GIUSEPPE FIORONI
Nel parlare di De Gasperi anche noi dovremmo adoperare le parole che usò lui, il 28 ottobre del 1922, per manifestare il suo stato d’animo in un momento difficile per il Paese, con la marcia su Roma in pieno svolgimento. Su una cartolina indirizzata alla famiglia, che a Borgo Valsugana attendeva sue notizie, scrisse con l’immagine del Duomo di Orvieto davanti agli occhi: “Cercando nelle opere della passata grandezza un conforto per l’ansiosa attesa dell’oggi”. Ecco, la grandezza che ci sovrasta, è pure elemento di conforto; e noi sappiamo quanto grande è stato De Gasperi, e come la sua figura abbia inciso sulla vita pubblica del nostro secondo Novecento.
Per questo il settantesimo anniversario della scomparsa costituisce un’occasione preziosa per riflettere sull’attualità della sua lezione, per trarne politicamente conforto.
Uno dei suoi meriti. Ampiamente riconosciuti, è stato quello di aver traghettato l’Italia verso uno stabile sistema democratico. Tutta la sua impresa si compie in otto anni, visto che inizia a fine 1945 e termina a metà del 1953. Ora, non si capisce De Gasperi se non si conosce la sua formazione. In sintesi, nasce in un piccolo borgo Trentino, Pieve Tesino, quindi è cittadino Austro-Ungarico, ovvero suddito di un impero in cui la scuola, obbligatoria sino a 14 anni, assolve pienamente alla funzione di contrasto all’analfabetismo, una piaga altrove devastante. Vive in un contesto in cui i cattolici, sulle orme di quanto promosso in Germania e Austria, possono organizzarsi in partito, mentre il non expedit avrebbe impedito a lungo, fino alla nascita del Ppi nel 1919, un’analoga libertà organizzativa dei cattolici italiani.
L’apertura della Chiesa trentina, specie sotto la guida del vescovo Endrici (1904-1940), valorizza l’apporto dei laici al punto che nel 1905 al giovane De Gasperi viene affidata la direzione de “La Voce cattolica”, organo ufficiale della diocesi. È questo l’ambiente in cui il futuro statista doveva maturare la consapevolezza che per i cattolici si imponevano nuove forme di impegno, tanto più che le masse contadine si affacciavano alla politica, agli esordi del nuovo secolo, con la tradizionale diffidenza del montanaro verso una certa aristocrazia intellettuale ed economica di stampo liberale, nonché verso l’approccio, a volte puramente ideologico, dei socialisti.
Dopo l’elezione nel 1909 al Consiglio comunale di Trento è la volta dell’ingresso, a due anni di distanza, al Parlamento di Vienna. Non sono tempi facili. Scoppia la Grande guerra e per i trentini, obbligati a combattere contro gli italiani, è una prova doppiamente amara sia per l’impatto materiale che per quello morale. De Gasperi è impegnato a dare protezione e sostegno alle migliaia di sfollati – la sua gente – costretti a vivere in condizioni spesso drammatiche. Vienna alla fine perderà la guerra. Nell’ottobre del 1918 è pronto a dichiarare in Parlamento che le terre irredente devono tornare alla madrepatria, scartando ambigue soluzioni autonomistiche come quella prospettata dai Popolari friulani per la vecchia contea di Gorizia-Gradisca.
Con il ricongiungimento del Trentino al Regno d’Italia inizia la seconda vita di De Gasperi. Il primo intervento che fa alla Camera dei Deputati il 24 giugno 1921 è incentrato sulla difesa dell’autonomia territoriale ma chiede come mai alla stazione di Trento, dove prima operavano tre impiegati agli sportelli di biglietteria, ora fossero diventati dodici, nonostante la diminuzione del numero dei biglietti. E tra l’ilarità dei colleghi deputati chiede se non sia opportuno, di fronte alla disparità di spesa con la precedente gestione asburgica, “arrivare a risparmiare lo spago, le buste e la ceralacca”.
Il fascismo gli appare subito un fenomeno pericoloso, anche se all’inizio confida sulla sua possibile normalizzazione, una volta giunto al potere. Tuttavia, dopo pochi mesi, al congresso di Torino (aprile 1923) del Ppi, non ha remore a schierarsi con Sturzo e la sinistra interna, sostenendo l’abbandono della linea di solidarietà istituzionale e il passaggio all’opposizione. I Popolari pagheranno un prezzo alto per la loro scelta: Sturzo, Ferrari e Donati andranno in esilio, De Gasperi subirà l’onta della carcerazione e, una volta tornato libero, la difficoltà di trovare un lavoro.
Finalmente, nel 1929, lo trova alla Biblioteca vaticana: è un lavoro modesto tant’è che per arrotondare lo stipendio sacrifica le ore notturne, aiutato dalla moglie Francesca, per tradurre testi. Fortunatamente, con il passare del tempo le sue mansioni alla Biblioteca Vaticana crescono ed è in quell’ambiente, sotto la protezione di Montini, sostituto alla Segreteria di Stato, che si gettano le basi dei principi ispiratori della Democrazia Cristiana.
La caduta del fascismo non lo trova impreparato. Lancia le “Le Idee ricostruttive” e, insieme ai vecchi Popolari, apre il partito alle nuove generazioni. La Democrazia Cristiana si presenta come una forza giovane, decisa a forgiare con i suoi ideali la politica nazionale. Quando a dicembre del 1945 assume l’incarico di Presidente del Consiglio, nessuno può immaginare che sarà lui, non più giovane per gli standar dell’epoca, a guidare il Paese sulla via di una rinascita tanto rapida quanto sorprendente. Gli italiani non tarderanno a scoprire nella sua figura pubblica la forza e la coerenza di un vero leader politico. Non a caso gli daranno fiducia. La maggioranza assoluta, raccolta nelle cruciali elezioni del 18 aprile 1948, premierà la chiarezza del suo progetto democratico, contro il pericolo (reale, non fittizio) del comunismo nazionale e internazionale. Il suo amico Piccioni, in quel momento segretario del partito, parlerà di “vittoria sulla paura, non della paura”.
Non fece tutto da solo. A dispetto dei vari integralisti, desiderosi di vedere la Dc libera di governare senza intralci, scelse la via della collaborazione “al centro” con liberali, repubblicani e socialdemocratici.
Fu una stagione di grandi cambiamenti, sempre all’insegna del riscatto nazionale e della giustizia sociale: riforma agraria, nuovo sistema tributario, piano di edilizia popolare, Cassa del Mezzogiorno, liberalizzazione del commercio internazionale, costituzione dell’Eni e apertura ai Paesi produttori. Quest’ultima scelta, nel quadro di una strategia che segnerà il cosiddetto “miracolo italiano”, determinerà negli anni a venire lo sviluppo della nostra politica estera.
Ma la grande passione di De Gasperi fu l’Europa, l’impegno per la costruzione di una autentica comunità politica europea.
Accanto ad un De Gasperi “ricostruttore” e difensore dello stato democratico, c’è un leader che nel traguardo europeo vedeva possibile la realizzazione di due grandi obiettivi: uno di civile convivenza, l’altro di progresso per il nostro popolo. Stupì per la capacità profetica di vedere l’Europa non semplicemente come l’insieme di Paesi diversi, ma come una vera e propria casa comune nella quale convivere e collaborare, tanto da essere considerato con Adenauer e Schuman, tra i fondatori dell’Europa. Si impegna con tutte le forze per il riavvicinamento tra Germania e Francia, in un quadro di politica estera di grande respiro, in “una triangolazione democristiana ad altissimo livello di tensione politica e di lucida passione europea” (Giulio Andreotti). Non sempre De Gasperi ottiene i risultati sperati. La battaglia per una comunità europea di difesa, la CED, non ebbe successo, per l’essenziale contrasto del nazionalismo francese, ma anche per l’opposizione fortissima da parte comunista e socialista italiana. De Gasperi soffrì per l’insuccesso.
A nessuno sfugge la crisi che oggi, in uno scenario mondiale diverso, sta attraversando l’Europa dei 27. Non bastano la moneta unica, i mercati; non possono essere gli scambi commerciali e le transazioni finanziarie a unire i nostri popoli: serve innanzi tutto l’unità di una Europa politica, ne ha bisogno il mondo, ne hanno bisogno i singoli paesi europei perché nessuno di loro potrà, da solo, contare e pesare negli equilibri mondiali, nei processi globali del nostro tempo.
La grandezza di De Gasperi sta, infine, nella motivazione del suo impegno politico. Importante, al riguardo, è quello che disse ai giovani della Dc nel febbraio del 1948, in pratica l’inizio della campagna elettorale del 18 aprile: “Ed ora la mia ultima parola commossa a voi, giovani speranze della Democrazia cristiana. È in voi soprattutto che splende questo nostro immenso amore per il popolo, amore che deriva dalla fraternità cristiana. In questa parola «popolo» noi includiamo anzi tutte le classi popolari, i meno abbienti, che hanno bisogno, che hanno diritto al lavoro e al pane, e voi sentite che al popolo dobbiamo giustizia. Il grande sogno di creare questa giustizia sociale ci ispira, e siamo al governo, nel partito, nelle associazioni per questo. E la nostra fatica è immensa, e il travaglio, contro le difficoltà quotidiane, è sopra le nostre forze, ma noi crediamo in Dio che fece sanabili le nazioni, crediamo nel soffio eterno della nostra civiltà cristiana”.
De Gasperi ci si rivela pertanto come un autentico uomo di fede e un leader di profonde convinzioni politiche. Un esempio per l’oggi.
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