto, Se il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz posta tweet di missili – iraniani – che piovono sul Colosseo o sulla Torre Eiffel, ti corrono i brividi lungo la schiena e ti viene pure da pensare che qualcuno giochi alla strategia della tensione, in un’area dove la tensione resta altissima e i rischi di contagio di un conflitto eccezionalmente letale sono accresciuti da comportamenti reciprocamente aggressivi e provocatori
Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani invita a “evitare di creare il panico”.
“Non credo – afferma – che ci sia un’ipotesi di attacco all’Occidente [da parte dell’Iran] che pure commette errori gravi: dare droni alla Russia, dare droni e armi a Hezbollah non va bene”.
La scritta, in inglese, francese, ebraico, sui tweet di Katz, dice:
“Fermate l’Iran prima che sia troppo tardi”.
Il messaggio è rivolto al segretario di Stato statunitense Antony Blinken e ai ministri italiano Antonio Tajani, tedesco Annalena Baerbock, francese Stéphane Séjourné e britannico David Cameron.
Le notizie che arrivano da Washington allungano, in prospettiva, i conflitti in corso. Il Congresso, dopo sei mesi di tira e molla, stanzia 95 miliardi di dollari per le guerre: 80 di armi per l’Ucraina, soprattutto munizioni e sistemi anti-aerei; 26 per Israele – due terzi per l’esercito israeliano, circa un terzo per aiuti umanitari ai palestinesi –; e il resto per l’Indo-Pacifico. Il provvedimento è definitivo: le prime consegne all’Ucraina – più urgenti – e a Israele avverranno rapidamente.
Medio Oriente: fronti guerra instabili, la Striscia, la Cisgiordania, Siria e Iraq
Carro armato israeliano in un luogo di ritrovo al confine meridionale Israeliano con la Striscia di Gaza vicino a Rafah
Dei fronti di tensione aperti, il Medio Oriente è quello più instabile. Dopo l’attacco con dei droni di Israele su Isfahan in Iran, la notte tra il 19 e il 20 aprile 2024, forse solo un test della capacità israeliana di perforare le difese aeree iraniane, Tel Aviv e Teheran paiono in stallo: il drammatico ping-pong di attacchi, ritorsioni e contrattacchi s’è forse fermato, almeno per il momento.
Ma in stallo sono pure le trattative per una tregua e per la restituzione degli ostaggi, mentre i rapporti tra il Qatar, uno dei mediatori con Egitto e Stati Uniti d’America, e Hamas attraversano un momento difficile.
Israele si fa beffe della mozione dell’Onu – vincolante – che ordina la tregua e prepara l’offensiva di terra a Rafah, ignorando gli inviti alla moderazione di Stati Uniti e Unione europea. Preliminare è l’evacuazione dei palestinesi dal sud della Striscia, dove erano stati prima cacciati ed ammassati, verso il centro, a Khan Younis, dove la presenza militare israeliana s’è rarefatta (e dove si scopre una fossa comune con circa 300 corpi nel cortile dell’ospedale teatro di furiosi combattimenti).
Il premier Benjamin Netanyahu dice:
“Nei prossimi giorni aumenteremo la pressione militare e politica su Hamas, perché questo è l’unico modo per liberare i nostri ostaggi e ottenere la vittoria”.
E definisce “il massimo dell’assurdità” l’ipotesi di sanzioni statunitensi nei confronti del battaglione degli ultra-ortodossi Netzach Yehuda, famigerato per le brutalità in CisGiordania.
L’Amministrazione Biden intende bloccare gli aiuti militari all’unità ultra-ortodossa, applicando, per la prima volta nei confronti di Israele, una legge vecchia di 27 anni, la ‘legge Leahy, dal nome del senatore del Vermont Patrick Leahy, che la promosse, che vieta di fornire assistenza militare a unità militari straniere che violano senza essere sanzionate i diritti umani.
Gli episodi letali, le punture di spillo, le azioni terroristiche sono incessanti. La diplomazia latita: l’Occidente, dal G7 all’Unione europea, è solo capace di varare nuove sanzioni contro l’Iran, ma non sa fare nulla per fermare il conflitto.
Il presidente turco Racep Tayyip Erdogan, sempre imprevedibile, incontra il capo di Hamas Ismail Haniyeh e gli assicura che “i sionisti pagheranno”; e va a Baghdad, dove il governo iracheno non riesce a ottenere dagli Stati Uniti il ritiro delle forze di stanza nel Paese.
Citiamo solo alcuni dei fatti degli ultimi giorni. Almeno 22 palestinesi tra cui 18 minori sono stati uccisi in una serie di attacchi israeliani contro case di Rafah. All’inizio della Pasqua ebraica, un’auto investe dei pedoni a Gerusalemme – tre i feriti –: due giovani ne escono, imbracciando un’arma, che però si inceppa, e si danno alla fuga, ma vengono arrestati. Hezbollah continua a lanciare razzi verso Israele e a subirne ritorsioni.
L’agenzia di stampa palestinese Wafa afferma che un uomo di 44 anni è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco durante un raid militare israeliano notturno nella città di Gerico, in Cisgiordania. Altre due persone sono state ferite nei vicini campi profughi di Aqbat Jabr ed Ein el-Sultan.
Dal nord dell’Iraq, milizie-filo iraniane prendono di mira una base della coalizione anti-jihadista in Siria a guida statunitense. E un’esplosione in una base di milizie filo-iraniane nel centro dell’Iraq causa un morto e otto feriti e innesca l’invio di un drone su Israele. Il governo di Baghdad esclude che si sia trattato di missili, Israele e Stati Uniti negano ogni responsabilità.
Israele: dimissioni di generali e smacco sull’Unrwa
Intanto s’è dimesso, duecento giorni dopo, Aharon Haliva, il generale comandante dell’intelligence militare israeliana che il 7 ottobre non seppe prevenire il massiccio attacco terroristico compiuto da Hamas – 1200 le vittime israeliane e quasi 300 gli ostaggi catturati –. La guerra a Gaza che ne è derivata ha già fatto oltre 34 mila vittime.
Alle dimissioni di Haliva si aggiungono quello di Yehuda Fuchs, capo del comando centrale. L’uscita di scena, quasi contemporanea, di due generali di divisione israeliani può certamente essere una coincidenza, ma può anche essere un segnale di dissenso per qualche decisione non condivisa nella conduzione delle ostilità.
Il leader dell’opposizione Yair Lapid attacca il governo prendendo spunto proprio dalle dimissioni dei generali:
“Il ritiro del capo dell’intelligence militare è giustificato e onorevole. Sarebbe stato opportuno che il premier Netanyahu facesse lo stesso”.
Ma Netanyahu non ci pensa affatto, nonostante massicce e ripetute manifestazioni che chiedono il suo allontanamento e nuove elezioni; e ribadisce che la Pasqua ebraica non fermerà l’azione di Israele nella Striscia.
Infine, appaiono inconsistenti, alla luce delle conclusioni di una commissione d’inchiesta indipendente, guidata dall’ex ministra degli Esteri francese Catherine Colonna, le accuse mosse da Israele all’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa: non ci sono prove che agenti dell’Agenzia abbiamo partecipato ai raid terroristici del 7 ottobre e Israele non ha mai espresso riserve o preoccupazioni su nessuno dei dipendenti dell’Agenzia dal 2011.
Ucraina: Kiev attende le armi dagli Stati Uniti e spera in una vittoria. Mosca dice non cambia nulla
Dopo il via libera del Congresso a ulteriori aiuti militari americani all’Ucraina, c’è un momento d’euforia a Kiev, dove si torna a parlare di vittoria e si ridimensionano le difficoltà recentemente denunciate:
“Ci troviamo di fronte a una situazione piuttosto difficile, ma non catastrofica. Non ci sarà l’Armageddon”,
dice alla Bbc il capo dei servizi segreti militari ucraini Kyrylo Budanov.
I presidenti statunitense Joe Biden e ucraino Volodymyr Zelens’kyj concordano in una telefonata la fornitura di missili balistici a corto raggio Atacms da parte degli Stati Uniti all’Ucraina: era un punto controverso.
E per ovviare alle carenze attuali di difese contro-aeree, Kiev sollecita anche i Paesi europei a darle i Patriots di cui dispongono. Gran Bretagna, Germania, Svezia danno echi in varia misura positivi. Non che le armi al mondo manchino: secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace (Sipri) di Stoccolma, la spesa militare globale è stata record nel 2023, 2,4 migliaia di miliardi di dollari.
Biden parla al telefono anche con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che gli assicura che l’Unione non farà passi indietro nell’appoggio all’Ucraina. Tra Washington e Bruxelles, sponde dell’Unione europea e Nato, c’è soddisfazione per lo sblocco degli aiuti. Ma il Washington Post s’interroga se ciò basterà a “turn the tide”, cioè a cambiare il corso degli eventi.
Il presidente polacco Andrzej Duda, reduce da una cena a New York con l’ex presidente statunitense Donald Trump, afferma che la Polonia è “pronta” ad accogliere armi nucleari sul proprio territorio
“per rafforzare la sicurezza del fianco orientale dell’Alleanza atlantica”
e viene quasi zittito dal premier polacco Donald Tusk – i due appartengono a schieramenti politici opposti –. La Russia fa sapere che, se ciò avvenisse,
“adotterà le misure necessarie per garantire la sicurezza nazionale”.
Per Mosca, il maggior coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto ucraino sarà “un fiasco, come in Vietnam”. Secondo il Ministero della Difesa russo, la guerra è finora costata all’Ucraina la perdita di 500 mila uomini: cifre che, come quelle di fonte ucraina, sanno di propaganda. Viktor Orban, premier ungherese, politicamente vicino a Duda, getta benzina sul fuoco:
“Siamo a un passo dall’invio di truppe dell’Occidente” in Ucraina.
Il bollettino di guerra registra, ogni notte, attacchi russi sulle infrastrutture ucraine, ma ci sono anche lanci di droni dall’Ucraina sulla Russia. La marina ucraina sostiene di avere colpito la ‘Kommuna’, storica nave russa, nel porto di Sebastopoli; Mosca parla di attacco respinto; un video mostra una nave in fiamme proprio nel porto – pare – di Sebastopoli.
Il fronte di sposta di poco, ma è possibile che i russi cerchino di ottenere qualche successo simbolico per il 9 maggio, quando loro celebrano la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.
Russia colpisce Merloni
Un barlume di speranza dal negoziato in Medio Oriente2
Una vista dall’alto di Rafah, dove i rifugiati palestinesi sono oltre un milione (Fonte: Il Dubbio)
Ci avevamo messo una pietra sopra, al negoziato e alle speranze di una tregua. E, all’improvviso, la trattativa si rianima: c’è una proposta israeliana, che Hamas non ha subito respinto (“La stiamo studiando”); il segretario di Stato statunitense Antony Blinken ritorna nella Regione – per la settima volta, finora sempre senza risultati positivi – e definisce la proposta israeliana “generosa”; l’Egitto invita delegazioni di Israele e di Hamas al Cairo per negoziare.
Israele agita una carota, per i palestinesi: la tregua, si dice di 40 giorni, e la scarcerazione di detenuti in cambio della liberazione degli ostaggi ancora trattenuti, o di una parte di essi – sulla carta, circa 130; ma i superstiti sarebbero molti meno –. Ma Israele tiene anche bene in evidenza un bastone: l’operazione di terra a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove raid israeliani continuano a fare vittime (una trentina tra domenica e lunedì e altrettante la notte successiva). I caccia d’Israele colpiscono lungo tutto la Striscia, da nord a sud.
Da Riad, sua prima tappa di questa tournée mediorientale, Blinken ribadisce l’opposizione degli Stati Uniti a un’offensiva israeliana su Rafah, perché – spiega –
“non abbiamo ancora visto un piano che ci permetta di credere che i civili possano essere efficacemente protetti”.
A Riad, dove c’è il World Economic Forum, è presente pure il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, che ha incontri e riunioni sulla crisi mediorientale. Anche l’Egitto aborre un attacco a Rafah, dove un milione e mezzo di palestinesi vivono accampati in tende, dopo avere lasciato il nord e il centro della Striscia: Il Cairo paventa un esodo di massa, sotto la spinta dell’esercito israeliano. Alla fase negoziale contribuisce il presidente statunitense Joe Biden, che discute al telefono l’ipotesi d’intesa con il premier Benjamin Netanyahu, con il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi e con l’emiro del Qatar Tamim Bin Hamad Al-Thani. Biden assicura che gli Stati Uniti, con Egitto e Qatar,
“lavoreranno per garantire la piena attuazione di tutti i termini” dell’accordo
ed esorta a compiere tutti gli sforzi necessari per garantire il rilascio degli ostaggi,
“unico ostacolo a un cessate-il-fuoco immediato e agli aiuti per i civili a Gaza”.
Il presidente, inoltre, ribadisce l’importanza di proteggere
“le vite dei civili e di garantire che i palestinesi non siano sfollati in Egitto o in qualsiasi altro luogo al di fuori di Gaza”.
Dal canto suo, il presidente dell’Anp Abu Mazen avverte che Israele è pronto ad entrare a Rafah:
“Solo gli Usa possono ancora impedirlo”.
Ma finora l’Amministrazione Biden non è mai riuscita, nei quasi sette mesi di questa guerra sanguinosa, a convincere Israele a cambiare i propri piani.
Secondo Abu Mazen, l’esercito israeliano attende il via libera del governo, che dipende da almeno due fattori: il primo è l’ipotesi di un’intesa su tregua e ostaggi; il secondo è il timore che la Corte penale internazionale, entro la prima decade di maggio, spicchi mandati di cattura per crimini di guerra contro il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Aluf Yoav Gallant.
Fra i reati che potrebbero loro essere attribuiti, c’è la risposta sproporzionata agli attacchi terroristici del 7 ottobre di Hamas con altre sigle palestinesi in territorio israeliano: circa 1200 vittime e quasi 300 ostaggi catturati. Il conflitto nella Striscia, scattato come ritorsione immediatamente dopo, ha già fatto oltre 34 mila vittime, soprattutto donne e bambini. A Netanyahu e a Gallant possono, inoltre, essere addebitati gli ostacoli frapposti alle distribuzioni di aiuti umanitari, viveri e medicinali, ai rifugiati palestinesi.
Sul fronte ucraino, invece, c’è da registrare un cambio di passo di Mosca, che mette nel mirino industrie europee operanti in Russia, fra cui la Ariston Thermo Rus, del Gruppo Ariston, affidata temporaneamente in amministrazione a un’impresa del gruppo Gazprom, gigante energetico russo. L’Italia chiede che il provvedimento sia revocato; l’ambasciatore russo Alexei Paramonov, convocato al Ministero degli Esteri, replica che
“Roma sacrifica gli interessi nazionali a pericolose avventure anti-russe”.
Le punture di spillo economico-industriali con l’Occidente, che continua a usare contro Mosca l’arma delle sanzioni, fanno mediaticamente velo agli sviluppi del conflitto,
“un carnaio in cui salgono le perdite russe e ucraine”,
osserva il Washington Post.
Le cronache – ormai una routine – degli attacchi notturni incrociati con droni e missili s’intersecano con una frase di Blinken da Riad un po’ sibillina:
“Se Mosca vuole negoziare, noi ci saremo”.
Qualcosa si muove sotto traccia? È presto per dirlo.
Medio Oriente, lavorio diplomatico e fermento studentesco
Un’immagine delle proteste alla Columbia University (Fonte: The Guardian)
Invece, in Medio Oriente il lavorio diplomatico è evidente.
L’Arabia Saudita fa sapere che nuove intese bilaterali con gli Stati Uniti sono ‘molto vicine’, anche sul futuro assetto della Striscia di Gaza dopo la fine del conflitto tra Israele e Hamas. Il doppio ‘filo rosso’ dell’ennesima missione Blinken è innescare l’intesa tra Israele e Hamas e scongiurare i rischi di nuove escalation e d’un allargamento del conflitto, che pareva imminente dopo le fiammate tra Israele e Iran. Per l’Amministrazione Biden, la crisi mediorientale ha un’importante componente elettorale. Cresce, infatti, il fermento pro-palestinese nelle Università statunitensi: campus occupati, lezioni sospese, studenti espulsi, centinaia di manifestanti arrestati, anche la candidata dei verdi alla Casa Bianca, Jill Stein, fermata a Saint Louis. Proteste pro-Palestina hanno pure fatto da contorno, sabato 27 aprile in serata, fuori dall’Hilton Hotel di Washington, alla cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca con Biden. Minimo comune denominatore delle manifestazioni studentesche è la richiesta che le università allentino la cooperazione con atenei e/o entità israeliane ed esprimano sostegno a un cessate-il-fuoco. La maggior parte delle università si sono rifiutate di rompere o sospendere intese esistenti, esprimendo dubbi sull’utilità e l’efficacia d’una simile mossa.
- Scritto, il 23 aprile 2024 per The Watcher Post Cf https://www.giampierogramaglia.eu/2024/04/25/mo-200-giorni-guerra/ ↩︎
- Prima parte di un articolo Scritto per The Watcher Post 2 maggio 2024. Cf. https://www.giampierogramaglia.eu/2024/05/01/guerre-mo-barlume-ucraina/. ↩︎
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