Siamo in Russia nel 1896 in compagnia di “Zio Vania” di Anton Pavlovič Čechov!
Ma al teatro Vascello di Roma, ove si sta svolgendo il dramma, sembra di vivere scene di vita quotidiana. È possibile? Sì grazie al regista Leonardo Lidi che, con la complicità della sua compagnia e grazie alla bravura dei suoi artisti, è riuscito a far rivivere quel testo e tirarvi dentro il pubblico.
I personaggi del dramma sono nove, essi si ritrovano in una casa di campagna ognuno con le proprie mansioni a servizio di un vecchio professore che ha sposato una giovane avvenente moglie. Tutti portano in scena le loro testimonianze di vita che man mano diventano delusioni e amarezze del vivere sociale. La loro vita è monotona, nessuno è pago della propria condizione; di volta in volta gli attori si presentano sfrontati, in pantofole e bigodini come la vecchia governante o con grandi parrucche cotonate come la protagonista Elena e così la figlioccia Sonia. Entrambe revival di una moda anni sessanta che ci riporta di botto a quegli anni del boom economico ai Beatles e ai Rolling Stones, alle contestazioni studentesche che rivendicavano la libertà negata e si opponevano alle guerre mettendo dei fiori nei loro cannoni.
Tra i personaggi spicca il protagonista: Zio Vania, uno zio strano, insolito, scapigliato e trasandato in preda a crisi isteriche insoddisfatto della propria vita e che, nonostante i suoi continui tentativi, non riesce a conquistare le grazie della bella Elena cadendo così in un profondo sconcerto.
La scenografia scarna ma essenziale, senza orpelli fatta di tavoli di betulla, come lo stesso regista fa notare, con nodosità naturali a testimonianza della natura dell’albero ricorda il bosco di betulle tanto amato dall’annoiato dottore di campagna che sottolinea, a più riprese durante il colloquio con la vecchia badante, l’amore per il suo bosco. Quel bosco che non è opera dell’uomo ma creato dalla natura che ce ne ha fatto dono e che l’uomo sta distruggendo senza capirne il valore. Quale riferimento al nostro tempo più appropriato poteva scuotere le nostre orecchie! Sembrava ascoltare i soliti discorsi che spesso si fanno nei salotti bene tra persone consapevoli che tanto il problema ci riguarda sì ma che poi altri dovranno risolvere. Al di là della storia, presa a spunto da Čechov per riflettere sul male di vivere e della nostra incapacità di trovare motivi validi per sconfiggerlo, la pièce ci offre uno spettacolo di vita che, presentato con un nuovo linguaggio, si addice perfettamente alla nostra attuale condizione.
Questo è il teatro diceva il grande Eduardo, è necessario quando si supera la soglia di uscita, accorgersi che non vi è differenza, se non sublimata, tra la vita raccontata e la vita reale. Oggi, che viviamo un periodo così difficile da superare tra pandemie passate ma non risolte e focolai di guerre terribili in tanti angoli del pianeta, frastornati da fiction che ci abituano alla violenza sia pur virtuale, i nostri sensi sono addormentati quindi ben vengano spettacoli che riescono a scuotere il nostro torpore con un linguaggio nuovo che sappia trasformare quello antico ormai obsoleto in una forma per noi accettabile. La vista dei personaggi così come appaiono denuncia sciatteria, abbandono e irriverenza quasi specchio, alter ego dei nostri tempi dove ognuno può riflettere e, in qualche modo, riconoscersi e sentirsi, nel bene e nel male, partecipe.
La nostra libertà di interpretazione spesso viene condizionata dal bon ton ma in casi come questi laddove il pubblico viene chiamato direttamente in causa il suo giudizio diventa più veritiero e più libero.
Sosteneva Gaber: la libertà è partecipazione ed ecco che si può anche a teatro, usando un linguaggio consono e sottolineando le analogie che ci accomunano ad un tempo lontano ma non estraneo, trasformare il teatro stesso, tempio di cultura, in un Agorà democratica e politica quindi libera.
Il teatro langue, esso richiede innovazione, capisaldi come “Zio Vania” non vanno toccati, sono opere d’arte e come tali vanno rispettati. Ma in arte, si sa, in tutte le arti anche in quelle visive, è solo una questione di forma. Pertanto essa va rivista; qualcosa deve essere sacrificato sull’altare della innovazione e dei tempi. Solo così il vecchio potrà rinascere a nuova vita così come L’Araba Fenice risorge dalle proprie ceneri.
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