È di questa mattina, 18 aprile 2024, l’annuncio del TG3, già apparso sui social, del “via libera del Senato al DDL Valditara sul voto in condotta”, approvato con 74 sì, 56 no, nessun astenuto ed ora in attesa di passare alla Camera.
Fortemente voluto dal ministro dell’Istruzione e del Merito, il DDL prevede diverse novità relative al comportamento degli studenti: “Revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti: bocciatura con il 5 in condotta, esamino con il 6 e sanzioni in caso di violenze”.
Dopo i manganelli, classificati dal capo dello stato come “fallimento”, questo provvedimento risulta in linea con il cosiddetto “pacchetto sicurezza” già varato dal governo: inasprimento delle pene relativamente al traffico di migranti, alla violenza di genere, alle cosiddette baby gang; per i comportamenti del personale sanitario e del personale scolastico; per chi causa incendi boschivi; per chi acquista merce contraffatta; per chi istiga all’anoressia; per i genitori che non osservano l’obbligo scolastico dei figli.
In questo ultimo anno sono stati introdotti, fra altri, nuovi reati destinati ai giovani fra cui l’organizzazione di rave non autorizzati e l’imbrattamento dei muri.
I manganelli, che sono la perfetta immagine simbolica di questa deriva autoritaria e repressiva, mi riportano alla mente la lunga ed esaltante esperienza di insegnante, iniziata alla fine degli anni Sessanta quando, poco più che ventenne, ero ancora studentessa alla “Statale” di Milano, nel mezzo delle contestazioni studentesche, dei volantinaggi, degli scontri tra gli universitari e i poliziotti in assetto di guerra; i poster di Mao e del Che appesi all’ingresso dell’Ateneo…
I nostri politici, della generazione di mezzo, che per di più non risplendono per requisiti culturali e consapevolezza storica, forse non sono in grado o si rifiutano di realizzare che in qualche misura, con i manganelli e il voto punitivo, si sta ritornando indietro di sessant’anni.
Il Sessantotto, al di là degli indiscussi eccessi e delle derive estremiste emendabili, grazie ai movimenti giovanili sorti in tutto il mondo occidentale, ha rappresentato una ventata straordinaria di libertà e di democrazia da cui, anche nel nostro paese, sono derivati una nuova identità femminile basata sull’autonomia, la parità uomo donna, il rifiuto del patriarcato; il nuovo diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, le conquiste sociali e sindacali, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale…
Come nella famiglia, anche e soprattutto nella scuola i giovani rivendicavano autonomia, libertà, protagonismo. Grazie a una serie di interventi legislativi, si è passati gradualmente da una scuola in cui il discente era soggetto passivo, acritico, omologato secondo canoni di conservazione della cultura e della società preesistente a una scuola in cui l’offerta formativa era mirata a valorizzare le sue potenzialità, la sua individualità, la sua capacità critica in un’ottica di orientamento personale, professionale, sociale.
Negli ultimi sessant’anni la valutazione degli alunni è stata oggetto di molte modifiche in un’alternanza tra voti e “giudizi”. Forse oggi il ministro Valditara torna a guardare il dito e non la luna usando il voto a mo’ di manganello, atteggiamento anche in termini pedagogici assolutamente fuori strada.
È bene anche in questo frangente fare ricorso alla storia, alla letteratura e ai suoi insegnamenti: l’immagine terrificante del manganello sferzato da un poliziotto sul volto sanguinante di una giovanissima studentessa di Pisa mi ha ricordato un libro di narrativa che lessi insieme ai miei alunni di terza media nell’anno scolastico 1969/’70: “Le bacchette di Lula” di Albino Bernardini, pubblicato da La Nuova Italia nel 1969. Torno a leggere il testo di presentazione del libro di Teresa Gargano:
Abituati al “repressivismo” della maestra Ballena a suon di bacchettate, metodo avallato anche dalle famiglie, il quadro che si presenta all’autore appena arrivato a Lula è aspro e dolente. In questa realtà profondamente arcaica “l’autonomia, la libertà del bambino, la collaborazione tra il maestro e lo scolaro, la discussione, erano cose lontane quanto le stelle, abituati com’erano ad una scuola tipo macchina inbottitrice” (p. 106). Albino Bernardini si spenderà molto per i suoi allievi, per fronteggiare il radicamento di metodi centrati sulla dura punizione e, allo stesso tempo., anche per la comunità, organizzando riunioni nelle quali discutere di un modello di scuola attiva, dove non si impara ripetendo ciò che dice il maestro e ricorrendo alle botte. Nonostante le resistenze e il trasferimento imposto, a distanza di anni il maestro incontra di nuovo i suoi alunni ormai grandi, pieni di stima e di ricordi per l’anno trascorso insieme, sebbene avviliti poiché l’unico sintomo di modernità rinvenibile nella loro vecchia scuola è il passaggio dalla bacchetta alla tavoletta.
Erano ancora i tempi in cui come a Lula, terra di pastori nel cuore arido della Sardegna, anche in moltissime realtà arretrate culturalmente del “continente” l’educazione da parte delle famiglie e non di rado anche deila scuola si costruiva sull’assioma: “le pianticelle vanno raddrizzate sul nascere”. Lo strumento punitivo più a portata di mano nei campi del nuorese era la bacchetta; generalmente più diffusa era la cinghia dei pantaloni del “capo famiglia” a cui le madri riservavano il ruolo punitivo a fine giornata. Sberle e bastonate erano all’ordine del giorno come la punizione classica del “vai a letto senza cena!”.
Mio padre, ripensando alla sua infanzia e adolescenza, quando frequentava il collegio “San Carlo” di Milano nei primi decenni del Novecento, raccontava spesso della punizione prediletta dal suo maestro: bacchettate sulle punte delle dita, dolorosissime.
La “Scuola di Barbiana” di don Lorenzo Milani e “Lettera a una professoressa”, scritta dai suoi allievi negli anni Sessanta, hanno segnato un discrimine fra il passato e il futuro della scuola italiana. Questa esperienza che proponeva essenzialmente il dialogo fra scolaro, parte attiva del processo educativo, maestro e genitori è stata un punto di riferimento per una legislazione oculata, coerente, innovativa e in progress, che ha percorso un lungo cammino felice fino ai primi anni del 2000. Da allora, infatti, con il perpetrarsi di una politica non solo di austerità economica, ma anche di trascuratezza e di cecità, “perché con la cultura non si mangia” (parole dell’ex ministro dell’Economia e Finanza Giulio Tremonti), la scuola ha finito di essere considerata alla base del progresso del paese a 360°, interrompendo un percorso pedagogicamente virtuoso.
Le cronache quotidiane degli ultimi tempi estremamente allarmanti, dense di atti di bullismo e cyberbullismo, femminicidi, discriminazione di genere e razziale, insofferenze e proteste giovanili, morti sul lavoro… possono trovare delle risposte adeguate solo a partire dall’educazione e dalla formazione che si realizza nella scuola, per antonomasia la prima e più accreditata palestra di vita.
Con la giusta collaborazione scuola-famiglia, anche la popolazione genitoriale adulta può crescere in un’ottica di apertura, di rispetto, di inclusione, di democrazia, secondo i principi fondamentali della nostra Costituzione.
La formazione dei giovani, che nel giro di alcuni decenni saranno il cuore pulsante della società, deve tornare ad essere al centro di una politica che fondi la sua azione sulla conoscenza e la competenza, che costruisca i suoi interventi legislativi con una visione lungimirante che guardi la luna e non il dito. L’educazione non può essere affidata ai manganelli, ai cinque in condotta e alle conseguenti bocciature che provocano una reazione di aggressività, contrapposizione, rifiuto dell’autorità. Alla base dell’educazione deve tornare la formazione in itinere della classe docente e il dialogo fra i diversi attori, come nella scuola di Barbiana, tenendo presente che a fondamento della costruzione della personalità di un giovane è sempre vincente la gratificazione, la valorizzazione dei successi e delle qualità personali, sulle quali si può recuperare la lacuna, il deficit cognitivo e comportamentale, l’insuccesso.
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