DA BAMBINO INCONTRAI L’ORRORE

Abitavamo a Via della Lungara a due passi dal carcere di Regina Coeli, la mia mamma quando poteva mi portava a giocare e a “prendere aria” sul Gianicolo. Il percorso era un po’ faticoso per la mamma, perché dovevamo affrontare la salita di Sant’Onofrio, una lunga e ripida scalinata che, da Piazza della Rovere, portava direttamente al Gianicolo, che a quell’epoca era un posto meraviglioso, al mattino e nel primo pomeriggio il parco giochi di noi bambini, la sera il rifugio delle coppiette e il posto da cui si lanciavano le “palombelle” ai carcerati del sottostante carcere.

Le famiglie che avevano qualche cosa da comunicare ai loro congiunti, assoldavano dei portatori di voce che gridavano messaggi, tipo “l’avvocato ha detto de buttate a santa Nega”, che voleva dire “l’avvocato ti consiglia di negare tutto”.

Il giorno era tutto per noi. Mentre la mamma si metteva seduta su una panchina o su una seggiolina, che si portava da casa e passava tutto il tempo a sferruzzare, io giocavo con gli altri bambini.

Una mattina, arrivati a Piazza della Rovere abbiamo visto una vera e propria ressa davanti al Palazzo Salviati, dove una volta c’era il collegio militare e il tribunale militare. La folla era costituita prevalentemente da donne vestite di nero, che urlavano cose a me incomprensibili, con gli epiteti di assassino e boia. La mamma cercò di cambiare strada ma non era possibile e dovemmo passare in mezzo a quella folla. Notai che le donne avevano applicata sul petto una stella, alcune ne avevano più di una, una signora addirittura nove. Chi sono domandai, perché strillano, perché quelle stelle sul petto. La mamma dovette spiegarmi: erano donne ebree che avevano avuti congiunti morti, ogni stella sul petto un morto nella famiglia.

Si erano radunate davanti al tribunale militare dove si stava processando l’autore di questi infami delitti. Ero troppo piccolo per sapere altro, ma qualche anno dopo capii che quell’episodio che mi aveva così tanto turbato era l’epilogo (il primo epilogo… di una serie che dura tutt’ora) della immane tragedia degli ebrei a Roma, in Italia e in tutta l’Europa. Stavano processando Kappler, il colonnello delle SS, la famigerata polizia nazista, il diretto superiore del capitano Priebke. Kappler stava rispondendo davanti a un tribunale italiano della razzia del Ghetto di Roma, del 16 ottobre del 1943, delle Fosse Ardeatine e di Via Tasso, una prigione in cui venivano torturati a morte gli antifascisti e i partigiani.

Anni dopo, il mio professore di Storia mi fece leggere 16 ottobre 1943 di Giacomo Debenedetti, il grande storico della Letteratura Italiana, un ebreo che scampò alla razzia del Ghetto per un puro caso e che, con quel libro scritto a caldo, volle raccontare, quasi in presa diretta, quella tragica giornata in cui vennero deportati 1.024 romani di religione ebraica (molti bambini e alcuni addirittura infanti), prima al campo di smistamento che i nazisti avevano allestito a Fossoli nel modenese e poi nei campi di sterminio di Aushwitz-Birkenau. Soltanto 12 fecero ritorno, gli altri morirono di stenti, o passati nelle camere a gas e nei forni crematori. Passati per il camino, come dice la canzone di Guccini.

Kappler aveva ingiunto alla comunità ebraica di Roma di consegnare 50 chili d’oro entro due giorni, altrimenti avrebbe preso 200 capifamiglia “in ostaggio”. Gli ebrei rimasti nel ghetto erano impoveriti dalle leggi razziali fasciste e con enorme difficoltà cercarono di arrivare alla cifra imposta. Ci riuscirono e consegnarono a Kappler l’orrenda gabella, che però avrebbe dovuto bloccare ritorsioni peggiori. Ma gli ebrei non sapevano che i nazisti oltre ad essere delle belve, erano anche mancatori di parola.
Ma qui lascio parlare Debenedetti: «una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia dà il primo terribile annuncio: il comando tedesco ha in mano una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via con tutte le famiglie». «Credetemi! scappate, vi dico! – Vi giuro che è la verità! Sulla testa dei miei figli! – Ve ne pentirete! Se fossi una signora mi credereste…»

Non le credono e la mattina dopo, all’alba, quando la città è ancora addormentata, il ghetto viene invaso e circondato dai camion dei tedeschi, le SS entrano nelle case, ingiungono alle persone, anche ai vecchi e agli invalidi, di prendere le loro cose e scendere in strada. Vengono fatti salire sui camion che si dirigono proprio nel cortile di Palazzo Salviati, dove rimangono per quasi due giorni. Qualcuno disse in attesa di una parola di sdegno del Papa Pacelli, che però non arrivò.

Quello che colpisce nel libro di Giacomo Debenedetti è il fatto che nessuno sa dove sarebbero andati a finire i 1.024 ebrei, che furono razziati quella mattina del 16 ottobre 1943. Nessuno riusciva neppure a immaginare l’orrore dei campi di sterminio, dei forni crematori, delle camere a gas.


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