Siamo nei lontani anni ’70.
In Italia c’è ancora la democrazia. Nelle fabbriche nascono i Consigli di Fabbrica che si affiancano alla tradizionale rappresentanza sindacale.
Può capitare che un giovane con pretese intellettuali venga incaricato di collaborare ai percorsi di Formazione che riguardano i lavoratori impegnati ad assumere questo nuovo ruolo sia sul Territorio che nei tradizionali rapporti con la controparte padronale.
La cosa più difficile non è spiegare il Piano Petrolchimico nelle sue ricadute sul territorio meridionale o il Piano Mansholt per il rinnovamento strutturale della agricoltura europea.
I veri drammi si presentano quando si deve parlare dell’atteggiamento da tenere durante una trattativa e, soprattutto, del vestiario da indossare.
In effetti non è semplice sostenere e convincere che “quando un uomo in giacca e cravatta incontra un uomo in tuta, quello in tuta è un uomo morto” (malamente citando “Per un pugno di dollari”) ma non si può fare a meno di provarci. È un dovere.
Di solito si ricorre ad argomentazioni comportamentali. Si spiega che la giacca offre molti più spazi dove nascondere qualcosa oppure le mani.
Si ricorda che disporre di una cravatta da guardare in modalità speculativa può essere prezioso sotto l’attacco di un avversario cui non si vuole offrire il proprio sguardo attonito.
Si fa osservare che disporre di un vestiario comodo e accogliente può essere determinante durante una trattativa che può durare molte ore senza interruzioni.
Infine, e persino, che anche in caso di ingloriosa ritirata è meglio farlo ben vestiti che stazzonati.
Si può far credere all’avversario padronale che ci si ritira apposta per poter attaccare nuovamente e più forti di prima.
La risposta a queste argomentazioni è di solito sprezzante.
Chi le sostiene viene “accusato” di non avere sufficiente orgoglio proletario. Di non rendersi conto del profondo valore anche simbolico della tuta da lavoro o comunque degli atteggiamenti “di classe” e della loro potenza.
Ancora, si sostiene che occorre palesemente esprimere il disprezzo per i funzionari con cui si è costretti a trattare.
Alla fine può anche succedere che si arrivi alla contrapposizione esplicita anche sul piano fisico.
Se succede il sindacato è costretto a espellere (o perlomeno a rimuovere dalla trattativa) il responsabile per non danneggiare tutti con coloro che aspettano la conclusione di quel passaggio complesso.
Ma, si dirà, sono cose di cinquant’anni fa. Oggi è tutto diverso.
Certo, oggi è tutto molto peggio.
Proviamo a prendere questi sciocchi ricordi da un altro punto di vista e scopriremo una preoccupante continuità.
Un incontro tra controparti sull’organizzazione del lavoro o sui turni costituisce una sede formale, esterna rispetto ai bisogni contrapposti che in essa si manifestano.
Questi “bisogni” (che siano di provenienza padronale o subalterna) devono entrambi necessariamente riconoscere quella sede di incontro come terza rispetto ad essi.
Di conseguenza gli atti compiuti in quella situazione formale devono essere guidati da un criterio di efficacia finale invece che di rappresentazione di principio.
Insomma, non serve a nulla proclamare la propria essenza ma occorre arrivare a una riduzione del turno o a un aumento del salario. Punto e basta.
Se però guardiamo, saltando di palo in frasca, alla condizione diffusa della vita attuale ci rendiamo conto che la scelta (e il diritto) di rifiutar di indossare la cravatta è diventata una prassi quotidiana che finisce per danneggiare chi la adotta.
Ma proviamo ad andare per ordine.
Viviamo, ormai notoriamente, in un mondo caratterizzato da continui messaggi di molti per molti.
Praticamente ognuno ritiene di potersi liberamente esprimere attraverso una enorme quantità di comunicazioni personali.
Questa possibilità viene, sia pure non formalmente, equiparata alla stessa esistenza in vita.
In altri termini: se non comunichi costantemente chi sei probabilmente sei già morto e non te ne sei ancora accorto.
Si badi bene che questo non avviene soltanto attraverso i social e per loro responsabilità. L’esibizione incondizionata di tatuaggi dal pur incerto valore simbolico appartiene a questa medesima prassi.
Ciò che apparterrebbe, scolpito come è sulla pelle, alla sfera più intima dell’individuo viene esibito e trasformato in messaggio.
Ancora, l’esibizione da parte dei vari pupazzi televisivi, di acconciature o decorazioni sempre più esageratamente vistose che gridano disperatamente “io ci sono! Guarda me, per favore!”.
Sostanzialmente siamo di fronte al tendenziale abbandono di ogni sede di linguaggio condiviso ed efficace per rifugiarci invece in una comunicazione tutta individuale e personale.
Questa dimensione viene interpretata come liberatoria e libertaria, mentre è esattamente il contrario.
Infatti, nonostante quel che può apparire, il potere e la possibilità di azioni efficaci non si è affatto trasferito nella comunicazione, ora apparentemente affidata a tutti, suddividendosi in infinite particelle corrispondenti ad ogni essere umano.
Anzi, quella comunicazione diffusa ha perso sostanzialmente qualunque valore.
Quel che viene vissuto come nuova sfera della libertà presentandosi come si pensa di essere e non dovendosi adeguare a nessun dizionario preesistente corrisponde in realtà all’appartenenza ad un immenso esercito di forza lavoro non pagata.
Ogni espressione, anche la più ribelle e anarchica, viene immediatamente delibata e utilizzata, se utile, ai fini del mercato mondializzato e finanziarizzato che ci circonda in ogni aspetto della vita.
Noi, tutti noi, siamo milioni di lavoratori non pagati ed immettiamo costantemente informazioni e messaggi illudendoci che essi ci rappresentino e difendano.
Ma altrove, non lì, sta la vera battaglia per i diritti e l’identità di ognuno.
Torniamo, in conclusione, all’uomo con la giacca che incontra l’uomo con la tuta di cui in apertura.
Nella attuale crisi della Politica ed, evidentemente, anche delle Istituzioni vi è un assoluto bisogno di ricostruire “sedi terze” in cui sia possibile esprimere opzioni e bisogni di carattere non individuale o propagandistico.
Queste sedi, per essere vere, devono avere regole di funzionamento e di comunicazione che siano condivise dalle parti in gioco.
Sino a quando continueremo a confondere un apparente diritto di espressione con la vera Libertà e la conquista di milioni di like con una vera partecipazione al Potere, ebbene sino a quel momento saremo sconfitti e inesistenti.
Rimane, purtroppo, un’ultima questione.
Vale a dire la capacità potenziale della attuale classe dirigente italiana di cogliere e farsi carico di questa questione.
Qui non si può essere se non pessimisti.
Le forze politiche e culturali italiane sono assolutamente schiacciate sulla accettazione e sulla utilizzazione a fini personali del finto mondo in cui sono entrate con la testa e con i piedi.
Ogni tanto la sanguinosa realtà materiale attorno a noi ci ricorda violentemente cosa è il mondo vero.
A questo punto possiamo solo sperare che, come talvolta già successo nella Storia, si determini qualche drammatica catarsi e da essa emergano nuove prospettive e nuovi gruppi dirigenti.
E, soprattutto, che la Realtà riprenda (pur drammaticamente) il predominio sulla finzione.
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