Da venti a diciannove: un referendum può riportare un po’ di razionalità nel disordine del regionalismo all’italiana
Tredici/C Clio Storia del presente
Giulio Ferlazzo Ciano
Dottore di ricerca in Storia contemporanea
Giulio Ferlazzo Ciano, nel suo mini saggio “È mai esistito il Molise?”, osserva come recita l’occhiello che “Da venti a diciannove: un referendum può riportare un po’ di razionalità nel disordine del regionalismo all’italiana”. “[…] dal 1963 esiste una regione ufficialmente riconosciuta con questo nome, incuneata tra l’Abruzzo, il Lazio, la Campania, la Puglia e un breve tratto di litorale adriatico. Non che prima di allora il Molise non esistesse, ma esso era aggregato, da un punto di vista meramente statistico, agli Abruzzi (notare il plurale), formando la regione “Abruzzi e Molise”, espressamente citata all’articolo 131 del testo originario della Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore nel 1948 […]. Il Molise quindi nacque ufficialmente nel 1963 per un motivo quasi esclusivamente politico: la neocostituita regione avrebbe infatti fornito (ex articolo 57 della Costituzione, opportunamente modificato dalle leggi costituzionali 2/1963 e 3/1963) due senatori che, nel complesso, potevano dirsi con una certa ragionevole certezza spettanti quasi sicuramente al partito egemone del tempo, la Democrazia Cristiana (DC). Si titillava l’orgoglio localistico di un territorio rurale con una sua specifica identità e si otteneva in cambio una simbolica stampella che, all’occorrenza, avrebbe potuto assicurare la stabilità di un governo di coalizione o monocolore dominato dalla DC. Quando poi, nel 1970, la regione Molise ebbe vita anche effettiva, con i suoi organi di governo, tali e quali quelli delle altre quattordici regioni a statuto ordinario, non ci fu dubbio alcuno che si sarebbe trattato di un feudo di provata fede scudocrociata. E così fu effettivamente dal 1970 al 1993, venendo ininterrottamente guidata da giunte dominate dalla DC e da presidenti eletti nelle file di quel partito. Insomma, un piccolo giocattolino appenninico che non avrebbe mai recato alcun fastidio ai manovratori”.
Fatta questa premessa, Ferlazzo Ciano, dopo aver ricordato come riportato l’11 marzo dal Corriere della Sera l’esistenza tra i molisani di una “spinta alla riunificazione amministrativa con gli Abruzzi”, ricostruisce l’Origine del compartimento-regione degli “Abruzzi e Molise” a partire dagli anni Venti del Novecento, prima di procedere a una dotta ricostruzione storica di quella che definisce come “genesi altomedievale” che secondo Ferlazzo Ciano sarebbe “Alle origini dell’identità molisana”: dalla nascita di una contea in occasione dell’inizio della conquista da parte dei Normanni del Mezzogiorno d’Italia alla “costituzione diuna circoscrizione a carattere giudiziario e fiscale a sé stante” definitiva come giustizierato, successivamente declassato e aggregato alla Terra di Lavoro nel Trecento. Soltanto all’inizio dell’Ottocento il Molise risorge (“Ma solo parzialmente” chiarisce l’autore) in epoca napoleonica con l’istituzione nel 1806 della Provincia del Molise. Il mini saggio si conclude con una riflessione su “Abruzzo e Molise, una cosa sola? Futuro (possibile) di una regione una e bina” ed un “vademecum per non cadere in errore quando si parla di identità regionali”, in cui l’autore evidenzia il trattino della discordia che caratterizza tanti accorpamenti con esiti discordanti. “Per qualche altra ragione che non è dato al momento conoscere lo stesso articolo 131 della Costituzione, come si è già scritto, reca la definizione “Abruzzi e Molise”. Si scelse quindi non solo di mantenere la denominazione al plurale per l’Abruzzo, ma anche di frapporre tra i nomi dell’una e dell’altra regione una congiunzione invece del trattino. Quasi a voler rimarcare più che altrove una distinzione tra due regioni che, in fin dei conti, e come ormai si spera che sarà stato ben compreso, si somigliano molto più di quanto appaia”.
25 marzo 2024
La risposta corretta all’interrogativo del titolo è sì: il Molise è esistito ed esiste tuttora. E non si tratta soltanto di mera contabilità amministrativa. In effetti è noto che dal 1963 esiste una regione ufficialmente riconosciuta con questo nome, incuneata tra l’Abruzzo, il Lazio, la Campania, la Puglia e un breve tratto di litorale adriatico. Non che prima di allora il Molise non esistesse, ma esso era aggregato, da un punto di vista meramente statistico, agli Abruzzi (notare il plurale), formando la regione “Abruzzi e Molise”, espressamente citata all’articolo 131 del testo originario della Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore nel 1948. Come si sa l’istituto regionale rimase letteralmente sulla carta fino al 1970 (ad eccezione delle quattro regioni a statuto speciale già costituite nel 1946 e nel 1948: Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige), dunque lo scioglimento della regione “Abruzzi e Molise” non produsse alcuna vera separazione dato che all’epoca, nel 1963, ancora non esisteva l’ente regionale corrispondente con i relativi organi legislativi e di governo (Consiglio regionale, Giunta e Presidente della Giunta).
1963: nascita di due regioni
Il Molise quindi nacque ufficialmente nel 1963 per un motivo quasi esclusivamente politico: la neocostituita regione avrebbe infatti fornito (ex articolo 57 della Costituzione, opportunamente modificato dalle leggi costituzionali 2/1963 e 3/1963) due senatori che, nel complesso, potevano dirsi con una certa ragionevole certezza spettanti quasi sicuramente al partito egemone del tempo, la Democrazia Cristiana (DC). Si titillava l’orgoglio localistico di un territorio rurale con una sua specifica identità e si otteneva in cambio una simbolica stampella che, all’occorrenza, avrebbe potuto assicurare la stabilità di un governo di coalizione o monocolore dominato dalla DC. Quando poi, nel 1970, la regione Molise ebbe vita anche effettiva, con i suoi organi di governo, tali e quali quelli delle altre quattordici regioni a statuto ordinario, non ci fu dubbio alcuno che si sarebbe trattato di un feudo di provata fede scudocrociata. E così fu effettivamente dal 1970 al 1993, venendo ininterrottamente guidata da giunte dominate dalla DC e da presidenti eletti nelle file di quel partito. Insomma, un piccolo giocattolino appenninico che non avrebbe mai recato alcun fastidio ai manovratori.
Per dovere di cronaca è giusto segnalare che nel 1963, l’anno dell’istituzione puramente formale del Molise, il Parlamento aveva approvato la legge costituzionale (1/1963) che riconosceva lo statuto speciale per la regione Friuli-Venezia Giulia che, in quello stesso anno, assunse effettivamente funzioni amministrative. Tuttavia per quella regione non si trattava di un regalo elettorale, come per il Molise, ma un esito quasi obbligato, stando la X norma transitoria della carta costituzione del 1948 che congelava di fatto l’attuazione dell’autonomia, in attesa che fosse definito lo status di Trieste, dal giugno 1946 cristallizzato dall’istituzione del Territorio Libero di Trieste (TLT) suddiviso in due zone sotto amministrazione anglo-americana (A) e jugoslava (B). Ottenuto dal 5 ottobre 1953 lo scioglimento del TLT con l’assegnazione della zona A all’Italia, veniva messo a posto l’ultimo tassello sulla ridefinizione del nostro confine nordorientale. Stando così le cose i tempi diventavano maturi per l’adozione dello statuto speciale per quella regione, il cui riconoscimento era emerso già nel corso del dibattito all’Assemblea costituente, confluendovi «spinte autonomistiche presenti sia nella cultura politica friulana che in quella giuliana, sebbene differentemente motivate e facenti capo a diversi riferimenti storici e ideali»1.
2024: scomparsa di una regione?
La cronaca porta fine ai giorni nostri, dovendo prendere in considerazione un evento che ha del prodigioso. L’Italia intera, infatti, si è svegliata l’11 marzo 2024 apprendendo dalle pagine del Corriere della Sera2 che, caso più unico che raro, esisterebbe tra i molisani la spinta alla riunificazione amministrativa con gli Abruzzi, tale da portare il 9 marzo a una raccolta di firme per l’indizione di un referendum che dovrebbe, nelle intenzioni dei promotori e come primo passo, staccare la provincia di Isernia dalla regione Molise per trasferirla alla regione Abruzzo (notare in questo caso il singolare). Un processo analogo starebbe organizzandosi in alcuni comuni della provincia di Campobasso, con la creazione di comitati referendari a Montenero di Bisaccia, Termoli, Campomarino e Petacciato. Se tutto dovesse andare per il verso giusto nel giro di alcuni anni si assisterebbe ad un ritorno alle origini con il riformarsi di una regione chiamata probabilmente “Abruzzo e Molise” e la scomparsa dell’ente regionale del Molise.
Evento prodigioso perché avvenuto in un Paese come il nostro, malato di localismo a tal punto da creare dal 1992 ad oggi ben 12 nuove province (15, se si dovessero considerare le province istituite dalla regione Sardegna nel 2001 e soppresse dalla stessa regione nel 2016, recependo l’esito di un referendum abrogativo del 2012) e mai stanco di progettare o anche solo immaginare la nascita di nuovi enti regionali, come nel caso della Romagna la cui aspirazione ad essere regione emerge periodicamente. E, come se non bastasse, in un Paese come il nostro, afflitto negli ultimi vent’anni da un caotico e disorganico affastellarsi di riforme3 che, invece di semplificare la materia e rendere più efficiente il funzionamento di regioni ed enti locali, hanno al contrario prodotto sovrapposizioni di funzioni, proliferazione di uffici e burocrazia a livello regionale, moltiplicazioni di enti territoriali provinciali e una fioritura a livello locale di referendum per il passaggio di comuni da una regione all’altra o per la loro unione e fusione, sulla base di motivazioni quasi sempre materiali o politiche.
A tal proposito, se si osserva l’ormai mutevole e talvolta persino scarsamente comprensibile geografia amministrativa dell’Italia (chi conosce nel dettaglio, ad esempio, le differenze di funzionamento e attribuzioni tra una provincia e una città metropolitana?), sembra proprio che siano stati meri vantaggi di natura economica a favorire il passaggio di comuni da una regione a statuto ordinario a una a statuto speciale (è il caso, ad esempio, di Sappada, nel 2017 passata dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia), oppure da regioni a statuto ordinario con pochi margini di spesa ad altre regioni a statuto ordinario con finanze più in ordine (è il caso, ad esempio, dei 7 comuni del Montefeltro che nel 2009 hanno abbandonato le Marche per l’Emilia-Romagna). Così come sembra che siano stati miraggi di probabili nuove fioriture provinciali a spingere la fusione di comuni di per sé popolosi, distanti fra di loro e con identità municipali ben consolidate, col solo scopo di candidarli alla guida di una futura istituenda provincia (è il caso della nascita, nel 2018, del comune di Corigliano-Rossano, in Calabria, con i suoi 74 mila abitanti) o di garantire più possibilità di accedere ai fondi pubblici concessi ai comuni più popolosi (è il caso, ad esempio, della nascita nel 2014 del comune di Scarperia e San Piero, in Toscana). E comunque, sia detto per inciso, il piccolo comune di Morterone, nel circondario di Lecco, che con i suoi 34 abitanti nel censimento del 2011 produsse le vibranti proteste di cittadini-ragionieri, sfida ancora oggi con la sua esistenza ogni disorganico e disordinato progetto di aggregazioni comunali che parta da istanze locali: si aggregano in questo modo solitamente i comuni già grandi, non i piccoli.
Insomma, in tutto questo guazzabuglio inestricabile la notizia del referendum molisano ha dell’incredibile e prodigioso perché propugna un ritorno alle origini e, in un certo senso, all’ordine naturale delle cose. Ordine che, nella fattispecie, è quello stabilito all’indomani dell’unificazione italiana dalla razionale ripartizione dello Stato unitario in “compartimenti” statistici che, agli inizi del secolo successivo, avrebbero assunto nel linguaggio comune la definizione di “regioni”. Tale ripartizione avvenne sulla base di una suddivisione elaborata dapprima da Cesare Correnti e, nel 1864 in modo definitivo, da Pietro Maestri4, il quale nel 1861 era stato chiamato a dirigere la giunta centrale di statistica presso il ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio del neocostituito Regno d’Italia, organizzandovi il primo censimento generale dello Stato unitario. Insomma, uno statistico disegnò le attuali regioni, non uno storico, un geografo o un linguista specializzato nello studio dei dialetti. Questa precisazione serve a sottolineare il carattere marcatamente artificiale di ciò che oggi, abituati a decenni di ciance su devolution (sic), federalismo o autonomia differenziata, definiamo identità e culture regionali. Come se le regioni odierne fossero l’eredità di storiche ripartizioni, magari anche dotate di specificità etniche, sopravvissute all’urto dei secoli e non già invece il frutto di semplici delimitazioni decise per meglio organizzare i servizi statistici e amministrativi dello Stato unitario appena nato.
Origine del compartimento-regione degli “Abruzzi e Molise”
Ma non è tutta statistica quella che luccica, verrebbe da aggiungere. Nel senso che se è vero che i compartimenti regionali, passando attraverso un’ulteriore razionalizzazione che comportò, nel 1923 e nel 1927, alcune modifiche ai loro confini (per esempio fu istituita in quell’anno la provincia di Rieti, formata per metà dai comuni del circondario omonimo, all’epoca facente parte del compartimento dell’Umbria, e per l’altra metà dai comuni del circondario di Cittaducale, staccati dal compartimento degli Abruzzi e Molise, provincia che fu a sua volta aggregata al Lazio, portando in dote a questa regione un territorio totalmente estraneo a qualsiasi sua precedente delimitazione storica), sono giunti quasi intatti ai giorni nostri (la partizione tra Abruzzo e Molise nel 1963 è infatti una delle poche eccezioni), grazie anche all’automatica identificazione tra i “compartimenti” statistici di Pietro Maestri e le “regioni” istituite dai membri dell’Assemblea costituente, è altresì vero che quei compartimenti disegnati con un mero criterio razionale un fondo di storicità l’avevano.
E lo dimostrerebbe già il fatto che col passare del tempo sorse spontaneo definire quelle creazioni artificiali con l’evocativo termine di “regioni”, riemerso dopo quasi due millenni di oblio, avendo l’imperatore Diocleziano soppresso nell’anno 292 le 11 regiones dell’Italia (escluse Sicilia, Sardegna e Corsica, che erano organizzate come province) istituite tre secoli prima dall’imperatore Augusto, anche in quel caso senza che fosse prevista per esse alcuna funzione amministrativa, ma al solo fine di organizzarvi i censimenti delle persone e delle proprietà. E in una certa qual misura, al di là di questa similitudine, va anche detto che qualche vaga corrispondenza geografica fra le regiones augustee e le regioni-compartimenti del 1861 era possibile individuarla, come nel caso della Regio VIII Emilia, quasi perfettamente coincidente con il compartimento dell’Emilia (attuale regione Emilia-Romagna), inscritta com’era tra il medio e basso corso del Po e l’Appennino e tra le città di Placentia (Piacenza) e Ariminum (Rimini). Ma soprattutto è importante evidenziare che gran parte di questi compartimenti corrispondevano e preservavano (almeno fino ai riordinamenti del 1923 e 1927) i confini amministrativi e persino le frontiere di alcuni Stati preunitari.
Rimanendo al caso dell’Emilia, questo compartimento nasceva niente di meno che dall’aggregazione dei due Ducati di Parma e di Modena con le legazioni di Romagna dello Stato Pontificio, fatto che di per sé produsse alcune incoerenze. Fu in ragione di queste incoerenze, ad esempio, che nel 1923 ben 12 comuni della provincia di Firenze, dunque nel compartimento della Toscana, furono aggregati alla provincia di Forlì e al relativo compartimento dell’Emilia: si trattava di borghi e castelli appartenuti fino agli inizi del XV secolo ai conti Guidi e che erano stati conquistati dalla Repubblica di Firenze, rimanendo in seguito per secoli sotto il dominio mediceo e granducale, pur trovandosi sul versante settentrionale dell’Appennino tosco-emiliano e parlandovisi uno schietto dialetto romagnolo. Era parte di quella “Romagna Toscana” che, se è pur vero che per quattro secoli e mezzo aveva gravitato politicamente verso Firenze, da un punto di vista geografico e dialettale era invece terra prettamente emiliana.
Lo stesso ragionamento fatto per l’Emilia può valere per la maggior parte dei compartimenti regionali post-unitari. Così, ad esempio, il compartimento della Liguria non venne a definire un territorio corrispondente, anche grossolanamente, all’omonima IX regione augustea, che era estesa fino al Po, semmai, e pur sempre in modo abbastanza approssimativo, esso corrispose al territorio prettamente litoraneo e a cavallo dell’Appennino che per secoli era stato della Repubblica di Genova. Per quanto riguarda i compartimenti nati dalla ripartizione, all’interno dello Stato unitario, del territorio appartenuto fino al 1860 al borbonico Regno delle Due Sicilie, l’operazione fatta per delimitarne i confini fu altrettanto semplice e ispirata ai già citati criteri di razionalità, ma anche a pur blandi criteri di storicità. Di fatto si trattò di riunire le province borboniche già esistenti, quasi senza alcuna modifica dei loro confini, a formare delle aggregazioni territoriali che, nel complesso, già avevano assunto col passare dei secoli una certa identità regionale sulla scorta di comuni radici dialettali e fattori geografico-ambientali. Fu così che, per tornare al Molise, dall’aggregazione delle province dell’Abruzzo Ulteriore I (Teramo), dell’Abruzzo Ulteriore II (Aquila), dell’Abruzzo Citeriore (Chieti) e del Molise (Campobasso), in quest’ultimo caso con alcune modifiche che poi si diranno, nacque nel 1861 quel compartimento degli “Abruzzi e Molise” recepito tale e quale, sotto forma di regione, dalla Costituzione repubblicana del 1948 e suddiviso a sua volta in due regioni nel 1963.
Alle origini dell’identità molisana: genesi altomedievale
A questa storia, di cui si è detta la fine, manca tuttavia l’inizio. Perché se è pur vero che il Molise diventò una regione a sé stante nel 1963 e che già nel 1861 esisteva aggregato agli Abruzzi in un compartimento dalla doppia denominazione (l’unico all’epoca con questa caratteristica), nulla è stato detto di come quel territorio fosse giunto all’appuntamento decisivo con la storia, nel momento dell’unificazione nazionale, dopo secoli di quasi incessanti mutazioni della geografia politica, attraverso ridenominazioni o ridefinizioni di confini, così come attraverso il consolidamento amministrativo di realtà territoriali che col tempo andarono assumendo sempre più marcate identità culturali e dialettali. Insomma, mancano a questo racconto le storie della genesi. E la genesi non può che individuarsi in quel periodo turbolento successivo al crollo dell’Impero romano d’Occidente, durato circa mezzo millennio, che convenzionalmente è indicato come alto medioevo5.
È infatti con la calata dei Longobardi nella penisola Italiana, iniziata nel 568, che l’unità della Penisola, fino ad allora assicurata dal Regno ostrogoto e, seppur più blandamente, dalla riconquista giustinianea, fu perduta quasi irreversibilmente. Di fatto si costituì in Italia una bipartizione tra territori longobardi e territori bizantini (o sotto la protezione bizantina) che, tuttavia, non divise semplicemente in due la penisola, ma la spezzettò in diverse aggregazioni spesso isolate tra loro oppure unite da stretti corridoi rappresentati dalle antiche vie consolari, come nel caso di Ravenna che rimase collegata a Roma fino al 751 tramite il cordone ombelicale della via Flaminia, quest’ultima insidiata ai suoi margini dall’avanzata longobarda. In tale contesto il territorio che fino al 292 era stato in gran parte dell’augustea Regio IV Samnium, a cui subentrarono le province Valeria e Samnium, che potremmo riconoscere come gli antenati degli “Abruzzi e Molise”, con l’avanzata longobarda verso il centro e il sud della penisola si ritrovò diviso nei due importanti Ducati di Spoleto e di Benevento, parzialmente indipendenti dal potere della corte regia pavese.
Verso la fine del VI e l’inizio del VII secolo sette gastaldati (il gastaldo longobardo era un amministratore con funzioni militari e civili) si costituirono nel territorio che più tardi avrebbe assunto la denominazione di Abruzzo: di Amiterno, Forcona, Marsi, Valva, Aprutium, Pinne e Teate. I primi sei ricadevano sotto il Ducato di Spoleto, l’ultimo sotto quello di Benevento. È interessante notare come la denominazione Aprutium, corrispondente al territorio teramano, fosse destinato col tempo a prevalere su tutti gli altri, identificando l’attuale territorio abruzzese nel suo insieme. Sulle origini del toponimo non c’è certezza. Già citato nel VI secolo, sarebbe priva di attendibilità l’ipotesi, formulata dall’umanista Flavio Biondo, che possa trattarsi di una corruzione derivata dal nome della tribù italica dei Pretuzi (Praetutii), stanziata nel territorio di Interamnia (Teramo), già aggregato in età augustea alla Regio V Picenum. Tuttavia in mancanza di ipotesi più fondate non rimane che affidarsi a quella che potrebbe essere una suggestione ma non certo priva di una sua logica oltre che di una certa attrattiva.
L’attuale territorio del Molise invece ricadde integralmente sotto il ducato di Benevento, venendo a costituire in buona parte il gastaldato di Bovianum (Bojano), un’area che nel X secolo risulterà ulteriormente suddivisa in nove contee: di Venafro, Isernia, Bojano, Trivento, Pietrabbondante, Sangro, Termoli, Campomarino e Larino. Sostanzialmente il Molise nei sui confini attuali. Si osserva in entrambi i casi una genesi comune riassumibile alla suddivisione territoriale di matrice longobarda in gastaldati che rende l’attuale spazio abruzzese-molisano ancora uniforme all’epoca dei fatti trattati. Elementi di differenziazione emergeranno all’indomani dell’invasione franca dell’Italia e alla scomparsa del dominio longobardo nella parte centro-settentrionale dell’Italia, nel 774. Mentre l’Abruzzo dall’843 sarà unito in una contea franca denominata “Màrsia” o anche “Marsica”, il territorio attualmente molisano seguiterà ad orbitare su uno Stato longobardo, il Principato di Benevento, che se ne assicurerà sempre il controllo mediante la rete di gastaldi. A unificare ancora una volta lo spazio territoriale abruzzese-molisano sarà invece la conquista normanna del Mezzogiorno d’Italia.
Alle origini dell’identità molisana: nascita di una contea
I Normanni, come è noto, iniziarono in sordina la conquista del Mezzogiorno d’Italia. Il principio fu l’arrivo, intorno al 1017, di un tale Osmond, soprannominato “Drengot”. Questi comprese che, in quel mosaico di Stati che era la Campania di inizio XI secolo (i ducati bizantini della costa: Gaeta, Napoli e Amalfi; i principati longobardi dell’entroterra: Capua, Benevento, Salerno), tutti in lotta tra loro per l’egemonia o per semplice difesa – stretti a nord dai domini che erano stati carolingi e che, in quanto tali, erano rivendicati dagli imperatori germanici, e a sud dai brandelli di dominio bizantino e dagli arabi di Sicilia – c’era l’opportunità di progettare un avvenire in grande stile per il proprio clan familiare. Fu così che, tra coloro che vi furono chiamati, giunse anche il fratello di Osmond, quel Rainulfo “Drengot” che, mettendo le sue doti guerriere spregiudicatamente al servizio degli uni e degli altri a secondo delle convenienze e opportunità, nel 1030 ebbe in dono dal duca di Napoli Sergio IV la contea di Aversa, divenuto Stato cuscinetto tra il Ducato bizantino di Napoli e il bellicoso Principato longobardo di Capua, giocandosi le sue carte per ritagliarsi un più vasto Stato territoriale.
La relativa facilità con la quale i Drengot crearono il loro Stato spinse un altro clan familiare, quello degli Hauteville (Altavilla), a tentare la sorte in un’altra parte del Mezzogiorno, la regione appenninica tra Campania e Puglia. Qui un tale Guglielmo, soprannominato “Braccio di Ferro” per l’ardimento, si ritagliò la sua contea, con il beneplacito del duca longobardo di Salerno, a Melfi, nel 1042. Le razzie e l’ambizione di mettere le mani sui territori bizantini richiamarono altri membri della famiglia che fecero base a Melfi, tra i quali i due artefici della conquista del Mezzogiorno e della Sicilia, i fratelli Roberto, soprannominato “Guiscardo” (furbo), e Ruggero d’Altavilla. Frattanto l’allargamento dei domini normanni a cavallo tra Campania e Sicilia mise in allarme non solo longobardi e bizantini, ma anche il papato, ben attento alle variazioni degli equilibri politici e territoriali a sud del Garigliano. Il pontefice dell’epoca Leone IX (l’alsaziano Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg), cugino dell’imperatore germanico Enrico III, preoccupato dagli sviluppi decise di intervenire per tempo chiedendo aiuto a Enrico, che gli inviò un esercito di tedeschi rafforzato da signorotti feudali italiani, prevalentemente dalle regioni minacciate dalla “normanna cancrena”, diretti in direzione del Tavoliere. Qui, nei pressi della scomparsa località di Civitate, il 18 giugno 1053, una grande battaglia decisiva per le sorti dell’Italia volse nettamente a favore dei normanni, che sbaragliarono l’armata papale, catturando lo stesso Leone IX.
Alla disfatta seguì il dilagare senza quasi più freni degli Altavilla, che alla fine si accordarono col principe longobardo di Salerno, Guaimaro IV, e con papa Niccolò II, il quale a Melfi il 23 agosto 1059, investì il normanno Riccardo d’Aversa del principato di Capua e Roberto il Guiscardo del ducato di Puglia e Calabria, aprendo le porte alla riconquista della Sicilia da sottrarre agli arabi infedeli, opera quest’ultima alla quale si dedicherà con sollecitudine il fratello Ruggero a partire dal 1060 fino al 1091, mentre il Guiscardo punterà ad annettersi la Puglia e a inseguire sogni di gloria nei Balcani, nel tentativo di conquistare almeno in parte l’Impero bizantino. Il sogno del Guiscardo, che nel 1077 aveva conquistato Salerno, si fermerà nel 1085 sull’isola di Cefalonia, mentre dall’ambizione di Ruggero, installatosi dal 1072 nello splendore di Palermo, avrà un seguito a dir poco glorioso, con la fondazione del Regno di Sicilia (comprendente anche l’intero Mezzogiorno d’Italia) da parte del figlio e successore Ruggero II, splendido esempio di munifico sovrano dal carattere occidentale e orientale insieme6.
A tutte queste vicende le nove contee che avevano formato un tempo il gastaldato longobardo di Bojano non erano rimaste estranee. Alcune di queste furono assorbite dai normanni a metà del secolo XI: Isernia e Venafro verranno annesse al principato di Capua (non più longobardo giacché, come si ricorderà, era stato affidato al normanno Riccardo d’Aversa dal 1059), mentre nel 1060 anche Larino sarebbe caduta nelle loro mani. Le fonti poi tramandano un avvenimento apparentemente secondario ma destinato ad avere degli sviluppi: un normanno, tale Ugo di Moulins, forse originario dell’odierna Moulins-la-Marche (dipartimento dell’Orne), partendo dalla contea di Bojano si ritagliò uno staterello feudale che nel 1053 è citato come comitatus Molisii (contea di Molise, nelle fonti volgari “de Molisio”). Pochi anni dopo gli ultimi vassalli della zona non ancora sottomessi dai normanni, i Borrelli, che si erano installati a Pietrabbondante a metà del secolo precedente7, alleati dei consanguinei conti dei Marsi (la contea franca, come si ricorderà, nata in territorio abruzzese nell’843) combatterono a Civitate nel 1053 a sostegno del papa Leone IX, venendo sconfitti. Per questo cambieranno campo, schierandosi con i normanni e guidandoli contro la contea di Marsia (Abruzzo) nel 1067, conservando per questo loro tradimento una precaria indipendenza fino al 1098, quando diventeranno vassalli del conte Ugone de Molisio.
Alle origini dell’identità molisana: da contea a giustizierato
A questo punto la fisionomia della terra del Molise assume i contorni attuali: dalle montagne del Matese al mare Adriatico, tra le valli fluviali del Trigno e del Fortore fino all’alta valle del Volturno. Una regione posta a cavallo della linea di displuvio tra i bacini dell’Adriatico e del Tirreno, comprendente un centro come Venafro, che era gravitato per secoli verso la Campania, oltre a Larino e alla scomparsa Clitèrnia, nelle aree collinari tra Biferno e Fortore, che erano invece di antica identità dauno-àpula. E naturalmente comprendente Bojano con la sua conca, alla testata del Biferno, che per gli appassionati di etno-antropologia andrebbe ricordata anche soltanto per essere stata sede, a metà del secolo VII, di uno stanziamento di bulgari giunto nella penisola dalle regioni tra il mar d’Azov e il Caspio sotto la guida del khan Alcek (Alzeco), che fu investito dell’ormai noto gastaldato dal re d’Italia e duca di Benevento Grimoaldo I8. È proprio da questo nucleo fondante che, con il passare dei secoli, si consolidò l’immagine di una terra con caratteri affini a quelli del vicino Abruzzo, ma dotata di un suo specifico carattere, se non altro dovuto al fatto che in seguito alle prime ripartizioni del territorio continentale costituente il Regno di Sicilia il Molise formò fin dal principio una circoscrizione a carattere giudiziario e fiscale a sé stante.
Questa circoscrizione ebbe nei primi secoli di vita del Regno la definizione di giustizierato. A questo proposito vale la pena sottolineare che, al di là del fatto che da queste circoscrizioni discendano un buon numero delle attuali province del Mezzogiorno d’Italia, si trattava pur sempre di suddivisioni territoriali che non avevano un vero e proprio carattere amministrativo. Siamo pur sempre nel medioevo, un’epoca di incubazione degli Stati moderni e in una condizione di relativa primitività dei sistemi di governo. Tuttavia il Regno di Sicilia costituito da Ruggero II aveva introdotto degli ordinamenti che per l’epoca erano senz’altro all’avanguardia e che resero quello Stato il primo vero esempio di monarchia centralizzata in Europa tale che, poco meno di un secolo dopo, riguardo ai tempi in cui sul trono siciliano regnava Federico II di Svevia (ma il giudizio si può senz’altro applicare anche al Regno di Ruggero II) si è potuto sostenere che «nessuna struttura contemporanea poteva rivaleggiare in efficienza e impermeabilità di controllo con la macchina burocratica del regno siciliano»9.
E questa struttura si avvalse di giustizieri nominati per esercitare la giustizia regia fin nelle terre più remote del Mezzogiorno, in quegli stessi domini feudali dei riottosi baroni che fino al 1139 avevano avversato la forza centralizzatrice della cancelleria palermitana, ribellandosi allo stesso Ruggero II e conducendo contro di esso un conflitto (con l’appoggio del pontefice) che non mancò di portare lutti e distruzioni in diverse regioni dell’Italia meridionale. Almeno fino alla sconfitta definitiva della ribellione baronale, che vide schierarsi tra i più acerrimi nemici di Ruggero il conte Rainulfo d’Alife e il principe Roberto di Capua. Il 22 luglio 1139, in una battaglia decisiva lungo il corso del Garigliano, oltre a essere sconfitta l’alleanza dei baroni che fino a quel momento era riuscita tra alterne fortune a tenere testa al sovrano, ancora una volta venne fatto prigioniero un papa per mano normanna, come a Civitate nel 1053. In questo caso si trattò di Innocenzo II (il romano Gregorio Papareschi), il quale saggiamente decide di trattare il suo rilascio in cambio dell’emissione di una bolla che riconosceva la corona di Sicilia cinta nel 1130 a Ruggero. La vittoria del sovrano normanno fu totale. Privati dell’influente alleanza con il pontefice i baroni riottosi furono costretti a sottomettersi e ad accettare di dover abbandonare terre e castelli, mentre le città che si erano rese autonome si arresero.
In questo clima di trionfo del potere regio nell’estate del 1140 furono convocate ad Ariano le Assise generali del Regno di Sicilia, che nelle intenzioni di Ruggero dovevano stabilire il nuovo corso legale del potere autocratico del sovrano normanno. Verranno pertanto emanate leggi ed editti e ad Ariano «il re completa la nomina, in tutti i suoi stati, di giudici competenti in diritto civile e penale e di camerari deputati alla gestione delle entrate fiscali, oltre che delle riforme finanziarie»10. Si tratta per l’appunto dei giustizieri e il territorio di loro competenza viene ad assumere il nome di giustizierato (justitieratus). Ma a tutto c’è un limite, anche al potere regio più accentratore. Fu così che anche lo stesso Ruggero II non poté evitare di nominare tra i giustizieri diversi importanti baroni che non gli avevano voltato le spalle o che si erano ravveduti prima dello scontro finale. È a questo punto che rientra nella nostra storia la contea molisana.
Si ricorderà che tra i principali nemici di Ruggero II vi fossero il principe di Capua e il conte di Alife, i cui feudi giungevano a ridosso della contea di Molise. Forse non c’era altra scelta per il conte Ugo II de Molisio di schierarsi con gli avversari del re, solo per il fatto di ritrovarsi circondato da forze ostili. Ad ogni buon conto, dopo aver subito confische di castelli e occupazioni di feudi da parte delle forze alleate al sovrano siciliano, Ugo II decise in extremis di riappacificarsi con Ruggero, operazione che riuscì e che fu suggellata dal matrimonio con una figlia illegittima del re. A quel punto Ugo II passò dalla parte del vincitore e nel 1144 poté riscuotere il premio per il suo ravvedimento: la nomina a giustiziere del Molise, un territorio esteso su parte della contea e comprendente le terre e i castelli intorno a Isernia, Venafro e Larino. È questa la data di nascita ufficiale del Molise odierno, inteso come unità amministrativa. Ed è ciò su cui si basa l’orgogliosa rivendicazione di autonomia dal vicino Abruzzo, territorio che in quel frangente era ancora oggetto di disputa tra il monarca siciliano e il pontefice, sebbene formalmente l’intera regione con anche Rieti fosse caduta sotto il controllo normanno. Alla fine Guglielmo I (che una certa tradizione medievale di simpatie baronali definisce “il Malo”), successore nel 1154 al trono che era stato di Ruggero II, stipulò un accordo con il papa che concedette nel 1156 al nuovo re siciliano, in cambio dello sgombero di Rieti, l’investitura formale sulla regione che al tempo era ancora denominata Marsia: l’Abruzzo. Marsia che sotto Guglielmo II (“il Buono”), nel 1176, sarebbe stata a sua volta organizzata in un justitieratus Aprutii, assumendo per intero il nome che era stato di uno solo dei sette gastaldati longobardi originari, riuniti dai franchi a formare la contea di Marsia.
A questa data si hanno quindi due giustizierati separati: a nord del Sangro l’Aprutium (Abruzzo), che si spinge fino al Tronto (dove per secoli rimase il confine settentrionale tra il Regno napoletano e lo Stato Pontificio), e a sud del Sangro il Molise. Non si trattò tuttavia di una condizione destinata a durare. Al Molise mancavano centri urbani popolosi (Campobasso, si sarà notato, non è mai stata neppure nominata perché all’epoca era un borgo irrilevante) e non si può escludere che la promozione a giustizierato fosse un premio concesso a un barone riottoso che all’ultimo aveva ritrovato la fede per il suo sovrano. Un privilegio pertanto non destinato a durare se fossero prevalse le esigenze di una più efficace razionalizzazione di quella macchina burocratica che in quegli anni stava affinando il proprio funzionamento.
Il Molise declassato e la secolare inclusione
Sulla dinastia normanna degli Altavilla intanto si abbatté la tempesta. Costanza, la figlia postuma di Ruggero II, nel 1184 sposò il figlio dell’imperatore germanico Federico I “Barbarossa”, lo svevo Enrico di Hohenstaufen. L’iniziativa era del re di Sicilia Guglielmo II “il Buono”, privo di eredi maschi e che contava pertanto che alla sua morte il Regno sarebbe stato governato da Enrico tramite la moglie. Si sa invece come andò a finire. Nel 1190 Enrico VI succedette al padre sul trono imperiale e nell’aprile 1191, giunto in Italia e fattosi incoronare dal papa, proseguì verso il Regno, inteso a far valere i suoi diritti ereditari. Frattanto i baroni normanni, avversi a un dominio straniero, avevano eletto un figlio bastardo di Ruggero II, il conte di Lecce Tancredi, che ebbe in dono un’insperata tregua (in parte dovuta a un’epidemia che aveva decimato l’esercito imperiale a Napoli, in parte a causa di avversari di Enrico che gli si ribellarono in Germania) che durò fino al 1194. Poi però Enrico VI tornò alla carica e non trovò pressoché alcuna resistenza, potendo giungere quasi indisturbato fino a Palermo. Si installava nel Regno di Sicilia quella dinastia sveva che avrebbe avuto in Federico II il mirabile esempio di sovrano modello, lo stupor mundi tramandato da alcune cronache del tempo. Enrico VI in verità, al di là della foga nel voler riscuotere la sua cambiale siciliana, non ebbe tempo per occuparsi del Regno. Nel 1197 morì e lasciò il trono al figlioletto di tre anni Federico, ovverosia alla madre Costanza, almeno fintanto che il sovrano non avrebbe raggiunto l’età adatta per governare.
Il che avvenne nel 1208, essendo allora Federico II quattordicenne, quando iniziò la sua cavalcata nella grande storia sulla quale non ci si dilungherà. Semmai sarà importante considerare che fu Federico II, nel solco della tradizione che era stata dei suoi predecessori normanni, a portare alla massima efficienza la spinta centralizzatrice della macchina burocratica e cancelleresca siciliana. L’anno successivo all’agognata incoronazione a imperatore, nel 1220, Federico ebbe più tempo per razionalizzare la geografia amministrativa dei suoi domini italiani. Cosicché nel 1221 il Comitatus Molisii, costituito in giustizierato dal 1144, fu tecnicamente soppresso, sebbene fosse ufficialmente aggregato ad un altro giustizierato, assumendo così la doppia denominazione di Justitieratus Molisii et Terrae Laboris (Molise e Terra di Lavoro), corrispondente al territorio settentrionale della Campania assieme all’area cassinese, oltre alla parte centro-occidentale della contea molisana. Una vasta circoscrizione giudiziaria che dipendeva di fatto da Napoli.
Diversa la sorte dell’Abruzzo che nel 1233 venne confermato come giustizierato con capoluogo a Sulmona, al centro di quella regione. Il destino del Molise da questo momento in poi rimase invece legato per secoli a quello di altre regioni vicine, dipendendo in realtà da queste per ragioni economiche. Frattanto nel vicino Abruzzo si avrà una modifica della denominazione. Subentrata nel 1266 alla dinastia sveva quella degli Angiò, il primo sovrano di quella casata, Carlo I, decise nel 1272 di suddividere il vasto Justitieratus Aprutii in due giustizierati di Ultra et Citra flumen Piscariae, ovvero quelli che verranno definiti in italiano cancelleresco di Abruzzo Ulteriore (con sede a Chieti) e Abruzzo Citeriore (con sede ad Aquila), perché posti al di qua o al di là del fiume Pescara. Da singolare che era l’Abruzzo divenne così plurale: Abruzzi. E tale rimase fino all’Unità italiana e anche oltre, considerando che il già citato Pietro Maestri nel 1861 crea il compartimento degli “Abruzzi e Molise” e che lo stesso testo costituzionale del 1948 cita espressamente con quella medesima definizione al plurale la costituenda regione. Plurale peraltro ribadito da un’ulteriore suddivisione degli Abruzzi in tre “province”, come da nuova terminologia introdotta al tempo della dinastia aragonese di Napoli e rimasta anche alle circoscrizioni del vicereame spagnolo. Che saranno:
- Abruzzo Citeriore (Chieti)
- Abruzzo Ulteriore I (Teramo)
- Abruzzo Ulteriore II (Aquila)
Di fatto le province abruzzesi rimasero tali e pressoché all’interno degli stessi confini fino al rimaneggiamento del 1927, quando fu creata la provincia di Pescara e venne ceduto alla provincia di Rieti (quindi al Lazio) il circondario di Cittaducale, un’area di poco più di mille chilometri quadrati comprendente le alte valli del Velino e del Salto, il ramo sorgivo del Tronto e i centri abitati, tra gli altri, di Leonessa, Amatrice e Antrodoco.
Per il Molise invece permarrà l’inclusione nella Terra di Lavoro (pur sopravvivendo l’eco della doppia denominazione) per tutta la durata della dinastia angioina, fino al 1442, e per tutta la durata della successiva dinastia aragonese di Napoli, che avrà termine nel 1501. Nel XV secolo tuttavia era avvenuto un grande cambiamento in campo economico. Sebbene da sempre la pastorizia fosse una voce importante dell’economia agricola delle terre abruzzesi e molisane, la sua importanza crebbe col passare dei secoli e finì per entrare nel mirino della burocrazia fiscale napoletana (perché frattanto il Regno si era diviso in due e la corte, relativamente alla parte continentale, si era spostata pertanto da Palermo a Napoli). Già il sovrano normanno Guglielmo I aveva legiferato in materia di bestiame ovino delle pianure pugliesi, mentre Federico II aveva preferito dedicare maggiore attenzione ai preziosi cavalli arabi allevati nel Tavoliere. L’interesse per la pastorizia transumante proveniente dagli Abruzzi e dalla Contea di Molise crebbe con l’installazione di Alfonso d’Aragona “il Magnanimo” alla corte di Napoli, nel 1442.
«Dal 1443 in avanti, il controllo esercitato dai re di Napoli su questa attività divenne ancora maggiore. Le pecore erano particolarmente redditizie in un momento in cui il decremento demografico che aveva fatto seguito alla “peste nera” aveva lasciato molte terre libere per il pascolo, mentre la domanda di prodotti della pastorizia rimaneva stabile. La Mena, un’organizzazione per alcuni versi simile alla Mesta castigliana, prendeva accordi per il pascolo invernale ed estivo delle pecore e del bestiame transumante, e raccoglieva la tasse per la corona in base al numero dei capi; c’era però una grande differenza tra Mena e Mesta: la prima era più saldamente sotto il controllo del re, la seconda sotto quello dei nobili»11.
Mena e dogana delle pecore in una certa qual misura rivoluzionarono la tradizionale economia pastorale, organizzando in modo più efficace la transumanza del bestiame lungo i tratturi diretti dagli Abruzzi alla Capitanata attraverso il Molise. Sotto il regno del secondo sovrano aragonese, Ferrante I (1458-1494), si ebbe un maggiore dinamismo in ambito mercantile, grazie anche all’allargamento dei traffici commerciali non solo all’Italia centro-settentrionale ma anche (e non poteva essere altrimenti) alla Catalogna. L’incipiente incremento demografico produsse anche un aumento della produzione manifatturiera, incentivata dall’introduzione di fiere. Tra gli ambiti beneficiati dallo sviluppo vi fu proprio il settore dell’allevamento ovino, in virtù delle migliorie prodotte nel settore dalla “Dogana delle pecore”, con sede a Lucera e poi a Foggia, fonte inesauribile di cospicue entrate fiscali che spinsero Ferrante a renderla maggiormente autonoma dalla stessa Udienza della provincia di Capitanata12. È chiaro che, di fronte a questo interesse della corona napoletana per la transumanza degli ovini, gli stessi interessi economici della Contea di Molise, da tempo annessa alla Terra di Lavoro, venissero a gravitare decisamente più verso la Puglia che verso la Campania. Fu così che, preso atto dell’esistenza di ciò che noi oggi definiremmo un’economia di filiera, nel 1531 la vecchia Contea del Molise fu separata dalla Terra di Lavoro e aggregata alla provincia di Capitanata. Cambiava la dipendenza territoriale (da Lucera e non più da Napoli) ma la dipendenza rimaneva. Peraltro dalla denominazione della provincia spariva anche qualsiasi accenno al Molise.
Il Molise risorto, ma solo parzialmente
Soltanto secoli dopo, quando il Regno di Napoli si ritrovò, nel 1806, invaso dalle armate francesi per la seconda volta dopo appena sei anni, per mano di una Francia ormai saldamente nelle mani dell’imperatore Napoleone Bonaparte, il nuovo sovrano Giuseppe Bonaparte istituì il 27 settembre 1806 la provincia del Molise alla quale cinque anni dopo il re Gioacchino Murat assegnò anche il distretto di Larino, che era ancora rimasto unito alla Capitanata. Il piccolo borgo di Campobasso, rimasto nell’ombra fino al XV secolo e poi passato sotto il dominio di diverse famiglie feudali (tale scarsa importanza non lo faceva nemmeno figurare tra le città demaniali), fu scelto per ospitare l’intendenza, il tribunale e i distaccamenti militari.
Alla parziale rinascita culturale e morale della provincia molisana avevano concorso due figure della stagione illuministica napoletana, l’abate Giuseppe Maria Galanti (1743-1806), nativo di Santa Croce di Morcone, oggi in provincia di Benevento, e il funzionario Giuseppe Zurlo (1759-1828), nato a Baranello, non distante da Campobasso. Il primo fu divulgatore filosofico, storico e geografico, tanto che:
«il suo maggior merito sta nelle analisi del territorio meridionale, percorso palmo a palmo (anche grazie alla carica di visitatore del regno conferitogli dal governo nel 1781) e descritto con particolare attenzione alla realtà economica e sociale, alla genesi storica dei problemi del presente, alle sofferenze e agli stenti delle popolazioni. Alla Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado di Molise, pubblicata nel 1781, farà seguito la Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, di cui 2 volumi uscirono tra il 1786 e il 1790»13.
Nemico assoluto del progresso e dello sviluppo sociale e civile era, secondo Galanti, il “governo feudale”, definito «il più mostruoso che si sia conosciuto sulla terra»14. La pensava alla stessa maniera il suo conterraneo Zurlo, nominato direttore delle finanze durante la prima restaurazione borbonica (1799-1806), passato poi a servire i sovrani francesi e nominato ministro dell’Interno da Murat nel 1809. Suo sarà un Rapporto sullo stato del Regno che metteva l’accento sulle condizioni deprecabili delle istituzioni educative. Se la legge del 2 agosto 1806 sull’eversione della feudalità non soddisfece pienamente le aspirazioni antifeudali di Zurlo, purtuttavia segnava una strada che fu poi parzialmente seguita anche con la seconda restaurazione borbonica, dopo il 1815. È molto probabile poi, data l’attenzione dedicata a questo uomo di Stato per il governo delle province, che si debba a un suo suggerimento l’istituzione della circoscrizione amministrativa molisana, tanto più che il primo intendente della provincia del Molise sembra essere stato suo fratello Biase.
Fu così che la provincia molisana, mantenuta anche dopo alla seconda e definitiva restaurazione borbonica, giunse intatta all’appuntamento con l’unità nazionale. Salvo per un dettaglio che riguardava i suoi confini, dato che nella compagine del Regno borbonico mancava una provincia che facesse capo su Benevento, città con le poche miglia all’intorno rimasta definitivamente alla Chiesa dal 1177. Ecco quindi che, per ragioni amministrative, parte dell’attuale provincia beneventana, pur ricadendo in gran parte nella circoscrizione provinciale detta del Principato Ultra (Avellino), comprendeva diversi comuni annessi al Molise, tra i quali il paese natale dell’abate Galanti. Tuttavia, con la creazione del Regno d’Italia si rese necessario un riordino della geografia amministrativa, considerando oltre tutto che in quella zona che era stata del Regno delle Due Sicilie si poteva ora contare su una città, Benevento, destinata per importanza e dimensioni ad essere capoluogo di una nuova provincia. Fu così quindi che alla neocostituita provincia di Benevento furono aggregati fin dal 1860 quindici comuni molisani, mentre dalla provincia di Terra di Lavoro (Caserta) ne furono aggregati al Molise 12, tra cui Venafro che – si ricorderà – era uno dei borghi formanti la Contea di Molise fin dal XII secolo.
Provincia del Regno d’Italia con capoluogo Campobasso, si mantenne tale con pochi rimaneggiamenti territoriali (che ne estesero la superficie) nel periodo fascista e che furono tuttavia annullati nel dopoguerra. Infine, nel 1970, nel mentre si costituivano gli organi di governo della regione Molise, 52 comuni andarono a formare la provincia di Isernia, rimasta fino ad oggi la meno popolata d’Italia (il capoluogo stesso nel 1971 registrava appena 15 mila abitanti) e anche una delle meno estese, sulla cui necessità di istituirla si potrebbe nutrire più di un dubbio legittimo. Non c’era stato nessun referendum fra gli abitanti, fece tutto la politica (legge 20/1970), naturalmente venendo incontro a istanze locali in una regione di provata fede democristiana. Pertanto le motivazioni di fondo restano uno dei tanti segreti di Pulcinella. Venendo all’oggi, si vedrà cosa potrà riservare il futuro a questa piccola regione incastonata lungo la dorsale dell’Appennino centro-meridionale che uno scrittore molisano, Francesco Jovine (1902-1950), ritrasse con una prosa evocativa e a tratti poetica in una pubblicazione data alle stampe nel 1948, l’anno in cui l’istituzione della regione “Abruzzi e Molise” veniva confermata dall’atto di promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana. Ecco la descrizione di un piccolo mondo antico che, dopo più di mezzo secolo di grandi trasformazioni culturali e sociali, segnato dallo spopolamento dei piccoli centri e dall’opposto fenomeno dell’inurbamento nelle città industriali, sopravvive ormai quasi solo nella memoria:
«Il paesaggio è in genere aspro, con cime brulle e rocciose, con frane e burroni coperti di un’avara vegetazione: rovi, ciuffi di ginestre e macchie di quercioli, di carpini e di lecci nani. Nelle terre più basse, dove l’asprezza montana si arrotonda in dolci colline, vi sono boschi di querce e di ulivi. Tra una frana e un botro, arrampicati sulle creste dei monti, campi di grano e di granturco e pascoli: piccole estensioni di terre agevoli, coltivate a braccia con amorevole sapienza. La varietà del paesaggio molisano è singolare; è terra senza riposo che talvolta, massime nella parte più alta, nel circondario di Isernia, ha qualcosa di convulso: una specie di tormento geologico raggelato in tempo immemorabile. Dappertutto roccia e pietre di varia natura e forma, ciottoli levigati nei torrenti e scaglie scabre nei terreni coltivati a grano e nei pascoli. Brevi poderi sono sempre contornati da muri a secco, fatti di pietre che la zappa e l’aratro mettono incessantemente a fior di terra. I contadini li raccolgono in mucchi, in mezzo al campo: piccoli cumuli come tombe primordiali che il sole e la pioggia fanno bigi e verdi di tenero muschio. Tutti i viottoli del Molise sono sparsi di pietre, sono rivoli biancastri tra siepi di more, di pruno e di lentisco; nella solitudine della campagna montana, il passaggio degli uomini e degli animali ha il suono minuto dei chiodi e dei ferri stridenti sulla pietra e del rotolare breve dei ciottoli»15.
Abruzzo e Molise, una cosa sola? Futuro (possibile) di una regione una e bina
La questione rimasta in sospeso fin dall’inizio di questa cavalcata storica è se il Molise sia una regione a sé stante, non solo da un punto di vista amministrativo. Si propende senz’altro per il sì, non fosse altro per il fatto che il Molise, come si è ben spiegato, non è l’Abruzzo (o Abruzzi, che dir si voglia) e non lo è mai stato. Genesi simile, ma esiti diversi per queste due regioni partorite dall’incessante lavorio della storia più che dall’estro inventivo di un Pietro Maestri. Pur non mancano elementi culturali e linguistici che ne fanno per molti aspetti un tutt’uno. Il fatto che siano state entrambe il cuore di quell’area, prevalentemente montana, di stanziamento di tribù italiche e sannite sempre ostili a Roma, fino a quell’ultima ribellione, nota come guerra sociale (perché mossa dai “socii”, ovvero gli italici alleati dei romani), che diede avvio alla definitiva romanizzazione di quei popoli. Popoli che avevano in terra di Molise uno dei più importanti santuari, quello di Pietrabbondante, e nell’attuale Abruzzo, a Corfinio, la capitale provvisoria dell’effimera confederazione anti-romana. Il fatto che l’architettura tradizionale e spontanea non mostri sensibili differenze su un versante e l’altro del Sangro: un piccolo borgo abruzzese come Pettorano sul Gizio non mostra certo un volto molto dissimile da quello di un piccolo borgo molisano come Bagnoli sul Trigno. L’architettura religiosa, poi, ha disseminato entrambe le regioni di rustiche e non molto dissimili chiese plebane romaniche, come nel caso della Madonna del Canneto (Molise) e di San Liberatore a Maiella (Abruzzo), e ha prodotto dei prototipi di architettura romanica segnata da pennellate di gotico non estranei a influssi pugliesi, che tra i secoli XIV e XV sono andate ad arricchire centri come Larino (Molise), con la sua Cattedrale, e Lanciano (Abruzzo), con la quasi gemella chiesa di Santa Maria Maggiore.
Il fatto che la rete di tratturi, le note vie della transumanza ovina destinate a quella Mena delle pecore di cui si è accennato, parta dagli Abruzzi per poi attraversare per intero il Molise, convergendo infine nei centri del Tavoliere, formando così una sorta di “via della lana” che unisce terre e paesi di entrambe le regioni, non è un fattore di minor conto, considerando che un’altra importante e antica via di comunicazione ha dato il nome e fornito di una marcata identità una regione come l’Emilia. E, infine, il fatto che anche il dialetto, al di là di alcune variazioni influenzate dalle parlate confinanti o dalle diverse aree geografiche (per cui il dialetto di Vasto sarà senz’altro un po’ differente da quello di Sulmona e da quello di Campobasso), sia in sostanza lo stesso, appartenente alla famiglia dei dialetti meridionali, al gruppo napoletano e al sottogruppo sannita-abruzzese o abruzzese-molisano che dir si voglia. Ecco perché, in fin dei conti, malgrado la reazione stizzita dell’attuale presidente della giunta regionale molisana, l’ingegnere Francesco Roberti (Forza Italia), che di fronte alle affermazioni contenute nel summenzionato articolo di Gabanelli e Tortora, non poteva non rivendicare l’esistenza di un’identità peculiare della regione che guida, si potrebbe senz’altro parlare dell’esistenza di una medesima regione ma con due nomi diversi. O, se si preferisce, di regione una e bina.
Tuttavia rimaniamo in attesa di sviluppi futuri sulla vicenda. Visto il clima culturale-identitario in cui l’Italia è immersa da almeno tre decenni, con una parte della popolazione, prevalentemente urbana e istruita, che spinge da un lato per l’annullamento dell’identità nazionale e a favore di un amalgama multietnico e multiculturale su base euro-continentale, e con un’altra parte della popolazione italiana che, quasi per reazione, si richiude in una spasmodica ricerca di microcosmi identitari su base locale, regionale o sub-regionale, aggrappandosi a vestigia di tradizioni ormai quasi del tutto scomparse o mutate in folcloriche rappresentazioni ad uso turistico, così come ad echi di parlate dialettali depauperate dalla diffusione dell’italiano televisivo, ebbene di fronte a tutto questo non ci sarebbe troppo da stupirsi se, alla fine, dovesse prevalere nell’opinione pubblica molisana l’istinto di sopravvivenza, volto a preservare quell’autonomia che dal 1970 ad oggi non ha certo apportato benefici, ma che permette ancora a certe reti clientelari politiche di poter attingere alle poche risorse disponibili della regione e a certi amministratori locali di poterle redistribuire sotto forma di assunzioni, stipendi e finanziamenti. Meglio che niente e di questi tempi, come soleva dire un’ex ministro dell’Economia e delle Finanze, «piuttosto che niente è meglio piuttosto». Meglio quindi tenersi il piccolo Molise, di cui si conoscono tutti i limiti, non solo geografici ma anche di classe dirigente e di gestione delle risorse, piuttosto che essere la provincia perennemente dimenticata dai politici di Pescara e dell’Aquila e che tuttavia versa le tasse regionali ai vicini abruzzesi. E poi, in fin dei conti, vuoi mettere la difesa dell’identità molisana? Pertanto siamo pronti a scommettere che questo matrimonio abruzzese-molisano non si farà mai.
Il trattino della discordia, ovvero vademecum per non cadere in errore quando si parla di identità regionali
Ma se il matrimonio si dovesse fare sarebbe innanzi tutto necessario mettersi d’accordo sul nome della futura ricostituenda regione. “Abruzzi e Molise”, come da versione originaria del testo costituzionale? Oppure “Abruzzo e Molise”, abdicando quindi dalla denominazione al plurale di età angioina, rimasta in uso in età aragonese, spagnola, borbonica e sabauda, per ritornare invece alla relativamente breve esperienza onomastica al singolare di età normanna? Questione di lana caprina, si dirà. Può essere. A chi scrive comunque piace il plurale, se non altro per una questione di inclusività. Ad ogni modo c’è da credere che al posto della congiunzione «e», anche solo per una questione di simmetria con le denominazioni ufficiali delle altre regioni italiane, vi sarebbe un trattino: “Abruzzi-Molise” o “Abruzzo-Molise”. Il trattino della discordia. Perché in effetti produce esiti discordanti: “Trentino-Alto Adige”, “Friuli-Venezia Giulia”, “Emilia-Romagna”. Tutti siamo portati a ritenere che il trattino stia a segnalare una differenziazione regionale o quanto meno sub-regionale, ma non è così. Il trattino non è altro invece che uno stratagemma politico da secondo dopoguerra per pasticciare con le denominazioni territoriali di antica data o di più recente ma aulica invenzione, al fine di riconoscere specificità identitarie a determinate province o territori più vasti.
D’altra parte, tramontata nel secondo dopoguerra la stagione centralizzatrice di ascendenza cavouriana (ma strenuamente sostenuta in punta di ideologia anche dal repubblicano Giuseppe Mazzini) e iniziata la stagione delle autonomie, destinata infine a riportare in voga le tare ataviche della debole identità nazionale italiana, malata di localismi, municipalismi e campanilismi di ogni sorta, fino al gran finale dell’autonomia differenziata in dirittura d’arrivo, era naturale che si dovessero democratizzare anche le denominazioni ufficiali. Scomparve così la “Venezia Tridentina”, che assieme a “Veneto” (o “Venezia”) e “Venezia Giulia” andava a formare le “Tre Venezie” o “Triveneto”. Nome colto, inventato tuttavia di sana pianta da quel patriota di incrollabile fede italiana, nativo di Gorizia, linguista e glottologo di fama europea che fu Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907). Via dunque, sostituito con “Trentino-Alto Adige” per una questione di bilanciamenti etnico-linguistico-politici. Come se poi “Alto Adige”, altra invenzione toponomastica partorita da una fantasia bonapartista dell’odiato (dai tedescofoni) tosco-roveretano Ettore Tolomei, piacesse di più a quei discendenti di bavari che non smettono giustamente di definire la propria terra Südtirol. Ad ogni modo, si pensò in tempi di ingiustificate ma temute rivendicazioni austriache: meglio due denominazioni diverse, ciascuna per ogni comunità linguistica, che una sola e divisiva per entrambe. Meglio non commentare, per carità di Patria.
La denominazione “Venezia Giulia” (ad indicare quel territorio comprendente l’estremo confine geografico nord-orientale d’Italia segnato dalle Alpi Giulie, riunito dal 1849 nel distretto del Litorale Austriaco o Österreichisches Küstenland di asburgica memoria, formato da Trieste, valle dell’Isonzo, Carso, Istria e isole del Quarnaro) è invece sopravvissuta, sebbene riferita a una regione in massima parte amputata dopo il 1947: è rimasta solo la sottile striscia (già zona A del TLT) dove è Trieste, un pezzo di Carso monfalconese, metà Collio, il centro di Gorizia e la laguna di Grado. È stata pertanto unita al Friuli a formare la regione “Friuli-Venezia Giulia”. Peccato che il Friuli non sia una regione a sé stante, ma da un punto di vista storico e geografico si tratti di una sub-regione del Veneto, dotata di una sua marcata identità culturale e dialettale, ma pur sempre gravitante su Venezia (che la governò dal 1420) più che su Trieste. Scelta tuttavia pienamente giustificabile, a meno di voler mantenere in vita da sola una regione moncherino di appena 678 chilometri quadrati (la metà della superficie del solo comune di Roma).
E poi si arriva al grande equivoco della “Emilia-Romagna”. Un trattino anche in questo caso, a voler indurre a credere che l’Emilia e la Romagna siano due regioni differenti riunite sotto un’unica amministrazione. Falso. In verità “Emilia” è una denominazione resuscitata dopo un plurisecolare periodo di oblio ed è valida per l’intera regione. Era il nome della VIII regione augustea, scomparso nell’uso comune già alla fine dell’alto medioevo, e parve pertanto ragionevole riportarlo in vita a umanisti e studiosi di rerum romanarum del XV e XVI secolo. Sfortunatamente esso non ebbe circolazione se non fra gli eruditi, permanendo l’uso comune di parlare in modo frammentato di Bologna, dei Ducati (Ferrara, poi Modena e Reggio, oltre a Parma e Piacenza) e della Romagna o Legazioni di Romagna, sovente includendo nella Romagna anche Bologna. A riportarlo in vita con maggior successo, perché con crisma di ufficialità, fu sempre il nostro Pietro Maestri, che denominò “Emilia” il compartimento (ufficialmente dal 1871) esteso da Piacenza a Rimini e compreso tra il Po e la dorsale dell’Appennino tosco-emiliano. Per qualche ragione che non ci è dato sapere il localismo dei romagnoli (pur generalmente ispirati da sentimenti patriottici italiani) ha finito per prevalere sul buon senso: si è voluto che all’Emilia si accostasse anche la Romagna, come se fossero due territori diversi. E in effetti col tempo l’equivoco ha messo radici.
Al di là delle differenze dialettali apparentemente piuttosto marcate che rendono il dialetto romagnolo assai ostico a un modenese e forse anche a un bolognese, è un dato di fatto incontrovertibile che i dialetti che si parlano da Piacenza a Rimini (con diramazioni fino a Mantova, a Voghera e a Pavia) appartengano, nel complesso della famiglia allargata dei dialetti gallo-italici, alla famiglia dei dialetti emiliani, suddivisa a sua volta in almeno 4 sottogruppi a cui appartiene giustappunto quello romagnolo o emiliano orientale. La Romagna è dunque a tutti gli effetti una sub-regione dell’Emilia, così come sono sub-regioni il già citato Friuli, il Salento, la Tuscia o la Gallura. Qualcuno si sognerebbe di dire che «Lecce non è in Puglia, ma in Salento»? Eppure qualche buona ragione per sostenere una più marcata differenziazione tra la parlata di Lecce e quella di Bari ci sarebbe. È noto infatti che il dialetto salentino appartenga a un gruppo differente di dialetti (gruppo calabro-siculo) rispetto a quelli parlati nella Terra di Bari e nella Capitanata (gruppo pugliese). Caratteristica questa che, nel caso del dialetto romagnolo rispetto a quello di altri sottogruppi di dialetti emiliani, viene a mancare. Ciononostante forse il peso specifico degli ex membri del CLN romagnolo può avere avuto, in sede di assemblea costituente, un ruolo maggiore di quello dei delegati delle tre province salentine (Lecce, Brindisi, Taranto). Per cui nel testo originario dell’articolo 131, che elenca le 19 costituende regioni dell’Italia repubblicana, compare “Emilia-Romagna” e non “Puglia-Salento”. Ma rimane un’ipotesi.
Obiezione dei romagnoli con più marcato orgoglio identitario: «ma la Romagna ebbe una sua specificità storica, come erede dell’Esarcato di Ravenna prima e dei territori sottoposti alla sovranità del papato poi, a differenza di quanto avvenne nei ducati emiliani». Risposta: «ciò è senz’altro vero, ma se si dovesse badare a tutte le specificità storiche, allora le province di Bergamo e Brescia, più il territorio di Crema, dovrebbero essere chiamate “Venezia Occidentale” e la Toscana dovrebbe assumere la denominazione di “Toscana-Lucchesia”». E poi, sia detto per inciso, ma non pare affatto che il dominio papale in Romagna, particolarmente incisivo dopo il passaggio del duca Valentino (Cesare Borgia), sia mai stato particolarmente amato dalle genti native. Ad ogni buon conto non si sostiene di dover abdicare dall’uso del toponimo “Romagna”, che ha valore storico e va preservato da ogni forma di ignoranza e oblio, soltanto si dovrebbe usarlo in modo più corretto e pertinente. E dunque sarebbe il caso che la regione che ha come capoluogo Bologna tornasse a chiamarsi soltanto “Emilia” e non già “Emilia-Romagna”.
Per qualche altra ragione che non è dato al momento conoscere lo stesso articolo 131 della Costituzione, come si è già scritto, reca la definizione “Abruzzi e Molise”. Si scelse quindi non solo di mantenere la denominazione al plurale per l’Abruzzo, ma anche di frapporre tra i nomi dell’una e dell’altra regione una congiunzione invece del trattino. Quasi a voler rimarcare più che altrove una distinzione tra due regioni che, in fin dei conti, e come ormai si spera che sarà stato ben compreso, si somigliano molto più di quanto appaia. Per il resto ci sentiamo di augurare lunga vita al Molise.
- Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2007, 396 p. [cit. alla p.332] ↩︎
- Milena Gabanelli, Francesco Tortora, “Il Molise torna in Abruzzo? L’autonomia è fallita”, in Corriere della Sera, 11 marzo 2024 ↩︎
- Il riferimento, abbastanza ovvio e scontato, va a certe riscritture costituzionali, qual è stata la mai abbastanza vituperata revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione, nel 2001, e a leggi mal concepite, qual è il caso dell’altrettanto esecrabile legge 56/2014 recante Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni. ↩︎
- Giuseppe Bettoni, Dalle Province all’area vasta: un’incoerenza italiana, in Ida Nicotra (a cura di), Le province dall’Unità alla Repubblica delle Autonomie, Roma, Donzelli, 2012, pp.91-95. ↩︎
- Gran parte delle informazioni sulla genesi storica delle due regioni sono tratte dalle seguenti voci:
Cesare Rivera, Roberto Almagià, Camillo Giulio Bertoni, Ugo Antonielli, Ignazio Carlo Gavini, Giulio Fara, Abruzzo, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, vol.I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1929;
Paolo De Grazia, Cesare Rivera, Molise, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, vol.XXIII, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1934.
Consultate in rete agli indirizzi internet: https://www.treccani.it/enciclopedia/abruzzo_(Enciclopedia-Italiana)/; https://www.treccani.it/enciclopedia/molise _(Enciclopedia-Italiana)/ ↩︎ - Sulle imprese normanne nel Mezzogiorno d’Italia: Pierre Aubé, Roger II de Sicile, Parigi, Payot & Rivages, 2001, 526 p.; trad. italiana, Ruggero II Re di Sicilia, Calabria e Puglia. Un normanno nel Mediterraneo, Roma, Newton & Compton, 2002, 361 p. [cit. alle pp.21-58] ↩︎
- Sullo Stato feudale dei conti Borrelli: Franco Valente, Un misterioso sarcofago nella chiesa di Pietrabbondante (23 dicembre 2008); https://www.francovalente.it/2008/12/23/un-misterioso-sarcofago-nella-chiesa-di-pietrabbondante/ ↩︎
- Secondo alcune fonti l’investitura ad Alcek (Alzeco) sarebbe invece stata concessa dal figlio di Grimoaldo I, Romualdo, nella veste di reggente del ducato di Benevento. Claudio Azzara, Romualdo, duca di Benevento, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol.LXXXVIII, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2017; consultato sul sito internet: https://www.treccani.it/enciclopedia/duca-di-benevento-romualdo_%28Dizionario-Biografico%29/
Tra le curiosità va annoverata la statua dedicata al khan Alcek (Alzeco), inaugurata il 7 giugno 2016, alla presenza dell’ambasciatore di Bulgaria in Italia e del sindaco di Veliki Preslav, a Celle di Bulgheria (provincia di Salerno), un piccolo paese del Cilento posto anch’esso in un’area interessata da stanziamenti bulgari.
https://www.infocilento.it/2016/06/05/nel-cilento-arrivano-bulgari-martedi-lo-scoprimento-della-statua-del-principe-khan-alzeco/ ↩︎ - David Abulafia, Frederick II. A Medieval Emperor, London, Allen Lane, 1988, 480 p.; trad. italiana: Federico II. Un imperatore medievale, Torino, Einaudi, 1990, 404 p. [cit. alla p.VI] ↩︎
- Pierre Aubé, Ruggero II Re di Sicilia, Calabria e Puglia. Un normanno nel Mediterraneo, op.cit., p.221 ↩︎
- David Abulafia, The Western Mediterranean Kingdoms 1200-1500. The Struggle for Dominion, Londra, Addison Wesley Longman, 1997, 320 p.; trad.italiana, I regni del Mediteranneo occidentale dal 1200 al 1500. La lotta per il dominio, Roma-Bari, Laterza, 2001, 340 p. [cit. alla p.211] ↩︎
- Giuseppe Caridi, Gli Aragonesi di Napoli. Una grande dinastia del Sud nell’Italia delle Signorie, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2021, 304 p. [cit. alle pp.199-200] ↩︎
- Carlo Capra, Gli italiani prima dell’Italia. Un lungo Settecento, dalla fine della Controriforma a Napoleone, Roma, Carocci, 2014, 464 p. [cit. alla p.224] ↩︎
- Ibidem ↩︎
- Francesco Jovine, “Il Molise”, in Attraverso l’Italia. Illustrazione delle regioni italiane – volume XIV. Abruzzo e Molise, Milano, Touring Club Italiano, 1948, 240 p. [cit. alle pp.199-200] ↩︎
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