di FRANCESCA IZZO
(Docente di Storia delle dottrine politiche, Filosofia della politica e Storia e politica dell’integrazione europea all’Università Orientale di Napoli)
Massimo De Angelis individua nella sua relazione una serie di fenomeni critici: dalle tensioni e conflitti alimentati dall’unipolarismo occidentale agli squilibri e diseguaglianze che erodono le basi sociali della democrazia così come all’eclissi degli istituti che ne garantivano i valori. Nel loro insieme a me paiono scaturire dal cedimento della costellazione politica, sociale e culturale che si è imposta, all’indomani della seconda guerra mondiale, in tutto l’Occidente.
A sancirne definitivamente la fine, di nuovo, la guerra sul suolo europeo. La crisi che percorre da tempo le nostre società ha da fronteggiare ora un conflitto armato, di cui si continua a non intravedere la fine, che mai pensavamo avrebbe investito noi europei e che, in qualche modo, obbliga a guardar più a fondo la fragilità dell’Unione europea e le contraddizioni che attraversano l’Europa e i singoli Stati.
Sottolineo questa scansione temporale perché non trovo produttivo, ai fini della nostra discussione, retrodatare la crisi dei valori democratici alle origini della modernità, come tende a proporre Massimo de Angelis sulla scorta di una opzione filosofica che andrebbe discussa in altra sede o contesto. Aggiungo una premessa: l’Occidente di cui parlo, voglio ora precisarlo a scanso equivoci, è solo europeo e per di più osservato dalla prospettiva italiana.
Dunque, la costellazione a cui accenno è quella dei “gloriosi trenta”, quella che, sotto l’impulso egemonico degli Stati Uniti, ha guidato la ricostruzione e il boom europeo dando una soluzione piuttosto stabile alla crisi dello Stato liberale, colonialista e imperialista che, esplosa con la Prima guerra mondiale, aveva dilaniato l’Europa per tre decenni. Una soluzione fondata su un equilibrio post-liberale tra politica ed economia e che è consistita nello sviluppo del Welfare e di una democrazia rappresentativa articolata in sindacati e partiti radicati socialmente e muniti di solide culture politiche in un contesto mondiale segnato dal bipolarismo e da un mercato capitalistico regolato. Mentre il progetto dell’europeismo nasceva e si sviluppava nel quadro della divisione dell’Europa (e della Germania) tra i due blocchi.
Questo assetto è durato per un trentennio ed è poi stato travolto da processi di destrutturazione delle istituzioni politiche e di crisi delle culture che le animavano, prese in mezzo da un attacco ideologico “esterno” e da una inadeguatezza endogena ad affrontare le novità. Credo sia fondamentale per la nostra discussione chiarire che questi processi sono frutto di conflitti aspri interni alle società europee che venivano emancipandosi sul piano economico, sociale (rapporti tra i sessi, tra le classi e le generazioni ) e culturale dal complesso della sconfitta e dell’indigenza (la data simbolo è il 1968) e di competizioni crescenti sul piano mondiale scanditi dalla dissoluzione dell’Urss, dalla fine del bipolarismo e dall’inizio della “guerra mondiale a pezzi” (Irak, Afganistan, Jugoslavia, Yemen, Irak, Siria, Libia….).
Il pendolo tra fiducia nelle virtù del mercato mondiale e rinazionalizzazioni statali, con la guerra come opzione permanente, è il segno della incapacità o difficoltà ad affrontare il problema storico che ci trasciniamo da un secolo, cioè la dissimetria tra economia e politica e a risolverlo con una governance mondiale multipolare.
Dopo il 68. Diffondersi dell’ideologia “globalista” e esaltazione della democrazia “cosmopolitica”
Un primo esito è stato il diffondersi dell’ideologia “globalista”: una critica radicale della sovranità politica (ritenuta fattore di divisioni, di particolarismi e di violenza) e dei soggetti collettivi (in quanto oppressivi della libertà degli individui, come i partiti politici), di esaltazione della democrazia “cosmopolitica” fondata sui diritti dell’individuo, sul cittadino consumatore ed elettore, sui tribunali internazionali, eccetera, nella convinzione diffusa che la “globalizzazione” dei mercati avrebbe portato pace e benefici per tutti.
Così non è stato e, per contraccolpo, assistiamo al ritorno della politica (nei termini brutali della politica di potenza e della guerra), della geopolitica, e a una rinazionalizzazione squilibrata e squilibrante che ripropone – per quanto riguarda i caratteri dell’epoca e su uno scenario ora davvero mondiale e sempre più inquieto e insicuro – quella dissimetrìa tra economia e politica che dai primi del Novecento marca le nostre società a cui prima accennavo.
Lo Stato nazionale vede esaurirsi quelle risorse che gli avevano nel dopoguerra consentito di funzionare come agente regolatore del mercato e riequilibratore dei conflitti senza una salda sostituzione di istituti politici europei, ma è anche svanita l’utopia liberale del mercato che si autoregola e che, con il supporto del corredo dei diritti, delle agenzie “indipendenti” e dei tribunali, può fare a meno della politica, ovvero di un’istanza regolativa unitaria che afferma norme, principi comuni da far valere, anche coattivamente sui subsistemi.
La crisi è dunque anche, se non essenzialmente, manifestazione della crisi dissolutiva delle culture politiche che hanno sostenuto lo sviluppo delle nostre democrazie postbelliche e della difficoltà di mettere in campo idee e culture adeguate a uno scenario che, se richiama contraddizioni aperte da più di un secolo, vede protagonisti altri inediti attori.
Il processo di emancipazione e di liberazione delle donne
E vengo quindi al punto che più mi interessa sottolineare, a quel fenomeno ancora largamente sconosciuto all’epoca della crisi organica delle società europee tra Prima e Seconda guerra mondiale ma ora davvero imponente: il processo di emancipazione e liberazione delle donne in tutto l’occidente ma non solo. Si tratta di un rivolgimento parallelo all’erosione della sovranità dello Stato nazionale.
Mentre i processi di globalizzazione dei mercati dell’informazione, dei capitali, delle merci e della forza-lavoro hanno consumato i margini esterni della sovranità degli Stati, sul piano interno si è prodotta la rottura del confine tra la sfera privata e la sfera pubblica con la fuoriuscita in massa delle donne dal recinto domestico. Si tratta di un confine che è stato alla base della costruzione dello Stato moderno. Infatti con la sua rottura non solo si è trasformato radicalmente l’istituto fondamentale della riproduzione, la famiglia, ma l’intero ordine sociale, a cominciare dal lavoro, ne è stato investito: possiamo perciò tranquillamente parlare di crisi dello Stato. Le donne sono, consapevoli o meno, le agenti fondamentali di questo cambiamento epocale.
Ma le culture politiche, o ciò che ne residua, sono in grado di comprendere e governare questo cambiamento? In particolare la cultura “progressista” – in tutte le sue versioni anche cattoliche e liberali – come affronta questo passaggio? E’ in grado di governare culturalmente la fine di un ordine e l’abbozzo di uno nuovo (la statualità sovranazionale e la cittadinanza di uomini e donne)?
Ma la questione da porre pregiudizialmente è: quando parliamo di cultura progressista cosa intendiamo? L’aggettivo, al pari del sostantivo, ha la sua radice nel termine e nel concetto di progresso, ma ha lo stesso valore semantico?
L’idea di progresso dal Settecento e la sua crisi nel Novecento
Il “progressismo” non si identifica con progresso, ne rappresenta una profonda alterazione, scaturita dalla crisi dell’idea di progresso e della visione della storia che la sosteneva.
Al centro di quella idea, sorta nel cuore del Settecento, – che a propria volta secolarizzava la visione cristiana del procursus verso un futuro regno di Dio – c’era l’assunto, tinto di mito, che la storia – per l’azione congiunta: della conoscenza sempre più approfondita della natura e della società, della fiducia illuminista nella forza della ragione di vincere il male, l’ignoranza e la superstizione, delle crescenti risorse messe a disposizione dalla tecnica, di un sistema economico iniquo ma espansivo, della caduta di vincoli mitico-sacrali e, ultimo ma non ultimo, dell’attivazione cosciente di masse umane sempre più vaste (democrazia) – si fosse indefinitamente aperta a una costante evoluzione dell’umanità “verso il meglio” (Immanuel Kant). Che quindi la storia avesse un senso, una direzione e una finalità e che vi fosse un soggetto di tale processo, un soggetto universale (l’umanità, i popoli, la classe, eccetera).
La meta era un’umanità liberata dall’ignoranza, dal dominio, dalla povertà, dal bisogno. Un soggetto unitario, un processo unitario, una finalità comune. Progresso e democrazia marciavano insieme. Varie le forme assunte da questa idea nel corso del Settecento/Ottocento a secondo della forza dominante che trainasse il processo: illuministica, positivistica, idealistica, social-marxista, liberale, vale a dire l’unità del genere umano ottenuta grazie alla scienza, alla ragione, alla socializzazione dei mezzi di produzione, alla libertà.
Con il Novecento (ma l’anticipazione decisiva si ha con Friedrich Nietzsche), con la Prima guerra mondiale, la fede nel progresso vacilla, entra in crisi la visione della marcia inarrestabile “verso il meglio”.
La cosiddetta “cultura della crisi”, nelle sue diverse articolazioni, mina la prospettiva di un corso sensato e ascendente della storia, volto ad accrescere benessere e libertà degli uomini, tutti. Soprattutto viene colpita l’ingenua visione positivistica e scientista di una dinamica delle vicende storiche determinata da leggi sul modello delle scienze della natura, come pure la fede illuministica e anche storicistica nella inevitabile affermarsi della libertà dello spirito.
L’idea di progresso ne esce profondamente mutata: non si presenta più come un dato obiettivo, frutto di una dinamica intrinseca di sviluppo della società o dell’allargamento degli spazi di libertà, appare invece il travagliato risultato di azioni umane orientate da fini contrastanti. La storia da sola non va da nessuna parte, decide l’intervento umano, tutto inscritto in una radicale contingenza (l’opera di Antonio Gramsci è un grande esempio del ripensamento in “casa” marxista dell’idea di inevitabilità del socialismo, cioè di una visione meccanicistica e scientista della storia). Rimane però in piedi la persuasione diffusa, rafforzata dalla sconfitta del nazifascismo e dalla reattività economica e morale sprigionatasi in Occidente nel dopoguerra, che le forze motrici della modernità orientano il corso storico, certo tra aspri conflitti e contrasti e anche ricadute nella barbarie, verso prospettive di benessere e pace per l’intera umanità.
Declinazione liberista del liberalismo e progressismo
E’ tra gli anni Settanta/Ottanta, con la scomparsa del comunismo dall’orizzonte culturale dell’Occidente e con la declinazione liberista del liberalismo (niente etico-politico), che anche questa idea drammatica di progresso, sempre però sostenuta da concetti universalistici, cede il campo al “progressismo”.
Il progressismo si caratterizza, differenziandosi così nettamente dal progresso, innanzitutto per il completo abbandono della dimensione universalistica. Prosperità, benessere libertà hanno solo gli individui come principio e come fine. Anzi ogni riferimento a valori e realtà superindividuali viene considerato oppressivo e lesivo della libertà e autonomia dell’individuo (nel campo filosofico, si apre la battaglia contro il cosiddetto essenzialismo metafisico e gli analitici e continentali postmoderni si ritrovano alleati in questo assalto).
Inoltre l’avanzare verso il meglio non si coniuga con la conquista di nuovi poteri, o di forme inedite di rappresentazione/rappresentanza di nuovi soggetti ma solo con l’allargamento della sfera delle libertà individuali codificate in sempre nuovi diritti.
La tensione finalistica cede il passo alla celebrazione della “fine della storia”, le conquiste della rappresentanza liberale (del cittadino elettore/consumatore e non della democrazia dei partiti postbellica) costituiscono quel “meglio” verso cui si tendeva, oltre c’è solo il terrore e la dittatura, quindi non resta che espanderla, diffonderla.
Conclusioni
Se guardiamo alla rivoluzione femminile con le lenti del progressismo cosa ne ricaviamo? Innanzitutto il ricorso al solo paradigma dei diritti. Ma è sufficiente? Non pare, perché risulta per un verso obsoleto in quanto corrisponde a un’epoca al tramonto e per un altro inadeguato. Il paradigma dei diritti misura il tasso di progressismo in ragione di quanto gli individui si liberano dai vincoli della società arcaica e tradizionale, quindi dalla quantità di diritti di eguaglianza, autonomia e libertà di cui vengono dotati. Ma noi abbiamo consumato ampiamente questi vincoli: siamo nella modernità autoriflessa. In effetti la presa dei dettami religiosi sui comportamenti sociali e individuali si è del tutto allentata e la cosiddetta secolarizzazione ha fatto passi da gigante; le norme etiche derivanti da ordinamenti gerarchici sono state scalzate dal principio dell’eguaglianza degli individui, come, ad esempio, nella famiglia in cui è stato soppresso il principio di autorità maritale e paterno; non esistono più istituzioni inaccessibili alle donne (ad esempio la magistratura e l’esercito). Insomma secolarizzazione e scomparsa della gerarchia e dell’autorità tradizionale si sono imposte. Certo alcune minoranze richiedono di vedere riconosciuti e affermati diritti civili ancora per certi aspetti negati.
Ma dalla prospettiva della rivoluzione delle donne, risulta problematico pensare la libertà femminile in termine di diritti. Fino a quando il processo di liberazione delle donne riguarda la lotta contro tutte le forme di dominio patriarcale, di oppressione e di subalternità ereditate dal passato appare del tutto scontato parlare di progresso secondo il modulo della modernità contro tradizione e declinare la propria tensione verso la libertà in termini di diritti: diritto al lavoro, alla uguaglianza con gli uomini, diritto alla parità in tutti gli ambiti.
Ma cosa accade nel momento in cui il processo emancipativo consuma, erode simboli, strutture e forme della tradizione cosicché la libertà delle donne si confronta solo con sé stessa, nel pieno della modernità dispiegata. Accade che quella equivalenza tra progresso, cultura dei diritti e libertà mostra la corda, incrinando uno dei pilastri della cultura “progressista”: lo si è già sperimentato con l’aborto (cioè con il riconoscimento di una specificità della cittadinanza femminile) per cui la libertà di scelta nella legge 194 non può essere declinata in termini di diritto e viene chiamata perciò autodeterminazione.
La questione che ci sta di fronte non è affrontabile nei termini di un’ulteriore inclusione di un’altra fetta di esclusi, si tratta invece di rivoluzionare i fondamenti, i parametri della cittadinanza perché l’ingresso delle donne significa la rottura e lo sconvolgimento degli assetti istituzionali, delle antiche distinzioni tra privato e pubblico, tra produzione e procreazione.
Si tratta della crisi di un ordine, di un sistema.
La logica dei diritti impedisce di “vedere” questi dati sistemici e punta invece a neutralizzarli con un approccio individualistico e neutro-maschile. Mai come dalla prospettiva delle donne il paradigma individualistico e diventato dominante nell’economia come nella politica o nell’etica appare fuorviante. I risultati? Li abbiamo sotto gli occhi con la rincorsa sempre mancata della parità nel lavoro, nelle professioni, nelle cariche apicali, (con la caduta del valore della forza-lavoro), con la crisi verticale della natalità, con un disagio, un malessere diffusi che si manifestano anche nella violenza contro le donne e con i tentativi, anche riusciti, di fortissimi balzi all’indietro da parte di settori conservatori o reazionari (vedi sentenza Corte suprema americana su Wade vs Roe).
Li abbiamo sotto gli occhi con lo scambio della concezione della libertà come affermazione positiva dell’integralità della persona con l’idea mercantile della libertà come assenza di vincoli nel disporre di sé sul mercato. Fino al punto di invocarla per giustificare la pratica aberrante della maternità surrogata, per ridurre la prostituzione a sex work, a un lavoro come un altro o per pensare la sessualità come scelta soggettiva.
Lo scollamento degli sviluppi tecnico-scientifici da ogni quadro o contesto di “senso” della storia, da ogni etica collettiva (bollata come tendenzialmente totalitaria) svincola la tecnoscienza dal rispetto di limiti che non siano di compatibilità economica.
Il principio, che animava l’idea di progresso, dell’indefinita trasformabilità della natura al fine di renderla sempre più “adatta” a soddisfare i bisogni umani, si afferma senza incontrare ostacoli “etico-politici”. Solo quelli della disponibilità economica. E la stessa “natura” nell’essere umano, identificata con il corpo, viene sottoposta a interventi non più solo terapeutici ma trasformativi per emanciparla tendenzialmente da limiti e fragilità: decadenza e morte. Per quanto riguarda la nostra “umanità”, la tendenza “progressista” mira a cancellare l’abissale differenza che sussiste tra produzione tecnica di oggetti e procreazione umana, a trattare il corpo umano come un campo di indefinita trasformabilità, come un “corpo fabbricato” e non “carnale”.
SEGNALIAMO