CHI VUOLE UCCIDERE IL SERVIZIO PUBBLICO E PERCHÉ

GIACOMO MAZZONE
Direttore responsabile Democrazia futura, esperto di Internet Governance

Il canone radiofonico e poi radiotelevisivo istituito per Regio Decreto nel 19381 è sicuramente un istituto per molti versi obsoleto e sicuramente “antico”. Ma –come per la democrazia- non ne sono stati inventati finora di migliori e quindi bisognerebbe pensarci -non una ma cento volte- prima di sbarazzarsene.

Di sicuro è obsoleto il concetto di canone legato al possesso dell’apparecchio radio o tv, una condizione che oggi ha poco senso, visto che il segnale tv può esser ricevuto in mille modi diversi, attraverso reti diverse e su supporti molteplici. Tant’è che anche il ministro Giorgetti, in un’audizione alla Commissione Parlamentare di Vigilanza sul canone2, avanzò l’ipotesi di estendere la platea dei soggetti sottoposti al pagamento del canone, includendo in essi anche i possessori di smartphone e tablet.

All’epoca della Riforma Renzi il problema era noto e venne segnalato da diversi dei soggetti auditi, dal Parlamento ma anche li la fretta di ridurre l’importo del canone (da 120 a 100 euro e poi a 90 euro) prima del referendum, fu cattiva consigliera e questo punto venne lasciato da parte.

Un problema ovviamente non solo italiano, ma che si sono ritrovati dinanzi prima di noi tutti i paesi dove la digitalizzazione è più avanzata (quelli nordici per primi, Germania e altri). I quali hanno provveduto a risolverlo in modo drastico, con il canone trasformato in una tassa di scopo slegata da qualsiasi tipo di device o modalità ricettiva.

Di sicuro c’è anche un problema nel riscuotere questa imposta, perché se non la si lega più al possesso di un apparato di ricezione, bisogna pur legarla a qualche altro criterio oggettivo. E, visto che la platea di coloro che sono tenuti a pagarlo, non coincide necessariamente con quella dei contribuenti, comporta qualche problema in più per gli agenti delle tasse, tant’è che per la sua riscossione collaborano con appositi uffici delle televisioni pubbliche per scovare gli evasori.

Di sicuro c’è anche il problema che non si tratta di un’imposta progressiva, visto che la pagano in misura uguale sia il povero che il ricco, e quindi non è proprio in linea col principio della proporzionalità della contribuzione fiscale.

Ma tutte queste obiezioni – pur se legittime e sensate – non giustificano da sole la sua abolizione, anche perché le soluzioni esistono e sono già state adottate in altri Paesi europei, con risultati più che soddisfacenti. Quindi l’attacco al canone, di sicuro, non nasce da questo, ma da altre ragioni più profonde e meno confessabili.

La decisione del governo di mettere nella Legge di Finanza 2024 una riduzione programmata del canone di 20 euro (portandolo da 90 a 70 euro) è un clamoroso errore, anche e soprattutto per un governo come l’attuale che propugna il concetto di ‘Europa delle nazioni’, contro il concetto di Europa attualmente messo in pratica.

Non solo per i motivi già ampiamente esposti negli articoli di Marco Mele3 e Angelo Zaccone Teodosi4, presenti in questo stesso numero di Democrazia Futura, e cioè l’accentuata dipendenza dall’esecutivo, l’aumento della dipendenza dalla pubblicità e cosi via. Ma anche e soprattutto perché, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa della RAI nel medio-lungo periodo, potrebbe privare il paese (assai più che il governo) di uno dei pochissimi strumenti che ha a disposizione per raggiungere i cittadini.

Già oggi sono molti i paesi in Europa in cui il servizio pubblico è l’unico media rimasto in mani nazionali. Dalla Spagna alla Polonia e quasi tutti i paesi dell’Est, le tv e radio commerciali appartengono a network stranieri, con una predominanza statunitense nei paesi dell’Est.

Se il declino delle tv e radio commerciali continuerà al ritmo attuale (-10 per cento di fatturato in media perso ogni anno, nonostante tutti i tagli alle spese e i licenziamenti), il prossimo decennio vedrà un solo network europeo sopravvivere, attorniato da gruppi made in USA. Di qui la frenesia e l’iperattivismo dei gruppi privati europei, impegnati in questa strenua lotta per la sopravvivenza. Con MediaForEurope (MFE) che da Cologno Monzese (ma qualificato ai fini fiscali come soggetto olandese) annuncia acquisizioni importanti in altri paesi europei, mentre la Vivendi di Vincent Bolloré cerca (finora invano) di conquistare Mediaset e i tedeschi di RTL-Bertelsmann cercano di vendere alcuni dei loro assets in Europa per mantenere vivo il gruppo…

Che c’entra la deriva dei gruppi privati europei con la sopravvivenza della RAI? c’entra eccome. Come lo stesso Pier Silvio Berlusconi ben sa, una RAI fortemente indebolita potrebbe forse cedere risorse pubblicitarie nel breve periodo ai concorrenti privati, ma non è detto che sarà Mediaset a beneficiarne, quanto piuttosto potrebbero essere i gruppi multinazionali già presenti nel nostro paese come Discovery-Warner. Un fenomeno che indebolirebbe ancora Mediaset, che sopravvive solo grazie alla sua forte presenza in Italia e Spagna, con l’avventura tedesca di Pro-Sieben, che finora ha portato più guai finanziari che soddisfazioni.

Ergo, a meno che MFE non riuscirà ad esser lei l’ultimo degli Highlanders europei, nel giro di pochi anni si assisterà alla vendita degli interessi televisivi di Fininvest ad uno dei competitor europei, o, ancora peggio, direttamente ad uno dei gruppi globali statunitensi. Un processo la cui data di scadenza è già nota, fissata all’apertura del testamento di Silvio Berlusconi, quando i figli Pier Silvio e Marina Berlusconi (cui è andato il pacchetto del 78 per cento del controllo di Mediaset) hanno deciso di avvalersi dell’opzione di tassazione agevolata, contro l’impegno di non cedere prima del 2027 anni il controllo della società.

Entro la fine del 2027 o la scommessa di Pier Silvio Berlusconi sarà stata centrata (con l’acquisto di RTL o di Vivendi) oppure sarà persa, e quindi entro quella data un accordo di vendita sarà già stato definito.

A quel punto, il governo italiano scoprirà l’amara esperienza che attraversano già oggi molti altri paesi europei, e dovrà confrontarsi con degli interlocutori che hanno in mente solo il profitto ed a cui non può fregar nulla né di sostenere la cultura e l’industria culturale di un paese, né di sostenere l’esistenza di un ecosistema dei media nel paese. Privato della leva del Servizio Pubblico, il governo non avrà strumenti per intervenire, e si ritroverà ad essere colonizzato dall’industria dei contenuti associata al vincitore: statunitense se l’acquirente sarà americano, tedesco o francese in caso sia europeo.

Il tutto accadrà verosimilmente alla vigilia delle prossime elezioni generali in Italia, oltreché in prossimità del rinnovo della Convenzione che assegna in esclusiva alla RAI la missione di servizio pubblico multimediale. Un periodo in cui l’attenzione su questi temi rischia di essere assai alta e di poter influire pesantemente sul fine legislatura di questa legislatura.

Uno scenario catastrofico, con il nostro Paese che a quel punto rischia di non aver più una sua sovranità culturale.

Ma c’è qualcuno oggi che si pone queste domande a Palazzo Chigi?

Certo un governo che, in questi mesi- sta trattando la cessione dell’unica rete fissa nazionale di telecomunicazioni a gruppi statunitensi (rischiando cosi di compromettere per sempre la sua possibilità di pianificare e gestire la sua transizione digitale), potrebbe continuare nell’opera e rinunciare anche a quest’altro pilastro della sovranità nazionale. I prezzi per la Penisola sarebbero altissimi, ma non è detto che il prezzo politico – elettorale lo sia altrettanto, visto che da anni il paese è anestetizzato su questo tema dalle tanto incessanti quanto interessate campagne che definiscono (senza alcuna base scientifica o statistica) il canone come la tassa più odiata dagli italiani.

Lo spezzettamento delle competenze dentro il governo certo non gioca a favore di decisioni coraggiose da prendere. La legge di riforma Renzi del 2015 in questo senso ha aumentato la confusione e la deresponsabilizzazione dei vari attori, con il Tesoro (oggi MEF) che ha competenza in quanto azionista, il Ministero dell’industria (oggi ribattezzato MIMIT) che ha competenza sul contratto di Servizio, e con Palazzo Chigi che ha la responsabilità ultima del finanziamento (decidendo quanta parte degli introiti da canone assegnare alla RAI ogni anno, e quanto complemento di finanziamento assegnare ogni anno tramite la Legge di Finanza) oltre che la ratifica delle nomine apicali (quella dell’Amministratore Delegato).

Altrettanto confusi e sovrapposti, del resto, sono anche i poteri di controllo sulla RAI: con la Commissione Parlamentare di Vigilanza che in realtà non esercita nessun reale potere di controllo, e spesso si lascia tentare dal ‘micromanagement’, come quando organizza le audizioni dei programmi scomodi; con l’AGCOM che può intervenire su alcune questioni ben precise, ma non sul resto; con il Consiglio d’amministrazione RAI che – essendo di diretta nomina dei partiti – non ha l’autonomia né di poter difendere le scelte aziendali contro i propri dante-causa, né il potere di imporre alcunché all’Amministratore Delegato, dotato dalla legge Renzi di superpoteri, che possono esser fermati solo con una maggioranza qualificata contraria del Consiglio di Amministrazione.

Insomma grande è il disordine sotto il cielo, e il moltiplicarsi di interlocutori e livelli di responsabilità e controllo, produce come conseguenza principale una deresponsabilizzazione generale: del management, come delle autorità politiche. Un segnale di come in realtà non si sia capito davvero l’importanza e la centralità di un servizio pubblico dei media nelle società della transizione digitale.

Cosa accade nel resto d’Europa?

È lo stesso anche negli altri paesi? Si e no. Si, perché quello dell’attacco al canone è uno scenario già visto nei paesi di recente democrazia o di scarse tradizioni pluralistiche.

La stessa deriva, purtroppo, si riscontra nei paesi dell’Est europeo, dove il servizio pubblico è stato reso ininfluente dall’assalto di competitor privati che, con l’aiuto dei governi di turno da loro appoggiati, hanno ridotto ai minimi termini la sua rilevanza nella società. Un danno alla collettività che, quando poi i competitor privati sono stati a loro volta, fagocitati dai gruppi globali, è divenuto irreparabile.

È quanto accaduto o sta accadendo in Romania, Bulgaria, ex Jugoslavia, Repubblica Ceca…, tutti paesi dove il servizio pubblico raggiunge ormai percentuali di ascolti inferiori al 10 per cento. Una variante di segno diverso ma forse anche più preoccupante, è quella rappresentata dall’emergenza delle “democrature”, dove partiti di governo hanno cercato (spesso con successo) di alterare il gioco democratico per restare al potere e bloccare la regola dell’alternanza, partendo proprio dall’abolizione del canone o dalla sua sostituzione con finanziamento diretto dal budget dello Stato e dal controllo dei media. Prima di quelli pubblici, per poi estendere il controllo ai gruppi media privati (indeboliti dalla crisi del settore), attraverso un mix di intimidazioni, corruzione, ricatti e attacchi legali e fiscali di vario tipo.

È quanto avvenuto in Polonia, in Ungheria e quanto è stato tentato in Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca. Per non parlare dell’esempio più eclatante, e cioè quello della Turchia, dove ormai Erdogan controlla direttamente o indirettamente il 90 per cento dei media del paese. In ciò favorito dalla non applicabilità delle regole dell’Unione europea che (bene o male) prevengono o quantomeno rendono più difficile la presa di controllo dei governi sui media. Non è un caso, infatti, se proprio le regole sui media sono uno dei capitoli più controversi dei negoziati fra Unione europea e Turchia per l’allargamento, di fatto sospesi da ormai un decennio.

Sarà un caso, ma in tutti questi paesi, l’assalto finale all’indipendenza dei servizi pubblici, è partito proprio dall’attacco al canone radiotelevisivo.

In Romania lo ha abolito nel 2016 il governo populista alla vigilia delle elezioni politiche. In Polonia l’attacco è cominciato dai liberisti di Tusk, che hanno affamato TVP e PR attraverso il mancato aumento del canone e la mancata repressione dell’evasione del suo pagamento. Quando sono arrivati al potere i fratelli Kaczynski del PiS si sono guardati bene dal ripristinare il canone, e hanno preferito trasferire soldi direttamente dal budget dello stato per ripianare i deficit di TVP e PR, esigendone in cambio di un’epurazione totale, cioè l’estromissione di tutti i giornalisti e manager ritenuti non “leali” con il partito al governo. Stessa soluzione adottata in Ungheria da Orban, dove è stata addirittura creata una “bad company”, in cui sono stati confinati tutti i dipendenti “non in linea”, che sono poi stati licenziati progressivamente a gruppi di qualche centinaio per volta, fino a che non ne è rimasto più nessuno.

Quindi si attacca il canone, perché si vuole uccidere il servizio pubblico o ridimensionarne fortemente la capacità di parlare alla maggioranza del paese o, al contrario, per prenderne il controllo totale, dopo una cura shock giustificata proprio dalla scarsità di risorse. Tant’è che nei paesi dove le radio televisioni pubbliche sono ininfluenti (sotto il 10 per cento), il canone viene lasciato e il servizio pubblico viene addirittura rinforzato con altre iniezioni di denaro pubblico, al solo fine di lasciarlo in vita, possibilmente sotto stretto controllo del governo.

Cosa è successo al canone nel resto d’Europa, nei Paesi con cui amiamo paragonarci: Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna?

In questi paesi le tentazioni populiste dell’Est europeo di mettere sotto stretto controllo del governo i servizi pubblici, non hanno attecchito. I problemi che inevitabilmente presenta il canone dopo cento anni di onorato servizio, sono stati affrontati uno per uno e risolti con soluzioni appropriate, che hanno mirato a salvarne le due funzioni principali: quello di ribadire il legame diretto che esiste fra Servizio Pubblico e cittadini e che prescinde dai Governi e dai Parlamenti che si succedono nel tempo; e quello di garantire un flusso costante, prevedibile e garantito di risorse, necessario a tenere i servizi pubblici al riparo dai ricatti del governo di turno.

Nei paesi con cui amiamo paragonarci, infatti, le cose sono andate in modo diverso.

In Germania ad esempio, dal 2013 il canone legato al possesso dell’apparecchio radio o tv, è stato sostituito da una imposta legata alla disponibilità degli immobili (pagata da chi li ha in uso: proprietari e non). Un’imposta che ha per unico scopo quello di finanziare il servizio pubblico, slegata dal possesso di TV o radio, il cui importo viene variato con periodicità quinquennale e stabilito da una commissione di esperti indipendenti. Tale imposta viene riscossa direttamente dalle tv pubbliche e non transita per le casse dello Stato.

Nel Regno Unito, paese in cui il canone radio è stato inventato, i governi conservatori al potere si sono opposti a che esso venisse esteso anche ai nuovi devices come i telefonini, ma in compenso ne hanno lasciato la raccolta alla BBC stessa (con intervento pubblico contro gli evasori) e fissando gli importi per almeno un quinquennio, in maniera da dare certezza di risorse nel tempo. Boris Johnson nel corso del suo ultimo mandato, prima di esser travolto dagli scandali, ne aveva annunciato l’abolizione per il 2027 (in coincidenza con la scadenza della Royal Charter in vigore), ma l’annuncio di questa intenzione non gli ha portato fortuna, tant’è che si è dovuto dimettere qualche mese dopo. Per ora, quindi, non sono attese grandi novità sul canone inglese.

La risposta invece è “No” nei paesi del Nord Europa, che si sono posti l’obiettivo di correggere i problemi che presenta il canone alla prova del XXI secolo anche se, nel farlo, hanno imboccato strade diverse.

In Finlandia, ad esempio, dal 2013, il canone è stato sostituito da un prelievo addizionale sulle imposte dirette riscosse dallo Stato, finalizzato esclusivamente a finanziare il servizio pubblico radiotelevisivo. Non è più legato al possesso di un apparecchio di ricezione, risolvendo soci il problema della moltiplicazione degli apparati; e l’importo da pagare non è più uguale per tutti, ma è legato al livello del reddito.6 Gli importi di questo prelievo addizionale sono raccolti dallo Stato come tutti quelli delle dichiarazioni dei redditi annuali, ma vanno su un conto speciale vincolato, di cui l’unico beneficiario è la YLE, l’organismo che per legge svolge la missione di servizio pubblico radiotelevisivo. In caso di fluttuazione del ricavo di questa addizionale (momenti di crisi, eccetera) la differenza viene ripianata dallo Stato, che garantisce cosi alla YLE la certezza dei ricavi su più anni. Dal 2020 anche la Svezia ha adottato questo modello, con pochissime variazioni. Norvegia ed Islanda pure hanno imboccato questa strada, ma non hanno avuto il coraggio di introdurre la progressività legata ai livelli di reddito, ed hanno preferito adottare un importo uguale per tutti i contribuenti.

Un caso a parte, infine, è quello francese, dove il presidente Macron, per vincere le elezioni presidenziali 2022 contro Marine Le Pen, ha annunciato a pochi giorni dal voto, l’abolizione del canone radiotelevisivo. Una promessa che poi ha dovuto mantenere, ma che – senza avere una maggioranza in Parlamento- si è trovato a dover gestire fra mille difficoltà, garantendo agli enti che in Francia svolgono il servizio pubblico radiotelevisivo, il finanziamento diretto dal budget dello Stato in misura pari (a valori costanti) a quella percepita fino al 2022. La soluzione del problema in maniera più definitiva è rinviata a tempi migliori, a quando cioè il governo avrà di nuovo una maggioranza in Parlamento.

Conclusione

L’Italia, quindi, si trova ad un bivio: mettere mano ad una seria riforma del finanziamento che risolva i problemi strutturali del canone prima elencati, scegliendo una delle tante vie imboccate nel resto d’Europa (modello tedesco legato alle abitazioni, modello finlandese di un’addizionale IRPEF, ecc.) oppure, come il governo sembra intenzionato a fare, imboccare la strada dell’abolizione del canone come premessa per la liquidazione fisica (o per un drastico ridimensionamento) del servizio pubblico radiotelevisivo. In quest’ultimo caso, la fine è nota, perché lo si è già visto nei paesi dell’Est dove il metodo è stato applicato con successo.

Aggredendo il canone, si riducono drasticamente le risorse a disposizione, il che vuol dire soprattutto ridurre la qualità della produzione (visto che i salari sono una variabile non comprimibile nel breve periodo), provocando cosi una disaffezione del pubblico nei programmi RAI con conseguente perdita di ascolti, che a sua volta porta ad una riduzione delle risorse pubblicitarie, che, a sua volta ancora, infine, porta ad una delegittimazione del servizio pubblico nel sentimento dei cittadini.

Per i motivi esposti prima, questa sarebbe una scelta sciagurata, che l’Italia (per le sue specifiche condizioni sociali e strutturali di debolezza) non si può permettere, e dove sarebbero in molti a rimetterci, ivi inclusi, come sottolineato in apertura di articolo-,alcuni dei partiti dell’attuale maggioranza. C’è quindi da augurarsi che qualcuno trovi il coraggio di fermarsi sull’orlo dell’abisso e decidere che la RAI è davvero un “bene comune” del Paese, e che, come tale, andrebbe messo in sicurezza e tolto dalla mischia quotidiana degli insulti e della polarizzazione.

Dubai, 2 dicembre 2023

1 La prima legge organica sul canone fu varata sotto il regime di Benito Mussolini dal Regio Decreto Legge 21 febbraio 1938, n. 246 (convertito nella Legge 4 giugno 1938, n. 880).

2 Audizione del 25 luglio 2023 presso la Commissione Parlamentare di Vigilanza

5 Il fatturato MFE 2022 è stato di 2,2 mld di euro contro i 9,595 di Vivendi ed i 7,2 mld di RTL group. I numeri la dicono lunga a proposito di quanto la strada immaginata da Pier Silvio sia in salita.

6 In Finlandia questa imposta è pagata da tutti i contribuenti con + di 14 mila euro di reddito, nella misura del 2,5% , ed è quindi proporzionale al reddito, ma con un tetto fissato a 164 euro l’anno.


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