GIUSEPPE SCALETTA
Alle elezioni del 25 settembre 2022 per il rinnovo della Camera e del Senato ha votato il 63.91% degli aventi diritto, il dato più basso mai registrato per le politiche. Meno di tre settimane dopo, il 14 ottobre, Marc Lazar, storico e sociologo della politica, tiene a Bologna per il festival “I dialoghi di Pandora Rivista” una lectio magistralis dal titolo “Ma le nostre democrazie sono condannate?”.
Spoiler: Marc Lazar si mostra positivo e risponde negativamente alla provocazione. Potremmo allora dire che, se non proprio condannate, le nostre democrazie sono quanto meno certamente in crisi. Addirittura, Massimo Cacciari, in un intervento tenutosi per lo stesso evento, qualche ora dopo, sosterrà che la democrazia stessa è un regime di perenne crisi. Se la democrazia, infatti, dovrebbe per definizione essere il regime in cui il potere risiede nelle mani del popolo, il demos appunto, al tempo stesso le nostre attuali democrazie prevedono che ad esercitare questo potere sia solamente una ristretta minoranza.
È ciò che Cacciari chiama l’elemento aristocratico insito in ogni democrazia. In questo caso, quindi, “crisi” significa esattamente la propria etimologia: dal verbo greco “κρίνω”, “giudico” o “scelgo”. La scelta del popolo su chi siano gli “ἄριστοι”, ovvero i “migliori” per governare, diventa quindi l’elemento di criticità insito nella democrazia stessa.
A questa scelta è sottaciuta una razionalità che, pur partendo dai Greci come sottolinea giustamente Cacciari, ha in età moderna una importantissima svolta: il contrattualismo. Se ragionando semplicisticamente possiamo dire che i Greci sceglievano i migliori da un punto di vista morale, o meglio etico nel senso di “corrispondenti ai costumi comuni”, i moderni scelgono a chi dare sovranità sulla base di una razionalità per lo più strumentale o calcolante. Perché?
La maggiore differenza tra gli stati moderni e quelli dell’antichità risiede proprio nei soggetti della società civile e politica. Se i Greci, ad esempio, si pensavano prima di tutto come polis, ovvero come comunità, i moderni si pensano prima di tutto come individui. Basti pensare che se per Aristotele la città è una forma di comunità naturale come lo è la famiglia, per i contrattualisti la comunità civile non esiste in natura. Nella modernità ognuno nasce come individuo e, proprio in virtù di ciò, può fare un patto per porsi artificialmente in comunità con altri individui.
La logica sottesa al contrattualismo moderno, infatti, assume come condizione di partenza un insieme disordinato di individui, per lo più violenti ed egoisti, ognuno dei quali incarna volontà e interessi particolari, non solo diversi tra loro ma persino inconciliabili a volte. Questi individui sono però in grado di calcolare i mezzi per realizzare tali interessi e volontà.
Ed è proprio nella razionalità strumentale la via di salvezza dal perenne stato di guerra in cui i “lupi” di Hobbes vivrebbero altrimenti. Siamo egoisti e violenti, ma razionali: ciò ci permette di capire che spogliarci della nostra sovranità totale per delegarne una parte ad un unico sovrano (che sia un solo individuo o un ristretto numero di individui), è un buon affare. Essendo uno Stato di soli sovrani assai violento e instabile, tanto da impedirci qualunque attività e previsione sul futuro, conviene lasciare a pochi quella sovranità politica. Chiaramente qui con “sovranità politica” intendo una sovranità dal senso ristretto, ovvero il potere di fare le leggi e di farle rispettare.
Poiché la convergenza di molte volontà verso un solo scopo non basta per conservare e istituire una stabile difesa, si richiede che la volontà di tutti sia, nella scelta di quel ch’è necessario per il mantenimento della pace e per la difesa, una sola. Il che non può accadere se ciascuno non sottomette la propria volontà a quella di un altro, sia esso un solo uomo, o una sola assemblea, così che quello ch’egli avrà voluto come necessario alla pace comune, sia da ritenersi come voluto da tutti e da ciascuno.[1]
Non a torto Hobbes è considerato il padre dello Stato moderno e della rappresentatività politica. Se vogliamo fare politica, dobbiamo scegliere qualcuno che ci rappresenti.
Alla luce di ciò, come possiamo spiegare, allora, il sempre maggiore astensionismo al voto? Sicuramente le cause sono molteplici e tra queste difficile diviene non cadere in moralismi. Ma avendo molto brevemente riassunto il meccanismo concettuale che ha generato lo stato moderno e rappresentativo, non posso fare a meno di riconoscere come una delle cause della crisi attuale della partecipazione politica, proprio la crisi del suo fondamento: il principio della rappresentatività.
Siamo ancora disposti a farci rappresentare da altri? Ovvero, siamo ancora disposti a «sottomette la [nostra] volontà a quella di un altro, sia esso un solo uomo, o una sola assemblea»[2]?
Sarebbe drastico e probabilmente sbagliato dare un no secco a questa domanda, anche perché in tal caso non parleremmo di crisi ma di fine delle democrazie. Come già detto infatti “crisi” significa “giudizio”: un momento di crisi è pertanto un momento per porre nuovamente sotto “giudizio” gli assunti di partenza al fine di testarli e capire se, alla luce di nuovi cambiamenti, reggano ancora o debbano essere sostituiti. In questo senso le crisi sono occasioni.
E dal 1642 (anno di pubblicazione del De cive di Hobbes) penso qualcosa sia cambiato. Se non vogliamo andare così a ritroso nel tempo, sarebbe infatti sbagliato pensare che da Hobbes nulla sia cambiato nel modo di far politica, anche se parimenti sbagliato a mio giudizio sarebbe pensare che sia cambiato tutto, possiamo vedere nell’articolo 67 della nostra Costituzione un’ulteriore pietra di paragone:
Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.[3]
Anche dal 1948 più di qualcosa è cambiato. Ritroviamo, infatti, il concetto di Nazione, un concetto ancora collettivo e unitario. Tra i cambiamenti più grandi che si contrappongono a una tale collettività unitaria e a una così intesa rappresentatività compare sicuramente la rivoluzione digitale e in particolare quella Social.
La differenza più lampante tra un cittadino di settantacinque anni fa e un cittadino odierno sta nel potere che essi hanno sulla propria immagine. La stragrande maggioranza delle persone, nel 1948 poteva vedere la propria immagine esposta in pubblica piazza, se tutto andava bene, pochissime e rarissime volte nel corso di una intera vita. Solitamente quando si moriva.
Oggi il 58,67%[4] della popolazione mondiale ha la possibilità di disporre della propria immagine con poco meno del mondo.
Ma cosa significa disporre della propria immagine?
Disporre della propria immagine non è cosa di poco conto, basti pensare che il nostro concetto di “persona” è strettamente collegato ad essa. “Persona”, infatti, in latino significa “maschera”, e più precisamente indica le grandi maschere lignee del teatro romano che venivano utilizzate per permettere agli spettatori di riconoscere i “tipi” o i personaggi per l’appunto. Inoltre, le maschere amplificavano le voci degli attori in modo da essere udite anche da chi sedeva più distante dalla scena.
E che cosa fanno i social se non permetterci di consegnare una nostra immagine, una nostra maschera, un’espressione della nostra persona, a una grande platea? Certo, né nuova né infondata è la critica secondo cui i social promuovano “tipi” irrealizzabili, pornografici o tossici. Ma questa opzione non toglie nulla al fatto che, al di là delle dovute differenze, il riconoscimento e l’immedesimazione che hanno luogo sui social hanno avuto e hanno un impatto tanto dirompente nel nostro rapporto con gli altri, da sembrare quasi ingenuo non vedere alcuna correlazione con il fenomeno della rappresentanza politica o della politica in generale. Siamo abituati, e ci andiamo sempre più abituando, ad avere un rapporto esponenzialmente più diretto e immediato con gli altri. E proprio in virtù di questa nostra capacità di autorappresentazione, siamo sempre meno disposti a delegare la nostra rappresentatività a qualcun altro.
La presente crisi potrebbe allora essere un momento in cui pensare se i tempi più lunghi e le intermediazioni insite nella rappresentatività di democrazie come la nostra, possano ancora trovare cittadinanza nel tempo della velocità e dell’immediatezza, dell’autopoiesi di una collettività sempre più individuale o di un individualismo sempre più collettivo.
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[1] Thomas Hobbes, De cive, V.6
[2] Ibidem
[3] Cost. Art. 67.
[4] Dall’edizione 2022 del Report globale sul digitale, prodotto da Hootsuite e We Are Social.
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