Carissima amica mia,
Scusa se rispondo in ritardo alla tua lettera, ma impegni di vita mi hanno portato altrove anche se non con la mente. Il tempo è trascorso pure perchè avevo bisogno di maturare e sperimentare su me stesso quello per cui mi chiedi un consiglio. Tu sai che non sono un grande esperto di vita sociale, non perché mi facciano paura gli altri, il fatto è che mi deprime l’appiattimento degli argomenti di conversazione direttamente proporzionale all’ampiezza della comunità che incontri a cena. Ancora non capisco se sia una conseguenza della mia terza età o della desertificazione delle idee, della assenza di conflitti, della visione del mondo Netflixizzata che produce la sclerosi del dialogo e della dialettica, fatto sta che ho dovuto forzare la mia indole e l’ho fatto solo per poterti essere utile.
Veniamo a noi. Mi chiedi di aiutarti a trovare un ristorante di tendenza dove festeggiare una laurea e io mi sono messo a frequentare posti al di fuori della mia portata, facendomi aiutare da persone che mi facessero da “maniglia” compensando la mia evidentemente scarsa attitudine alla frizzante vita mondana.
Non vado volentieri al ristorante se escludi le trattorie dove vengo accolto come “uno di casa”, dove conosco gli ambienti, dove mi rassicura l’idea di poter mangiare, conversare, come fosse un convivio greco. Sono luoghi semplici dove gli ospiti di una serata di gala potrebbero essere a disagio, mi sono anche reso conto che frequento questi posti perchè ne capisco e ne condivido la lingua. Mi spiego meglio, comprendo quello che l’oste descrive usando codici comuni alla tradizione consolidata, così come alla mia esperienza e scelgo quello che avrei voglia di mangiare.
Non amo lo sfarzo e rifuggo le confusioni di ruolo; capisco cosa sia una cacio e pepe e un abbacchio alla cacciatora, e poiché amo profondamente immergermi nella varietà di valori e di comportamenti che deriva dalla diversa cultura materiale (citazione Marxiana assolutamente volontaria), capisco cosa sia una pasta con le sarde, dei canederli in brodo, una bagna cauda, una cassoeula; nei locali di tendenza che ho visitato e di cui ti parlerò mi sento a disagio.
Quello che mangiamo è il frutto di una lunga storia, costruito dalla tradizione, dalla fantasia e sempre pronto ad essere modificato un un nuovo assetto, ma destinato ad un valore d’uso (mamma mia ancora Marx) che, per me, non può essere diverso dalla vecchia idea di convivio.
Invece nel primo ristorante sperimentato: aria ovattata, luce soffusa, succede che si avvicina al tavolo un cameriere con la stessa andatura e lo stesso sguardo che dovrebbe avere un attore quando interpretasse Cristopher Sky, ti ricordi? Il povero candelaio della Bisbetica domata di Shakespeare al quale fanno credere di essere un ricco Lord. Bene, in mano il menù, stretto tra le dita come il rotolo delle tavole della legge, si è rivolto a noi che attendavamo il suo verbo con il chiaro intento di metterci a disagio:
In questo ristorante noi offriamo una esperienza gastronomica….. un percorso esperienziale fatto si, di cibo, ma in grado di coinvolgere i sensi attraverso profumi, colori, sapori, densità, armonicamente strutturati come in una una sinfonia.
Ero senza parole, ma non senza pensieri. Ad un approccio come questo si reagisce in due modi: ci si sente elevati di rango, si è pronti a considerare se stessi come capaci di capire una poesia usando lo stomaco anche senza averne mai letta una, oppure si comincia a pensare che in fondo la pena di morte potrebbe anche essere ripristinata per crimini contro l’umanità tipo questo. Io, democratico convinto, vacillavo verso la seconda ipotesi. Nel delirio attoriale da strapazzo il nostro propose: un sussurro di basilico, una melanconia di asparagi, degli abbracci di branzino. Avevo la salivazione azzerata dalla rabbia e di conseguenza mi era passato l’appetito. Cerca di seguirmi, questo signore pretende di attirare clienti facendoli sentire capaci di percepire con lo stomaco segni che non sono in grado di percepire con l’intelletto, sciorina alimenti ermetici, simboli con pretese caloriche, lontani dall’essere volgare cibo. Un orrore.
Questo tipo di mistificazione, culturalmente, passa attraverso l’idea di Tolstoj (poeta russo dell’ottocento e non modalità di cottura di un contorno), secondo cui la verità non può mai essere scoperta di botto, si svela solo a coloro che approfondiscano la ragione per andare al fondo delle cose, coloro che cercano senza credere. Girando lo sguardo tra i tavoli vedevo persone capaci di guardare senza vedere, sentire senza ascoltare, mangiare senza gustare e, sopratutto, parlare senza pensare. Un mondo che ha smesso di provare emozioni per un verso di Dante e pensa di di poterlo surrogare senza la passione e la fatica necessarie a farsi domande che siano estranee alla comoda e cieca mediocrità.
Quando apro un libro di Quasimodo o di Montale, tanto per andare alla vera poesia, comprendo la ricerca del simbolismo, lo sforzo di costruire immagini con poche rapide parole. Io sono uno spirito semplice, per me la poesia e la cucina restano due mondi: la prima è composta da un poeta, la seconda da un cuoco. Tu sai bene che se si tratta di svagarsi non mi tiro mai indietro e per giocherò mi è venuta l’idea di condividere con te come potrebbe essere il menù del ristorante ideale gestito da noi due secondo la logica di questi assassini del verso, di questi sterminatori della poetica, di questi eretici alle vongole che cercano di trasformare una serata con amici in un rito misterico senza dio, approfittando della calma piatta neurale che rende felici i cervelli in fase di stasi.
Adesso faccio io la parte del disfattista, del dissacratore e ti propongo i tre versi più famosi di Salvatore Quasimodo, quelli del liceo di tutti noi, per intenderci e ne faccio un menù.
Ognuno sta solo sul cuore della terra
Trafitto da un raggio di sole
Ed è subito sera
Cosa potrebbe essere? Facciamone tre portate del nostro “bistrot per letterati stanchi”. Prima portata: Ognuno sta solo sul cuore della terra.
Il poeta riferisce ognuno alla solitudine dell’uomo incapace di esternare sentimenti e pensieri, allora ti propongo un antipasto con tre pezzettini di verdure a chilometro zero rigorosamente crude e servite su un letto di humus su pane azzimo.
Trafitto da un raggio di sole sarà la seconda portata dove la metafora simbolista di un raggio non illumina, ma trafigge, rimanda alla spada che inchioda alla terra la felicità della luce, mi sembra opportuno che diventi uno spaghettone di Gragnano condito con colatura di alici, prezzemolo dell’orto e olio extra vergine.
Ultimo sapore della casa sarà assaggiare il nostro ed è subito sera, dopo il tramonto un ultimo sapore scuro e definitivo, una crostata scomposta con confettura di visciole e lamponi decorata con frolla sbriciolata e frutti di bosco.
Sai che mentre scrivo mi prende l’angoscia e la paura che qualcuno possa prendere sul serio la cosa e servire Quasimodo a tavola? Ho esagerato? Forse, ma il fatto che mi rende felice è poter ancora reagire; la vita deve essere la rivolta contro tutto quello che mi fa orrore.
Credi che basti? Senti cosa mi è successo la settimana seguente.
Organizzo di andare a visitare un posto nuovo da proporti. Un bistrot, cosi si faceva chiamare, era di quelli che avrebbero respinto un avventore come me a prescindere dal menù, ma ormai ero in gioco e non potevo fuggire. l’architettura in vetro e acciaio voleva ricordare uno dei vecchi mercati di un paio di secoli fa, se ne trovano ancora a Firenze, a Pistoia, a Venezia e sono reperti di un mondo mercantile oggi soppiantato dai supermercati dove la confusione e il rimbombo delle grida dei venditori si sovrapponevano e si combinavano a formare il giusto contrappunto ai colori vivaci della frutta e delle altre delle merci da vendere. Di quelle grida Raffaele Viviani, uno dei maggiori autori di teatro del secolo scorso, ne ha fatto musica costruendo la scena centrale di un suo lavoro fatto di quelle voci senza una trama. In un posto così, se fosse vero e se non ci si dovesse mangiare, ti assalirebbero i ricordi di una agricoltura che non era industria, di fatica, di sorrisi, di imbrogli bonari di un mondo che cercava di crescere. Ci vedresti il mercante di Venezia, Shylock confabulare con Antonio e Bassanio per definire gli interessi su un prestito, purtroppo ci devi passare due ore e il frastuono è tale da non riuscire a percepire la voce di chi fosse seduto a te di fronte. Ma la vera sorpresa è stata leggere il menù fatto semplicemente elencando, per ciascuno dei piatti, gli ingredienti utilizzati.
Spaghetti grossi Rummo, pomodorini del piennolo vesuviano, pecorino stagionato Fior di Monte e basilico dell’orto.
Una follia, pagine di ingredienti sciorinati con un disprezzo talmente evidente per l’arte di mettere insieme le materie prime da apparire come la vendetta di chi compra rispetto a chi elabora. Ti ricordi la bellissima filosofia di Marx quando analizza il sistema capitalistico di produzione come una “immane raccolta di merci”? Dal nostro menù era stata rimossa ogni traccia della quantità di lavoro necessaria a produrre il piatto in vendita, sparisce il valore di scambio che, ho controllato, era ben compreso e amplificato nel prezzo. Non mi tornava nemmeno il valore d’uso del piatto come conseguenza del suo apporto calorico, a meno che non fosse ascrivibile, ad un’altra grande intuizione di Marx: il feticismo delle merci. Magari non è giusto mettere quel bistrot in relazione ad una delle più interessanti e approfondite interpretazioni filosofiche che mente umana abbia prodotto, forse è solo moda tra i “trendy” e, se così fosse, si spiegherebbe il mio rifiuto istantaneo, a meno che non fosse una scena de “lo famo strano” di Verdone, il fatto è che era tutto drammaticamente vero.
In ambienti come questo, se la chiamassi, secondo tradizione, “Pizza Margherita” gli avventori potrebbero pensare ad un mondo proletario, per giunta del sud, che mangia con le mani; se invece lo stesso piatto lo chiamassi:
Frammenti di mozzarella biologica su emulsione di pomodoro sammarzanno servita su un letto di grano saraceno
sarebbe un’altra cosa, costerebbe il doppio e farebbe felici tutti.
Immagina una Ferrari Roma descritta attraverso l’elenco dei pezzi, oppure, La Madonna del Pellegrino di Caravaggio o La cena di Emmaus della Pinacoteca di Brera presentate come una
tempera a uovo sovrapposte a strati ad olio su di un tracciato grafico con terra d’ombra bruciata impastata a corpo stesa su una preparazione a base di gesso, olio di lino cotto e pigmento bruno.
Non sono andato oltre questi due ristoranti perchè la conclusione da suggerirti credo di averla in testa, la cosa preoccupante, parlando con gli avventori e i clienti, è la visione etica che oggi la maggioranza della gente mostra senza vergogna di avere. Credo sia figlia di una visione estetica insinuata sub limen dalle piattaforme social e dalle piattaforme televisive e diventata ormai la calma piatta neurale a cui accennavo prima. Un disimpegno da tutto e da tutti, sempre estremamente rassicurante. Sai quel gioco che un tempo si vedeva nelle fiere di paese in cui uno spettatore, complice veniva ipnotizzato dal sedicente mago e compiva tutti i gesti che gli venivano imposti con voce roboante? Sembra che sia successo in via collettiva, che la malia passi ad ore stabilite in modo uguale per tutti, un farmaco anestetico che provoca una certa gioia inconsapevole perchè la consapevolezza della verità provocherebbe dolore. La matrigna di Biancaneve oggi potrebbe stare tranquilla: “tablet brama delle mie brame chi è la più bella del reame?” L’algoritmo che guida il nuovo specchio magico nasconderebbe la bellezza di Biancaneve e lascerebbe la matrigna felice e ignorante per tutta la vita. È anche per questo che amo le favole, il nostro genocidio culturale viene proprio dalla mancanza di senso del tragico, nessuno, per paura della verità, interroga più il destino.
Con immutato affetto
Tuo Aldo
PS. per I tuoi parenti neolaureati il mio suggerimento è una spaghettata a casa, dopo tanti anni di studio e avendo passato gli ultimi mesi sui libri è bene che l’impatto con il mondo che gli abbiamo lasciato sia molto molto graduale.
SEGNALIAMO