Riflessioni sulle ombre di Acca Larenzia
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Italia
Roberto Cresti
Ricercatore e docente di storia delle arti del Novecento all’Università di Macerata
Roberto Cresti in un elzeviro per Democrazia futura “Affetto notte”, esaminando il retroterra storico-culturale, ma anche psicologico e morale, degli eredi dei seguaci della Repubblica Sociale Italiana, propone a freddo alcune “Riflessioni sulle ombre di Acca Larenzia”. Secondo Cresti “[…] il passato è trascorso ma non è passato. Si perpetua anzi in una memoria profonda che non ha più bisogno di forme marziali perché è tutto nel divenire della vita, che è sempre al di là del bene e del male. In questi tempi difficili dobbiamo ritrovare la nostra identità: la parola, la politica, il dialogo con la nostra storia, eliminando i vicoli ciechi che essa ha avuto e ritrovando in tutte le ideologie le potenzialità che avevano e che hanno perduto per debolezze umane davvero «troppo umane». In questa «notte del mondo» dovremmo prenderci il rischio di sostituire un avvenire senza futuro a un futuro senza avvenire.
Chi darà il «dietro frunt» ai vivi e ai morti di Acca Larenzia avrà mostrato – conclude lo storico dell’arte – un grande coraggio e un vero ‘amor di patria‘”.
16 aprile 2024
Schwarze Milch der Frühe…1
Paul Celan
Della Resistenza, che aveva fatto in prima persona con le armi in pugno, Giorgio Bocca diceva:
«Abbiamo vinto noi e gli abbiamo dato la pensione. Se avessero vinto loro ci avrebbero dato la camera a gas».
Chiunque sapeva, e sa, ch’era proprio così: se «loro», i nazifascisti della Repubblica Sociale Italiana, avessero prevalso, i loro antagonisti non avrebbero avuto scampo. Ma ripetere questa quasi ovvietà, che, ripetuta, appare comunque tenace e vera come i vini della terra piemontese che aveva dato i natali a Bocca, non mira a liquidare con un tratto di penna la vicenda storica della RSI, ma a cercare il senso di eventi d’oggi, i quali si ripetono da tempo, come quelli di Roma, in via Acca Larenzia, Quartiere Tuscolano, dove circa un migliaio di già militanti del Movimento Sociale Italiano, ideali reduci repubblichini (l’anagrafe infatti ha ormai azzerato quelli reali) convergono all’imbrunire, una volta all’anno, da varie direzioni per strade e stradine, e si radunano onde onorare, col saluto romano, inquadrati in ranghi militari, i caduti più o meno recenti della loro parte. Nel caso specifico la morte di tre giovani iscritti al suddetto Movimento Sociale, raggiunti nel 1978, davanti a una sezione territoriale di quel partito, dai colpi di pistola di un commando dell’ultrasinistra e, uno di essi poi, da quelli dei Carabinieri.
Strana immagine quella che appare sul video: una massa nera ordinatissima d’uomini, che in Italia non si vede così compatta neppure nelle parate delle tre Armi per le Feste della Repubblica, simile a un «blocco» di militari in una caserma nel giorno del Giuramento, come un tempo si usava all’inizio del servizio di Leva. Un rituale che chi scrive ha vissuto più volte conducendo, da ufficiale, il «blocco» a lui assegnato. Quelle «camicie nere» si sentono «di Salò» perché sono state convinte di discendere, non dal fascismo, ma dal nazifascismo, che forse non esiste come ideologia, ma che, da premesse affermatesi nella seconda metà degli anni Trenta, ha dato vita, nel corso della Seconda guerra mondiale, a un fronte di esclusiva consistenza militare, che si è mantenuto al termine delle ostilità fra i suoi reduci e i loro discendenti. Un fenomeno affine a quello successivo delle Brigate Rosse rispetto all’entropia cui è andato soggetto il movimento comunista internazionale nel dopoguerra fino al disarmo ideologico del Partito Comunista Italiano, dai brigatisti già presentito.
Si può tener conto, infatti, della dinamica politica del fronte missino negli anni del dopoguerra, con la confluenza, in esso, di reduci monarchici e di altri gruppi della destra italiana, ma il cardine di ogni accostamento o secessione sarebbe rimasto la Repubblica Sociale, fondata nel 1943 e naufragata con la definitiva sconfitta militare del nazifascismo nel 1945. La fiamma tricolore è fin dalle origini un simbolo che rinvia alla tomba di Benito Mussolini, come a una sorta di luce permanente al di là del tempo, ma che in realtà non rischiara altro che quel breve torno d’anni: 1943-1945.
È questo rimando che fa risentire vera la affermazione icastica di Bocca,
«Abbiamo vinto noi e gli abbiamo dato la pensione. Se avessero vinto loro ci avrebbero dato la camera a gas»,
non tanto per la questione, innegabile, della pensione che, in vario modo, è stata effettivamente data anche a chi era stato combattente «dall’altra parte» (compresi, in seguito, i deputati eletti per decenni al Parlamento nazionale d’una repubblica che non era la loro, e alla cui Costituzione non avevano dato ovviamente alcun contributo, ma di cui recepivano, senz’eccezione, diritti e privilegi sanciti per legge, compresa la libertà di essere votati), ma perché la questione della «camera a gas» resta una realtà storica da cui emerge, se ci si riflette davvero, non la forza, ma la disperazione di una parte, quella appunto nazifascista, che è difficile persino definire politica, nel senso che non avrebbe mai potuto proporsi, a un qualsivoglia antagonista, come un soggetto politico in vista di una risoluzione negoziata del conflitto civile in Italia. L’unico tentativo di riassorbirla in una dimensione civile venne fatto da Palmiro Togliatti, che istituì nel PCI la Commissione per i reduci di Salò.
Troppo grande, del resto, era stato il naufragio. Da troppo in alto erano caduti il regime fascista e il suo «Duce». In poco più di due anni, dal 1940, erano andate perdute tutte le conquiste coloniali più o meno recenti. l’Esercito, la Marina e l’Aeronautica erano stati travolti o messi in grave difficoltà fin dai primi contatti col nemico. Piani militari improvvisati, senza criterio né mezzi, come il tentativo di invadere la Grecia, fallito tre mesi dopo la entrata in guerra, avevano rivelato l’inettitudine, spesso la ottusità, di Stati Maggiori composti d’alti ufficiali, che, nonostante le ripetute sconfitte, pensavano di poter mantenere la loro posizione al vertice delle forze armate in virtù della copertura politica fascista: il nome che li compendia tutti appare, tristemente, quello del Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che, quando passò a miglior vita, nel 1955, era presidente del Movimento Sociale Italiano.
Il peggio è che, in primo luogo, erano stati traditi coloro che dicevano, con fede, «con Mussolini si vince», ed erano partiti volontari per il fronte (erano tanti) con l’idea di partecipare a una rivoluzione antioccidentale, cioè antibritannica – la «guerra del sangue contro l’oro» –, e avevano dato prove di sacrificio incredibili, si rammenti un intellettuale come Berto Ricci (a cui Giuseppe Ungaretti dedica Auguri per il proprio compleanno nel Sentimento del tempo, che si chiude con la parola «sofferenza») tagliato in due dalle raffiche di uno Spitfire nel 1941 a Bir Gandula, in Cirenaica.
Traditi perché mandati a combattere con un armamento e un equipaggiamento tragicamente ridicoli, quasi senza mezzi di trasporto, senza una logista all’altezza delle durissime prove ch’essi dovevano affrontare, senza un’effettiva integrazione tattica fra Esercito, Aeronautica e Marina, e con un alleato, la Germania nazista, che, invece, poteva contare su formidabili, per i tempi, risorse tecnico-militari, così da fare apparire i nostri reparti, con poche eccezioni, una massa di uomini mandati allo sbaraglio in attesa che il «Duce», il quale «aveva sempre ragione» (una battuta di Leo Longanesi accolta invece, al tempo, senza alcuna ironia), potesse, come dichiarava egli stesso, sedersi «con qualche migliaio di morti» al tavolo delle trattative di pace.
Il che segnala la clamorosa cecità del fondatore dell’Impero nel non aver compreso che, con la sconfitta della Francia, nel 1940, la guerra non era stata vinta dalla Germania, ma sarebbe anzi proseguita, ché dietro l’Inghilterra, pur stremata, vi era il titano statunitense, e che, perciò, nel combattere necessitava di armamenti efficienti, organicamente collegati all’industria, e non avrebbe avuto più un carattere politico (lo si era già visto negli ultimi due anni della Grande Guerra), ma tecnico: che la tecnica, cioè, era l’unico linguaggio parlato ormai dalla storia del XX secolo e che non vi sarebbero state più eccezioni. Solo la forza, esercitata con efficienza e continuità, costituiva l’essenza, in realtà simmetrica, degli schieramenti in lotta mortale fra loro per la conquista del mondo: una finalità di cui spesso ci si dimentica.
Questo smascheramento del fascismo, tanto da far apparire in esso una debolezza assoluta, laddove si era invece ostentata la forza «di otto milioni di baionette» (e altro), rivela, a parte le colpevoli deficienze dei vertici militari, l’inesistenza, in termini comparativi con gli altri soggetti del conflitto, alleati o nemici, del sistema industriale italiano, facendo apparire il fascismo un movimento politico ottocentesco che sconfina, per mancanza di mezzi, nel nichilismo e nella mistica del sacrificio «oltre il destino».
È questa «in-consistenza» quasi metafisica, che appare, e va detto con il massimo rispetto, nell’eroismo senza speranza dei Granatieri di Savoia a Cheren, degli Alpini della Julia sul Don, dei paracadutisti della Folgore a El Alamein, nell’impresa condotta coi «maiali» nella baia di Alessandria, nell’incursione aerea comandata da Ettore Muti fino a Manama per bombardare i pozzi petroliferi utilizzati dagli inglesi; è in questa «in-consistenza», i cui tratti eroici hanno stupito i nostri nemici, la radice della realtà psicologica da cui, sulle nevi euroasiatiche, fra le gole balcaniche, nei deserti africani o negli arcipelaghi mediterranei, è nato l’anelito al riscatto della Resistenza e quello, uguale e contrario, improntato a un cupio dissolvi totale, della Repubblica Sociale Italiana.
Le premesse dell’uno e dell’altro, in una fase ove essi erano ancora del tutto indistinguibili, ma segretamente operanti, si trovano, dalla metà degli anni Trenta, nel sole della impresa africana d’Etiopia, e nella conseguente fondazione dell’Impero. Il successo, di risonanza in quel momento enorme, aveva comportato un mutamento nella psicologia stessa e nell’immaginario fascista, in cui faceva breccia il piacere di una brutalità senza procedenti (basta pensare soltanto al nome, La disperata, dello squadrone aereo comandato da Galeazzo Ciano, di cui era un pilota anche il citato Muti, che, con spirito da safari, colpiva a terra un nemico privo di un’arma aerea eguale, e che veniva celebrata sulle copertine della Domenica del Corriere o assimilata, dopo l’impiego dei gas asfissianti, in certe atroci vignette, a un milite legionario con in mano il flit per gli insetti) e, al medesimo tempo, l’illusione di poter affrontare, in quel momento senza immediate conseguenze, ogni ostacolo e avversario. C’è un prima e un dopo la proclamazione dell’Impero, cui fa riscontro l’avvicinamento progressivo alla Germania hitleriana e l’ideale dello Stato totalitario. Un fascista della prima ora come il ricordato Longanesi diceva
«sbagliando si impera».
Era cambiata davvero tutta la psicologia italiana: il contatto con l’Africa era stato devastante. Lo si potrebbe dire un vortice di Eros e Thanatos. La «grande proletaria» pascoliana, divenuta padrona, saggiava una realtà umana fatta di sottomissione e di forza primitiva ove le donne erano una sorta di calamita irresistibile, una attrattiva che faceva saltare i freni inibitori e, col sesso, stimolava una crudeltà spesso fine a sé stessa, un senso di superiorità razziale che non aveva precedenti. Qualcuno vi vedeva una missione laica (è esistito anche un umanesimo coloniale onesto, come quello adombrato da Giuseppe Berto in certi racconti della Colonna Feletti), ma proprio quella nuova psicologia si sarebbe consolidata in tutte le manifestazioni del Regime e, in modo progressivo, nella intera comunità nazionale. Le leggi razziali del 1938 furono ricalcate su quelle che stabilivano l’apartheid nell’Impero.
Dall’Africa l’avvicinamento al Terzo Reich trovò così una via di facilitazione, una corrispondenza nel segno della volontà dominatrice, che non si fermava davanti a niente perché credeva disporre di una forza inesauribile e d’esser mezzo, addirittura, di un destino epocale. L’ostilità della Società delle Nazioni verso il nostro Paese fece il resto. Eppure, mentre avrebbe dovuto sentire il proprio primato, Benito Mussolini percepiva con preoccupazione la crescita rapidissima della potenza militare tedesca senza più freni politici, dovuta a uno straordinario incremento della produzione industriale, di cui le Olimpiadi di Berlino del 1936 furono la vetrina. Le formidabili riprese neo-oggettive, d’insieme e di particolari, di Leni Riefenstahl in Olympia mostrano l’evento quale prosecuzione del Trionfo della volontà (Triumph des Willens), girato nel 1935, che esibiva già i raduni oceanici e i riti del partito nazista a Norimberga come l’alba di un nuovo «tipo tedesco», d’un tecnico-operaio-atleta-soldato più potente del «tipo romano» vagheggiato in Italia, che aveva ancora evidenti caratteri rurali.
A dirla in breve: dal 1936 il fascismo prende a «nazificarsi». Mussolini si scopre il parente «povero» che imita in tutto l’allievo del giorno prima, ed egli stesso diviene, come diceva Margarita Sarfatti, la «caricatura» di quelli, cioè i nazisti, che l’avevano eletto inizialmente a loro modello. Si trattò di una rincorsa che ha un documento ancora ben visibile, in architettura, nello stile littorio elaborato da Marcello Piacentini, che pare misurarsi continuamente con l’inarrivabile titanismo classicista di Albert Speer nel Reich. Squallido punto d’approdo, in conseguenza d’una dipendenza progressiva, anche economica, dalla Germania, furono le ricordate leggi razziali, emanate nel 1938, quand’era già in corso, non a caso, la prima esperienza di alleanza italo-tedesca sui campi di battaglia nel quadro della guerra civile spagnola.
Iniziava così un’eclisse che assomiglia al «buio a mezzogiorno» di cui parla Arthur Koestler a proposito dei coevi processi staliniani, le cosiddette «purghe». In apparenza meno violente, le vicende italiane non mancano di alcuni casi emblematici come, già alla fine del 1935, la morte misteriosa di un intellettuale in vista come Edoardo Persico (forse vittima dell’OVRA), la messa ai margini della architettura razionalista patrocinata da Giuseppe Pagano, la caduta della Sarfatti, in volontario esilio sudamericano dopo le leggi del 1938, Sarfatti che, nonostante la sua militanza fascista fin dalla prima ora e il suo grande contributo culturale al Regime sulla scena internazionale, fino a essere ricevuta più volte alla Casa Bianca, la colpivano in quanto ebrea. Inoltre, nel 1939, la chiusura di Omnibus del pur fascista Longanesi, amico di Italo Balbo, in odore di eresia per una vicenda, quasi privata, fra gerarchi.
Ma l’aspetto intellettualmente più triste degli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Seconda guerra mondiale è quello del razzismo ideologico della rivista La difesa della razza, fondata nel 1938 da Mussolini stesso, e diretta da Telesio Interlandi, che aveva come redattore capo Giorgio Almirante (futuro segretario del MSI). Qui le note più dolenti, e definirle così è un eufemismo, sono rappresentate da quelli che palesemente non erano d’accordo con l’antisemitismo, faccio per tutti il nome di Massimo Lelj, ma che, non potendo dirlo per non pagarne le conseguenze in termini di carriera o privilegi, si arrampicavano sugli specchi di argomentazioni risibili e ambigue (Lelj diceva che non era lo spirito semita a doversi combattere ma la maschera che esso aveva assunto storicamente con la rivoluzione francese e i suoi effetti in Europa) o che non si rendevano conto, malgrado il loro livello culturale, è il caso di Julius Evola o di Massimo Scaligero, delle conseguenze che esso avrebbe avuto.
Per eccesso o per difetto la squallida sardana di costoro e dei tanti che si prestavano al gioco ricorda il verso di Eugenio Montale
«la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue»,
e che si sarebbero trovati imprigionati a oltranza nelle vicende peggiori del Regime. Si origina forse anche da questo un livore che li avrebbe messi contro tutto e tutti.
Cesare Pavese ricordava di aver pensato allora: «fermati fascismo». Ma il fascismo non si sarebbe fermato, non lo poteva, trascinato dalla Germania fuori dalla storia per dar luogo a una palingenesi dell’Europa, esso correva verso la propria distruzione. Che, per Mussolini, era in realtà un modo psicotico di risolvere, in una ordalia col destino, il problema che gli toglieva il sonno, ovvero quello relativo al suo successore (non vi si pensa mai): chi ne sarebbe stato degno? Nessuno, egli in realtà pensava, fino a trasformarsi, rispetto alla guerra, in una sorta di capitano Achab che, scongiurato dai suoi stessi leali sottoposti, di «ritornare a casa» senza affrontare la lotta finale con Moby Dick, si getta a capofitto nell’impresa, riemergendo, ormai morto, a Salò, in groppa al Leviatano, per fare un gesto ai pochi sopravvissuti di seguirlo.
Mussolini diceva di avere tratto il fascismo dall’inconscio collettivo italiano, ma in quello stesso inconscio aveva instillato, dal 1936, un’ombra devastante e funerea. Come se da allora bisbigliasse all’orecchio di milioni di persone adoranti e fiduciose: «Dovete morire».
Era lo stesso messaggio che Adolf Hitler avrebbe recitato fino in fondo ai tedeschi. Se si segue la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 ci si accorge che la folla esulta alla parola «guerra» senza sapere a chi la si facesse, e che, dietro le spalle di Mussolini, s’intravvede la figura spettrale d’un altro Maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio, che pare una ripetizione in uniforme dell’Urlo di Edvard Munch a bocca chiusa.
Il sole che splendeva su Roma in quel giorno era un sole nero. E tale sarebbe rimasto fino a Piazzale Loreto, sempre più nero e ad intervalli sempre più desolati e oscuri, giungendo, disfatta dopo disfatta, crollo dopo crollo, al 25 luglio 1943, data nella quale il regime fascista giaceva già sfracellato sul pavimento della storia, in mille pezzi. Pezzi fra i quali avrebbero preso ad aggirarsi quelli che ne avevano avuto tutto, a cominciare dal Re e Imperatore, Vittorio Emanuele III, e il suo uomo di fiducia, il citato Badoglio, capace di inviare, alle trattative di pace separata con gli anglo-americani, un generale in borghese, nella cui figura albeggia il primo democristiano.
Giunti a quel punto era evidente che l’Italia intera era andata in pezzi sui due opposti fronti in cui si divideva il suo lungo territorio. Ma, in quello degli Alleati, vi era almeno la speranza di un ipotetico, per quanto problematico e nebuloso futuro (appostato con acutezza temibile da Palmiro Togliatti e dai suoi, tornati per vis sovietica in lizza dopo esser stati a lungo emarginati e aver disprezzato le altre forze antifasciste), mentre su quello nazifascista non vi era che una assoluta e persino risentita sottomissione ai comandi tedeschi che consentivano alle milizie agli ordini del Maresciallo Graziani, anch’egli riemerso dall’abisso delle proprie catastrofiche sconfitte, di svolgere nei confronti della popolazione civile una funzione assimilabile, per ennesima nemesi africana, a quella repressiva degli Ascari utilizzati contro gli Etiopi.
Ascari dei tedeschi in casa nostra. Ecco l’origine della crudeltà palesata dai reparti della RSI collaboratori di quelli della Wehrmacht specializzati nello sterminio dei «partigiani» (da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto) o di supporto ai rastrellamenti degli ebrei nelle città o anche per propria zelante iniziativa, con la relativa pratica sistematica della tortura dei prigionieri, nella quale si specializzarono le tristemente note «Banda Carità» e «Banda Koch», dal nome dei rispettivi titolari. Proprio l’uso d’una violenza senza limiti segna la differenza (salvo, purtroppo, le vicende del fronte balcanico, che hanno caratteri «africani») da tutto quello che il nostro esercito e anche i reparti della milizia fascista a esso aggregati avevano fatto fino al 1943. Del fascismo stesso restava ben poco, solo le convenienze e una rabbia infinita.
C’è un abisso fra le efferatezze ora ricordate e quello che si legge, per esempio, in Guerra in camicia nera di Giuseppe Berto, ed è davvero emblematico che non esista una letteratura «nazifascista» neppure in termini di testimonianza, più o meno delirante, del tempo di Salò, come quella che in Francia hanno lasciato di Vichy noti collaborazionisti, come Louis-Ferdinand Céline, Pierre Drieu La Rochelle, Robert Brasillach o Lucien Rebatet. Non vanno neppure dimenticati eventi come il processo di Verona costato la vita ad alcuni firmatari della mozione Grandi della notte del 25 luglio, fra cui Galeazzo Ciano, e l’esplosione della materia post-fascista fra gli esuli, come Dino Grandi stesso, emigrato in Portogallo, o Giuseppe Bottai, arruolatosi nella Legione Straniera, e figure come Junio Valerio Borghese, al comando della X Mas. Se si escludono i memoriali e i diari, letteralmente da Salò non giunge voce.
Neppure vi sono tracce artistiche, a parte alcuni film certo non memorabili, e i manifesti di propaganda tra i più lugubri che mai siano stati concepiti. Osservandoli viene davvero da pensare alle parole di Giorgio Bocca:
«Abbiamo vinto noi e gli abbiamo dato la pensione. Se avessero vinto loro ci avrebbero dato la camera a gas».
Punizione, quest’ultima, che appare a posteriori, come nei romanzi di Donatien-Alphonse-François de Sade, quella inflitta dal carnefice alla propria vittima sapendo di essere destinato egli stesso a subirla (ne è documento psicologico, per eterogenesi dei fini, il film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, del 1975).
«Ormai non ci vuole più nessuno»,
dice in un racconto di Berto la giovane repubblichina al partigiano, sanguinante per le torture subite, che attende d’essere fucilato, dopo aver fatto con lui l’amore.
Eppure, attraverso il già Movimento Sociale Italiano, vi sono ancora oggi dei reduci elettivi di Salò. Stupisce? Sì, stupisce per l’in-consistenza di contenuti e di valori di quell’elezione (oltre all’odiosa compromissione morale che quel reducismo comporta con la Shoah, e che, nei più spudorati, magari assurti ad alte cariche istituzionali, fa riemergere l’ipocrisia che fu di certi collaboratori reticenti della Difesa della razza), e soprattutto perché vi si riconosce ancora il proseguire del cupio dissolvi della guerra fascista, con le lusinghe fatte alla morte a causa della vita che non si è avuta in sorte di vivere. Il passato impossibile e il futuro impossibile hanno generato, nel secolo scorso, quella «terra di nessuno» nella quale si sono scontrati, negli anni Settanta-Ottanta, a colpi di pistola e di morti, i terroristi neri e rossi; con in mezzo le Forze dell’ordine che, per interne risonanze, non sono sempre state favorevoli all’ordine.
Il legame con la morte era rimasto latente nel Ventennio per poi riemergere al suo epilogo, e oggi risuona ancora nelle adunate come quelle notturne di Acca Larenzia, ove si dice «presente» come facevano gli Arditi, nella Grande Guerra, dopo che era stato ricordato il nome di un caduto in combattimento. In questo nulla vi è di male.
Onorare i morti è indice di saggezza, ma deve essere anche un modo per lasciare andare i morti stessi a un’altra vita, non per dimenticarli: bensì per porre fine alla loro morte. L’esatto opposto di chi li trattiene nel mondo per perpetuare una guerra senza fine.
Nell’ultimo suo film, Sogni, del 1992, Akira Kurosawa ha girato un episodio nel quale un ufficiale dell’esercito giapponese incontra, proveniente da un misterioso tunnel, un proprio soldato morto, che non sa di essere tale, e che gli rende onore sugli attenti col «presentatarm». A quel soldato l’ufficiale sente il dovere di dire la verità, prendendosi la responsabilità tremenda di riconoscere di aver egli stesso dato l’ordine sbagliato che ne ha provocato la morte. Di lì a poco, nello stesso tunnel, risuona l’incedere dell’intera compagnia ch’egli comandava al fronte, e che, per quello stesso ordine sbagliato, ha subito lo stesso destino di morte. A quel punto, davanti al reparto schierato, l’ufficiale dà ai «suoi morti» l’ordine di far «dietro frunt», e l’episodio si chiude col rumore dei passi che svaniscono pian piano nel tunnel.
In tal modo il passato è trascorso ma non è passato. Si perpetua anzi in una memoria profonda che non ha più bisogno di forme marziali perché è tutto nel divenire della vita, che è sempre al di là del bene e del male. In questi tempi difficili dobbiamo ritrovare la nostra identità: la parola, la politica, il dialogo con la nostra storia, eliminando i vicoli ciechi che essa ha avuto e ritrovando in tutte le ideologie le potenzialità che avevano e che hanno perduto per debolezze umane davvero «troppo umane». In questa «notte del mondo» dovremmo prenderci il rischio di sostituire un avvenire senza futuro a un futuro senza avvenire.
Chi darà il «dietro frunt» ai vivi e ai morti di Acca Larenzia avrà mostrato un grande coraggio e un vero «amor di patria».
- Latte nero dell’alba ↩︎
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