Il tema è, ovviamente, quello del rapporto fra questioni private e attività pubbliche, applicato alle dialettiche interne alla classe dirigente.
Per ragionarvi bene occorre fare un lungo passo indietro, sino agli inizi del Ventennio fascista.
Benito Mussolini, una volta nominato Capo del Governo, unificò il suo archivio personale con quello della Presidenza. O, per dire meglio, inglobò gli archivi ufficiali all’interno del suo archivio privato.
Quindi in esso confluivano tutte le veline dell’OVRA e, tra esse, le “rivelazioni” di qualunque origine che circolavano sui gerarchi dell’epoca e su tutte le personalità interne al Regime e di interesse diretto per lo stesso Duce.
Non vi era dunque “segreto” che restasse realmente tale.
Giravano schede sulle abitudini sessuali dei dirigenti del Partito Nazionale Fascista come su quelle dei membri del governo.
La rete dell’OVRA, creata e stimolata a questo scopo, segnalava i casi di arricchimento incomprensibile come quelli di adulterio da parte della coniuge.
Venivano intercettati i colloqui telefonici ritenuti significativi e si sottolineava spesso la dipendenza dell’uno o dell’altro da fattori o amicizie.
Tutto arrivava alla attenzione del Duce e tutti sapevano, qualunque cosa facessero, che nulla sarebbe sfuggito al suo sguardo.
Proprio questo, però, garantiva la funzionalità del sistema.
In questa sorta di panoptikon che era stato costruito ognuno agiva e combatteva le sue battaglie alla luce della consapevolezza di essere certamente spiato, ma di condividere questa condizione con tutti gli altri.
Le lotte per i ruoli e la supremazia nel Partito e nel Governo si svolgevano spessissimo attraverso le “rivelazioni” che giungevano al Duce.
Gli avversari politici si attaccavano e si difendevano reciprocamente con veline e comunicazioni fatte pervenire, generalmente attraverso l’OVRA, direttamente a Lui.
Ovviamente questa procedura, spesso anche divertente, consegnava un immenso potere nelle mani di Mussolini che poteva valutare le situazioni, accennare, delicatamente o meno, che lui ben sapeva, agire successivamente di conseguenza.
Si trattava, insomma, di un immenso termometro immerso nel corpo del PNF e in generale della classe dirigente italiana.
Mussolini aveva forse anche una eccessiva fiducia nel controllo e nel possesso delle informazioni.
Negli ultimi giorni della sua epopea riteneva di poter aver salva la vita grazie alle informazioni sulla omosessualità del Principe di Piemonte e quelle relative alla responsabilità del Re nel delitto Matteotti.
Non teneva conto che quando il gioco si fa davvero duro i veri duri iniziano a giocare.
Ma tant’è, il sistema che chiamo “fasciospia” funzionò bene per quasi vent’anni garantendo in qualche modo la protezione sulle notizie importanti insieme alla loro utilizzazione nella battaglia politica.
Con l’avvento della Repubblica e del sistema democratico la questione delle informazioni private sui personaggi di rilevanza pubblica vide fortunatamente cambiare la sua logica di gestione.
I politici strinsero, quasi formalmente, un patto fra loro.
Esso consisteva in un mutuo accordo di non divulgare notizie di carattere privato e, soprattutto, di non usarle nello scontro politico.
Nessuno attaccò Palmiro Togliatti per avere abbandonato Rita Montagnana e il loro giovane figlio.
Tutti conoscevano le attitudini e le pratiche sessuali di un bravissimo Ministro degli Esteri ma nessuno le evocò mai.
Le sue preziose qualità non potevano certo essere inquinate dai comportamenti di natura privata.
Persino nei 55 giorni drammatici del rapimento Moro venne, giustamente, steso un velo di silenzio sui passaggi personali che non potevano non emergere dalle sue lettere.
La dittatura era finita, ma gli esseri umani erano rimasti deboli e di conseguenza ricattabili.
Non essendovi più un Duce a cui consegnare tutti i segreti per non farli esplodere, i segreti vennero semplicemente “ segretati” con una azione di carattere collettivo condivisa da tutte le forze politiche e tutti (o quasi) gli organi di informazione.
Nessuno di quei Padri della Patria che edificarono questo modello avrebbe potuto immaginare quel che sarebbe avvenuto in seguito.
L’incrocio fatale fu quello tra la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica e l’avvento della Rete che inevitabilmente consegna a chiunque la possibilità di trasmettere a chiunque e a tutti qualunque informazione.
Quindi abbiamo, da una parte, l’emersione di un ceto politico non votato, come quello precedente, al giuramento di silenzio sui fatti personali.
Anzi, i nuovi gruppi dirigenti considerano con disprezzo i loro predecessori e confondono facilmente la riservatezza che li caratterizzava con un tratto di non democraticità.
Il paragone delle Istituzioni con la scatoletta di tonno da aprire nasce in questo sentimento diffuso e condiviso.
Dall’altra si diffonde rapidamente la consapevolezza che un messaggio urticante e rozzo naviga facilmente nella Rete, attirando in sequenza i click anche di chi non lo condivide o ne farebbe a meno.
La facilità con cui, in bagno come in autobus, si accede a una comunicazione violenta e semplificata è il concime su cui nasce e cresce la mala pianta che oggi ci assilla.
Dall’insultante definizione di “psiconano” in poi si avvia un succedersi di aggressioni verbali cui aderiscono praticamente tutti i gruppi politici.
Persino i leader non vengono scelti soltanto in base alle loro capacità e alla loro cultura politica ma spesso prevale chi è più capace di essere sarcastico, insultante e, soprattutto, ben informato.
Vi è, in questo procedere collettivo, qualcosa di suicidario.
Un pugile che si appresta ad affrontare un rivale si guarda bene dal denigrarlo o dal prenderlo in giro.
È consapevole che, se lo facesse, ne ricaverebbe un danno in ogni caso.
Se dovesse essere sconfitto avrebbe perso contro un avversario debole.
E se dovesse vincere, la sua vittoria varrebbe molto meno.
È per questo elementare principio che i pugili, come gli altri sportivi, non si insultano e si rispettano vicendevolmente: conviene a tutti.
Facile da capire, da evidentemente difficile da spiegare ai nostri politici.
E comunque, in un contesto del genere, non può stupire se rapidamente cadono i confini tra il privato e il pubblico, tra quel che si deve dire e quello che non.
Iniziano delle orribili “guerre d’attrito” in cui fare uscire una rivelazione serve soprattutto a far sapere che si dispone anche di altre e che si potrebbe decidere di usarle.
La reazione avviene generalmente sullo stesso piano, preannunciando nei caffè romani che anche nell’altra metà campo starebbe per esplodere una bomba devastante.
Una immensa popolazione di giornalisti, influencer e semplici maniaci del Web si agita in mezzo a questi fronti.
Una voce viene trasformata in una notizia da diffondere radicalizzandola.
Una opinione viene trasformata in un fatto su cui attirare i click.
Ogni cosa si ingigantisce in poche ore, destinata come è ad essere travolta subito dopo da una nuova valanga.
Ogni aspetto della vita sembra essere destinato a essere usato senza rispetto o protezione.
Parentele, vita famigliare, abitudini personali totalmente insignificanti: tutto confluisce nella immensa Rete di comunicazione che, inevitabilmente, circonda il Potere.
Nel giro di pochi anni siamo passati dal famoso decreto di Francois Mitterrand che vietava la pubblicazione di notizie sulla salute del Presidente al girovagare frenetico di informazioni, gossip e quant’altro può servire a rovinare la vita di un individuo.
Siamo a un passaggio cruciale per la natura della nostra democrazia.
Attraverso l’uso dell’Intelligenza Artificiale qualunque dato immesso nel sistema globale può essere modificato o falsificato facilmente.
Si logora, giorno dopo giorno, il confine tra la sfera ufficiale delle cose, che ne sancisce la veridicità e il valore pratico, e la sfera personalizzata ad uso e consumo di chi la crea.
Ci si illude che la lotta sui “documenti” immessi nella Rete e nel sistema comunicativo tradizionale sia oggi e per sempre la dimensione vincente in cui tutto si decide e si regola.
Ma non è così
Dovrebbe sorreggerci il ricordo della illusione mussoliniana nel momento topico tra la vita e la morte.
L’ex Duce pensava che la Casa Reale inglese non avrebbe permesso l’umiliazione della Casa Reale italiana e che lui avrebbe di conseguenza potuto negoziare.
E, infatti, gli inglesi non la permisero.
Organizzarono l’uccisione di Mussolini in accordo con i comunisti italiani.
Consegnarono ai Savoia i documenti sul Principe Umberto e fecero sparire gli altri.
Vi è un momento, insomma, in cui dalla apparente leggerezza delle parole si passa a ben altre pesantezze.
Se l’Italia avesse ancora un ceto politico degno di questo nome il primo terreno di accordo, a favore delle Istituzioni, sarebbe ristabilire i confini tra privato e pubblico.
SEGNALIAMO
Commenti
2 risposte a “DA FASCIOSPIA A DAGOSPIA”
[…] DA FASCIOSPIA A DAGOSPIA […]
Un bellissimo articolo Beppe però mi viene da parafrasare uno slogan degli anni 70 ” il privato è pubblico” vedi il caso Giambruno Meloni.