Sanremo 2024, eppure sono solo canzonette
Tredici/B Techné Storie di media e società
Guido Barlozzetti
Conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore
Lunga analisi dedicata alla 74esima edizione del Festival di Sanremo. Un rito totalitario: “stiamo parlando di una creatura mostruosa, di un corpo televisivo che si espande e contagia il palinsesto di Rai 1, con una pianificazione che asseconda la creatura e ne indirizza tutto lo sviluppo: le anticipazioni che servono a montare l’evento, la manifestazione del monstrum e poi la lunga coda degli effetti”. Un’autentica bulimia televisiva, una imponente polluzione transmediatica e forse l’ultimo alibi di quello che una volta chiamavano Televisione.
Verrebbe da dire come il malcapitato davanti alla melassa/blob che sta tracimando ovunque:
“È la cosa più orribile che abbia mai visto!”.
Eppure sta lì, sempre più grande, sempre più lungo e invadente, una scheggia a tempo pieno piantata nel calendario della televisione che fu generalista.
Per una settimana capace di ingoiare l’agenda di giornali e televisioni e di rimbalzare sulle radio, e adesso anche con la propaggine Web, quella dei social che non possono non dire la loro, farsi le classifiche personali, osannare o rigettare nella polvere questo o quello, e quella delle app musicali.
È passato il Festival numero 74 e lo abbiamo archiviato
Non c’è bisogno di dire nemmeno Festival di Sanremo perché quello è, una ricorrenza incardinata nel calendario della televisione, il più amato dagli italiani come si diceva una volta di una cucina. Un luogo comune entrato anche nel linguaggio comune di cui qualcuno avrebbe potuto anche ricordarsi visto che fra le co-conduttrici, si chiamano così ormai, che nessuno si azzardi a tirare fuori quella storia delle vallette, è riapparsa pimpante e sgambettante Lorella Cuccarini, una delle ultime sopravvissute di un mestiere presento-canto-ballo che una volta faceva il varietà.
È passato e nonostante ormai sia un’abitudine consolidata, ancora una volta viene da chiedersi perché mai si costruiscano cinque serate dalla lunghezza spropositata, più o meno sei ore dal martedì al sabato, praticamente 30 ore di televisione se uno spettatore avesse la passione e la pazienza o l’obbligo come Alex in Arancia meccanica di vederle tutte. Perché? E perché 15 milioni di spettatori – sia pure nelle medie di dati dell’Auditel – si siedono a seguirlo con puntuale dedizione?
Un rito totalitario
Intanto, Il gigantismo televisivo. Deve essere una prova dell’esistenza del Festival, più dura più esiste e più diventa reale, più si dilata ad occupare la notte più conferma la sua potenza.
D’altronde stiamo parlando di una creatura mostruosa, di un corpo televisivo che si espande e contagia il palinsesto di Rai 1, con una pianificazione che asseconda la creatura e ne indirizza tutto lo sviluppo: le anticipazioni che servono a montare l’evento, la manifestazione del monstrum e poi la lunga coda degli effetti.
Stabilmente inscritto nell’immaginario del Paese, se ne celebra l’annuale ritorno – come accadeva una volta nell’antropologia delle stagioni, con la primavera in particolare – e se ne rialimenta il mito. Il mito, sì, perché Sanremo vive ed esiste nella realtà parallela di sé stesso, tautologia che veniva certificata da un claim fortunato, Perché Sanremo è Sanremo, in questa edizione sostituito da un gioco di parole con il nome del conduttore, Sanremo si Ama.
Troppo semplice, ormai, dire che si tratta di un rito, l’ipertrofia dice di qualcosa di più, di un eccesso bulimico che sfida ogni resistenza ed è portato da una vocazione totalitaria che non si contratta con nulla e nessuno. Sanremo è l’affermazione di sé stesso e insieme la negazione di tutto quello che è diverso da sé.
Eppure sono solo canzonette! Già, stiamo parlando di un concorso canoro che non dovrebbe incidere come tale nella vita o nel destino del Paese. E tuttavia i 15 milioni sono lì. Sentono il bisogno di partecipare e allora, un passo dopo l’altro. sarà il caso di provare a capire quali possano esserne le motivazioni e il gioco in cui sono prese.
Bulimia televisiva
Questa bulimia ha anche una ragione di palinsesto e di ascolti. Che si arrivi almeno fino alle due della notte perché quello è il limite della giornata misurata dall’Auditel, che si arrivi a quel confine pur di non lasciare margini, e dunque tirarla più lunga che si può per alzare più che si può lo share e dunque contribuire con questo blockbuster a tutta una stagione di ascolti. Sul campo di battaglia degli ascolti che sventoli solo la bandiera di Sanremo!
D’altronde, è una tendenza inarrestabile quella di spostare l’inizio del prime time che oggi oscilla più o meno intorno alle 21.30 e non sembra che ci siano avvisaglie perché si anticipi un po’, anzi.
Sanremo, da questo punto di vista, estremizza un trend che appartiene a ciò che resta, dai varietà ai talent-show, della prima serata, il suo orologio è vorace e inarrestabile. E la durata diventa un elemento dello stesso discorso del programma, basti pensare ai duetti tra Amadeus e Fiorello sull’ora in cui dovrebbe concludersi la serata per lasciare il testimone a Viva Rai2.
Un coitus annuale con il pubblico. Trecentosessantacinque giorni divisi fra l’attesa sempre più alimentata dei media in un countdown irresistibile e poi un lento smaltimento dell’energia profusa, giusto il tempo per ricominciare in attesa del prossimo.
Poco importa che la televisione non sia più la stessa, che i canali si siano moltiplicati e soprattutto che si vada espandendo il territorio delle offerte a pagamento e soprattutto dei cataloghi smisurati delle piattaforme. Sanremo ribadisce la sua identità ipergeneralista e peraltro nella centralità analogica del Teatro Ariston si prolunga nel digitale dei social, flusso e interazione di conversazioni, contenitore della chiacchiera che il Festival produce, ma non fino al punto di mettere in discussione la grande cerimonia con tutti i rituali di partecipazione che la caratterizzano.
Il corpo che abbiamo definito totalitario salta al di là del perimetro dello spettacolo e si rigenera nella virtualità della rete. Accade, lo sappiamo, anche per le serie televisive sulle quali ormai si ragiona in termini di ecosistema, ben oltre la tradizionale dimensione testuale.
Ebbene, Sanremo questo è, una imponente polluzione transmediatica e forse l’ultimo alibi di quello che una volta chiamavano Televisione. E anche del servizio pubblico?
I vecchi e i giovani
Che ci sia della deliberata perversione in tutto questo lo dimostra anche l’aumento delle canzoni in gara portate a trenta, una quantità anch’essa spropositata, un intero juke-box rovesciato addosso allo spettatore.
Trenta canzoni la prima serata poi divise per due e le metà ripartite nelle due serate successive, poi lo show dei duetti e infine le trenta che ritornano nella puntata decisiva e, non bastasse, si riducono a cinque che vengono riascoltate per estrarre alla fine dal cilindro dei voti quella che vince.
È così che il Festival diventa una palestra per un test sotto sforzo a cui sottoporre sé stesso e lo spettatore, e fare in modo che quei motivi gli entrino nella testa, quanto basta perché poi li vada a cercare alla radio o a trovarli sulle piattaforme.
Trenta canzoni dove c’è un po’ di tutto, il vecchio e il nuovo, il trend e la nostalgia, la tradizione e la trasgressione.
D’altronde un Festival totalitario questo deve fare. Che gli Italiani si concentrino almeno per una settimana sul un Festival di canzoni, che ha la virtù di fare bene sia alla televisione, sia alle canzoni.
Quali? Anzitutto, le tante versioni di questo gergo giovanile, il rap, il suono-cantilena urbane anche indie, che sufficientemente decantato e armonizzato arriva dai furenti bassifondi metropolitani debitamente riconfezionato sul palcoscenico anestetizzante del teatro Ariston, magari anche con l’eco distorcente dell’autotune.
Poi, le reliquie del passato, infiocchettate e plastificate, pronti a tirare fuori un motivetto che le rivitalizzi e le faccia vivere per un’altra stagione.
Lo spartito di Sanremo è un elastico che non si rompe, può andare da 18 anni agli ottuagenari
Tutti a dire “ma guardate come è azzeccata questa formula, capace di catturare nonni e nipoti”, a ognuno la sua canzone, anche se magari alla fine il bombardamento rischia di essere così pletorico che nella testa tutto si avvolge su tutto, movimento antitetico a quello che invece cerca la canzone che piace e l’interprete più congeniale. In un dispositivo testuale così esteso e affollato, in un mare così totalitario le navigazioni possono essere le più diverse.
E che il piano sia azzeccato lo dimostra la composizione degli ascolti, perché frotte di giovani attirati da beniamini che nessuno dagli adulti dalla mezz’età in su conosce, si siedono davanti alla televisione e parteggiano, fanno il tifo e prolungano sui social preferenze e anatemi.
Ma allora gli attempati? Certo, ci sono anche quelli che vanno a dormire, ma in tanti resistono. E, allora, viene da pensare che il Festival sia uno spettacolare esorcismo collettivo e una cerimonia di riconciliazione.
I cinquantenni, i sessantenni, i settantenni e forse più si mettono lì, davanti al televisore, e vedono sfilare I figli e i nipoti che si mostrano nella loro diversità, in un’identità remota, rumorosa, lamentosa, euforica, depressa e energetica, gioie, pene d’amore e la cumbia della noia come nella ballata vincente di Angelina Mango.
Li guardano protetti dallo schermo della televisione, ecco, sono lì davanti, ma immersi in acquario che li addomestica e toglie qualunque barriera che impedisce nella realtà lo scambio, il dialogo, la reciprocità di un riconoscimento.
Non ci sono grida, porte sbattute, vaffanculo, la violenza che vuole offendere e urla un bisogno altrimenti inespresso ma non per questo dormiente e placato.
È questa la virtù di Sanremo, la terapia di gruppo, te li mette davanti quei giovani di cui non capisci quasi nulla, addolorati e sofferenti, che se esalano un lamento lo edulcorano in una canzone, vestiti come tu non oseresti mai, giacche e pantaloni oversize, cappucci, minigonne al limite, creste colorate e mantelli. Sono lì e del tutto inoffensivi, non bucheranno mai la parete dello schermo, fenomeni del circo della canzone guardati degli spalti sicuri della televisione.
E allora i giovani? Loro non hanno conflitti generazionali da risolvere, almeno per quelle sere si ritrovano davanti i campioni della loro battaglia, che gli danno voce e in una canzone esprimono un desiderio che nessuno capisce e finalmente qualcuno si incarica di gridare a tutto il mondo.
È questa l’equazione vincente di Sanremo. Una ritualità intergenerazionale che non è soltanto dovuta al fatto che sono presenti generazioni diverse ma che il Festival funziona da integratore, permette il riconoscimento che non accade nella vita reale, simula una coesistenza chi si offre a chi guarda. Un po’ come al cinema le cui storie funzionano allo stesso modo, non replicano la vita ma mettendola in scena e in una trama – anche nei contrasti più laceranti – le danno un senso.
L’unità degli opposti
Poi ci sarebbe da spiegarne un’altra di equazione che intanto è la verifica sperimentale di un’opposizione apparentemente inconciliabile. Come si fa a tenere insieme la confessione dolorosa di Giovanni Allevi con il ballo del qua qua di John Travolta? Sanremo ci riesce, sfida l’incompatibilità di temi e situazioni. Il conduttore gira l’interruttore e salta da un livello all’altro del discorso. Cambia tono, dal brillante al compunto, guai a mescolare, la risata deve stare dove devono stare le risate, la partecipazione contrita e a mezza voce dove vanno in scena “le cose serie”. Sanremo tutto ingloba, sensibile e totalmente indifferente.
Così tra una canzone l’altra arrivano Ibrahimovic e Federica Brignone, Roberto Bolle, la madre di Giogiò, il ragazzo ucciso a Napoli nell’assurdità di una lite, Stefano Massini e Paolo Jannacci che si esibiscono sulle tragedie delle morti bianche e, appunto, l’artista-pianista segnato da una grave malattia e il divo di Hollywood costretto in un improbabile e irriverente ballo del qua qua. E poi, i protagonisti della fiction, quelli di Mare Fuori, Leo Gassmann interprete di Franco Califano, la stella di Doc Luca Argentero, Sabrina Ferilli con la storia di Gloria e Edoardo Leo con la new entry de Il clandestino.
Il tessuto del festival si apre allo sport, alla fiction, alla cronaca nera, allo spettacolo. Alcuni vengono certamente per un fine promozionale e per la notorietà che li accompagna, vedi le fiction, altri perché la scaletta richiede di variare rispetto allo spartito delle canzoni con le performances degli ospiti, e qui rientra il grande attore a pagamento, John Travolta, che balla – e inciampa nelle scarpe sponsorizzate oltre che in un’esibizione demitizzante – o, Russell Crowe, che canta e racconta delle radici italiane. Perché Sanremo è centripeto e anche l’internazionalità la va cercare in quella che ha parentele con la Penisola. Poi, c’è il versante della cronaca che ha un risvolto sociale e chiama al tema dei valori. Qui, si esce dall’intrattenimento e si entra in un’altra stanza, lo spazio della testimonianza, diretta, personale, per cui salgono sul palco persone ferite da un dramma o protagoniste di un’esperienza che nella loro dolorosa o coraggiosa esemplarità riguardano tutta la società.
Ho già avuto modo di sottolineare come questa articolazione del tessuto del Festival ricordi quella del Telegiornale. Negli anni, infatti, nei notiziari televisivi, in particolare quelli di Rai1 e di Canale 5, si è andata accentuando una tendenza ad accogliere sempre più notizie e temi riguardanti la cronaca, lo spettacolo, lo sport, il tempo libero, al punto da rivedere la stessa gerarchia delle notizie. Ciò che solleva un problema di non poco conto sulle funzioni dell’informazione, sui contenuti e dunque sulla tipologia del racconto che in questo caso il medium televisivo deve costruire e sul rapporto che deve avere con il destinatario.
Per quanto ci riguarda qui, è assai possibile che quest’esposizione a un telegiornale multi-genere abbia prodotto nel tempo un’abitudine nei confronti di questa compresenza di notizie così diverse. Lo spettatore è ragionevole pensare che si sia abituato a passare dalle crisi internazionali e dalle guerre all’ultimo concerto di Vasco Rossi e alla sagra della pizza. E così Sanremo esalta un modulo del discorso televisivo e si costruisce come un dilatato super-contenitore che ha l’elasticità per accogliere tutto. Compreso il giullare-guastatore Fiorello, un po’ grillo parlante a ruota libera, un po’ goliardico aiutante, un Walter Chiari passato per i villaggi vacanze con la fissa dello scherzo e della battuta. Nel Festival c’è anche il birichino indisciplinato, come accadeva nel circo con l’Augusto e il clown bianco.
Servizio pubblico e stress
Quest’anno ancora più degli anni scorsi ce lo siamo chiesti: Sanremo è coerente con la missione di un servizio pubblico, se non altro quello italiano perché in nessun Paese al mondo esiste una manifestazione canora che impegna un’intera settimana? E quale è la missione di un servizio pubblico che produce il botto più clamoroso con il Festival? Potrebbero essere i milioni degli ascolti? Potrebbero, visto che si continua a ripetere che tocchi al servizio pubblico la costruzione di quegli eventi che, nel declino generalista, funzionano ancora da punto di partecipazione e di riferimento per l’intera società. Il servizio pubblico è in quanto tale tenuto a una missione universale, vale a dire che deve raggiungere tutti e quindi chi più del Festival ottempera a questo compito?!
Accanto a questa coazione alla quantità, una prima considerazione di contenuto. Il Festival mette al centro dell’attenzione la canzone italiana, e cioè uno dei tratti che più si legano sia all’immaginario del pubblico, sia all’identità del nostro paese, per il quale è conosciuto nel mondo. Dunque, un Festival-immagine, oltre che una vetrina che sostiene e fa da amplificatore dell’industria italiana del settore. Mi sembra, tuttavia, ancora una considerazione esterna rispetto a quello che effettivamente accade. La manifestazione infatti è forte, come detto, di una ritualità consolidata negli anni che l’ha eletta ad appuntamento iper-nazionale, a Festival degli Italiani. E sarebbe tutto da chiarire se si tratti di un genitivo soggettivo o oggettivo, se cioè sia il festival degli italiani che lo guardano o il palcoscenico dell’Italianità (aldilà, ma non troppo…, di un governo, quello attuale, molto sensibile a questo tema). Da questo punto di vista abbiamo visto degli italiani che si sono fatti onore nello sport e degli attori che raccontano di uno dei generi più amati dal pubblico, protagonisti di storie che puntano a restituire in forma narrativa la complessità emotiva e problematica del tempo che viviamo. Insieme con loro delle personalità-valore, che incarnano un punto di vista che riguarda la linea di comportamento: la madre-coraggio che grida con dignità il dolore per il figlio ammazzato, l’artista impegnato chi si fa cantore di un problema, in questo caso le morti sul lavoro.
Potrebbe essere questo il tratto distintivo che ne fa un Festival di servizio pubblico? E basta questo mix di presenze variamente motivate? Domande scandalizzate si sono alzate sull’adeguatezza rispetto alla missione, se sia indispensabile questa cerimonia tracimante eletta ormai a pilastro annuale dell’offerta, in che cosa si differenzi dagli show che potrebbe mettere in scena una televisione commerciale.
Cominciano dalla fine, la televisione commerciale – nel gioco delle parti in cui in Italia è presa con la tv pubblica – non ha in palinsesto un appuntamento paragonabile al Festival. E non è un caso. Con tutte le riserve che si possono avere sul differenziale tra televisione pubblica commerciale, è un fatto che Sanremo – intendendo per questo l’immaginario che evoca e il sistema di attesa dello spettatore che ha generato – si è venuto costituendo per una stratificazione pluridecennale che in questa sede non è il caso di ripercorrere, che ha avuto alti e bassi, ma che giunge all’attualità con un alone e un orizzonte di senso che gli consente di arrivare agli ascolti che abbiamo visto.
Non è un caso il Festival, il suo presente sta nella sua genealogia che lo ha fatto diventare un super evento, totalitario e imparagonabile con qualunque altro – a parte certe partite della nazionale di calcio – con una struttura che tiene insieme competizione canora e scaletta del telegiornale, quindi con i diversi generi dell’informazione.
Sanremo è l’unico luogo della televisione e della cultura del Paese che funziona da specchio dell’Italia. E su questo bisogna intendersi: non un riflesso realistico, piuttosto una cornice in cui i cantanti sono una controfigura dell’umanità che li guarda, ciascuno incaricato di interpretarne una parte – i Kolors e Dargen, Mahmood e Angelina Mango, i Ricchi e Poveri e Fiorella Mannoia… – e tutti insieme a costruire un mosaico-simulacro intergenerazionale, ma con il compito di recuperare, almeno lì, quelli che nella società reale rappresentano una tangente spesso indecifrabile per gli adulti.
No, a Sanremo si può stare ancora insieme e al tempo stesso si può esibire un’esemplarità positiva del Paese – i campioni dello sport – i portatori di valori comuni e i protagonisti del racconto che la fiction fa del paese, in una specie di mise en abyme.
Poi, è anche possibile che tutto venga spacchettato e che i pezzi viaggino ciascuno per proprio conto, ogni spettatore/utente che si fa il suo percorso e, chi vuole, pronto ad alimentare una coda sui social, che a sua volta si va riverberare sullo stesso Festival. E tuttavia questo uso multitasking del Festival non ha compromesso la tenuta della cattedrale, o meglio la dilatazione del formato ha coinciso con il suo stress-test, come e inevitabilmente ancor più degli scorsi anni.
Sanremo si è ancora una volta consegnato alla coazione a sé stesso, come i palestrati del body-building che continuano a ripetere ossessivamente lo stesso gesto. Risultato inerziale delle edizioni che si sono succedute, specialmente le ultime, il Festival è stato sottoposto ad un’altra prova all’estremo della confezione ritualizzata di un evento televisivo, nella consapevolezza che è rimasto l’unico punto della televisione in cui si può tentare quest’esperimento.
Nell’edizione numero 74 ha ancora resistito.
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