Le incognite che pesano sull’inclusione della Georgia nell’Unione europea
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Mondo
Giulio Ferlazzo Ciano
Dottore di ricerca in Storia contemporanea
Giulio Ferlazzo Ciano, prendendo spunto dai recenti scontri a Tbilisi contro la Legge sulla Trasparenza e l’Influenza straniera, descrive “Le incognite che pesano sull’inclusione della Georgia nell’Unione europee” che sono numerose e di varia natura, ovvero politiche, storiche, geografiche e culturali. Descritta come “Un Paese pedina del “grande gioco” in Transcaucasia” La Georgia – secondo Giulio Ferlazzo Ciano è “Un Paese non particolarmente favorito dalla posizione geografica, che tuttavia può vantare un’identità nazionale radicata nella storia da più di due millenni e un idioma che (caso più unico che raro) appartiene a una famiglia di lingue autoctone, cartveliche, non imparentate con le lingue indo-europee e nemmeno con quelle uralo-altaiche parlate nei Paesi e nelle regioni confinanti. La Georgia è quindi una specie di isola linguistica e culturale confinata tra alte catene montuose e con un breve affaccio sul Mar Nero, il Ponto Eusino degli antichi greci, attraversato a suo tempo dalla leggendaria imbarcazione degli argonauti alla ricerca del Vello d’oro, che secondo il mito si sarebbe trovato proprio nella Colchide, uno dei due regni (l’altro era l’Iberia) antenati dell’attuale Stato georgiano. E anche questo, a rievocarlo, appare come un mito alimentato dai sogni di una società antica in cui, facendo perno sulla Grecia, la Colchide appariva come una terra ai confini del mondo allora conosciuto. La Georgia è in effetti senz’altro una terra di confine – aggiunge l’autore – e insieme una zona di attrito dove da sempre si confrontano potenze mondiali e regionali per l’egemonia e l’attuale condizione di crisi che sta vivendo il Paese si inscrive proprio in un simile contesto”. Nel prosieguo dell’articolo Ferlazzo Ciano misura le “Dimensioni della debolezza georgiana” prima di analizzare il “Sogno di un allargamento dell’Unione europea nel continente asiatico” chiedendosi se esso in fin dei conti non sia in realtà “forse sogno di una Renovatio imperii?”. Qualunque esso sia, per l’autore una cosa è certa: salvo sorprese “Il destino della Georgia si compirà ad ottobre 2024” in occasione delle elezioni legislative.
18 giugno 2024
Paese attraversato da una faglia che separa il sogno europeo dall’incubo russo. Ma il sogno dell’inclusione nell’Unione europea non è privo di incognite e di interrogativi sull’identità europea.
Sogno georgiano: Kartuli Otsneba. Si chiama proprio così, rasentando l’ironia tragica, il partito di governo che in Georgia (lo Stato transcaucasico al centro dell’attenzione mediatica nello scorso mese di maggio) ha promosso la famigerata “legge russa” che, secondo le forze di opposizione, farebbe del governo di Tbilisi un’altra pedina della scacchiera putiniana. Da questo passaggio deriverebbe quindi il destino di una piccola nazione che si dibatte tra due sogni dagli esiti diametralmente opposti. Se il sogno dei giovani e meno giovani georgiani, che in questa primavera del 2024 (ma con meno ardore e più rassegnazione) si battono per le libertà democratiche che verrebbero conculcate dalla legge evocata, è quello di traghettare il Paese verso Occidente attraverso il processo di adesione all’Unione Europea, quello del miliardario Bidzina Ivanishvili, manovratore della coalizione di governo, sarebbe quello di trasformare il Paese in un paradiso turistico-immobiliare e fiscale per oligarchi russi, facendo forza sui timori che l’altra metà della popolazione mostra di nutrire nei confronti di un ipotetico allargamento del conflitto ucraino alla Georgia, proprio a causa dell’avvicinamento all’Unione europea e, di conseguenza, all’Occidente filo-americano, oltre che sul disorientamento che la società tradizionale prova di fronte alle rivendicazioni dei cosiddetti diritti di quarta generazione, spesso appiattite sulle divisive questioni di genere.
Un Paese pedina del “grande gioco” in Transcaucasia
Insomma, per alcuni il sogno è un incubo e viceversa. Si può sostenere che, malgrado il fragile argine issato dalla presidente della Repubblica Salomé Zourabichvili (ex diplomatica nata a Parigi da rifugiati politici georgiani, ministro degli esteri della Georgia nel 2004-2005, sotto la presidenza dell’indomabile filo-occidentale Mikheil Saakashvili, eletta infine alla somma carica dello Stato nel 2018), la quale il 18 maggio si è rifiutata di firmare la legge oggetto di disputa opponendo il veto, venendo tuttavia sconfessata dieci giorni dopo dal Parlamento, che l’ha rivotata a maggioranza, si profilerebbe la realizzazione del sogno dei filo-russi e dell’incubo dei filo-europei. Sfortunato il Paese che si ritrova tirato da una parte o dall’altra, perché troppo debole per esprimere una politica scevra dall’influenza diretta o indiretta di potenti vicini. Il destino per questi Paesi è quasi sempre la lacerazione del tessuto sociale, diviso in fazioni contrapposte e nemiche tra loro, sfruttate a proprio vantaggio da ciascuna delle potenze che si contendono l’influenza, finché una delle due parti non prevale in modo definitivo, determinando all’esterno l’uscita di scena, relativamente indolore, di uno dei contendenti stranieri e all’interno la sconfitta di una delle due fazioni in lotta, i cui sostenitori subiscono a quel punto l’esclusione di diritto o di fatto dal consesso civile, costretti all’emarginazione, al silenzio, in certi casi perseguitati o spinti all’esilio. È il destino che potrebbe attendere in Georgia chi oggi si batte contro il governo a favore dell’Europa e, allo stesso tempo, si pone a sostegno di una sospetta “influenza straniera”.
Legge sulla Trasparenza e l’Influenza straniera è peraltro il nome ufficiale del provvedimento, mirato a fare uscire allo scoperto i finanziamenti esteri (solitamente euro-occidentali) delle organizzazioni non governative, che ha scatenato una seconda ondata di proteste a partire dal momento in cui il partito di governo Sogno georgiano, il 3 aprile 2024, ha annunciato la riproposizione del testo di legge in Parlamento, dopo che una prima contrapposizione nelle piazze, nel marzo 2023, era riuscita ad ottenerne il ritiro. In questa storia transcaucasica si contrappongono pertanto due sogni e anche due debolezze, quella dell’Unione europea, che non potrà fare altro che armare i suoi cannoni di buone intenzioni, solidarietà e sostegno morale alle masse di giovani e meno giovani che vedono concretizzarsi l’incubo russo, e del povero Paese oggetto di questo articolo, costretto da da almeno due millenni a dover contendere ogni singolo chilometro quadrato di un territorio esiguo ai vicini più o meno potente o a dover più spesso soccombere alle ambizioni imperiali di potenze straniere. In ordine cronologico: Roma, Persia e Impero ottomano, infine Russia.
Un Paese non particolarmente favorito dalla posizione geografica, che tuttavia può vantare un’identità nazionale radicata nella storia da più di due millenni e un idioma che (caso più unico che raro) appartiene a una famiglia di lingue autoctone, cartveliche, non imparentate con le lingue indo-europee e nemmeno con quelle uralo-altaiche parlate nei Paesi e nelle regioni confinanti. La Georgia è quindi una specie di isola linguistica e culturale confinata tra alte catene montuose e con un breve affaccio sul Mar Nero, il Ponto Eusino degli antichi greci, attraversato a suo tempo dalla leggendaria imbarcazione degli argonauti alla ricerca del Vello d’oro, che secondo il mito si sarebbe trovato proprio nella Colchide, uno dei due regni (l’altro era l’Iberia) antenati dell’attuale Stato georgiano. E anche questo, a rievocarlo, appare come un mito alimentato dai sogni di una società antica in cui, facendo perno sulla Grecia, la Colchide appariva come una terra ai confini del mondo allora conosciuto.
La Georgia è in effetti senz’altro una terra di confine e insieme una zona di attrito dove da sempre si confrontano potenze mondiali e regionali per l’egemonia e l’attuale condizione di crisi che sta vivendo il Paese si inscrive proprio in un simile contesto. Tuttavia tale crisi non dipende, come nella vicina Armenia, da plurisecolari tensioni etniche che si intrecciano con le singole storie nazionali delle parti in causa, con quelle degli ex imperi egemoni nella regione e con le storie delle migrazioni di massa che hanno alterato irreversibilmente l’identità storico-culturale di alcune aree, rendendo ogni singola crisi estremamente complessa proprio perché prodotta da un inestricabile groviglio storico di opposte rivendicazioni, guerre vinte o perse, revanscismi e ritorsioni. In effetti la crisi prodotta dalla legge sulla Trasparenza e l’Influenza straniera non ha origini storiche o etnico-culturali, ma è il semplice e classico prodotto, ancorato al presente o a un passato molto prossimo, dell’agire di forze in campo legate più o meno direttamente agli interessi di due superpotenze che si confrontano per porre la loro bandiera su una casella dello scacchiere globale. Dunque è una crisi che non necessita di investigare nel profondo la storia di un Paese nel complesso ancora poco noto a noi europei e scoperto dai flussi turistici relativamente da pochi anni.
Dimensioni della debolezza georgiana
È necessario tuttavia mettere in luce alcuni aspetti che possono rendere il quadro più nitido. Si diceva delle dimensioni esigue del Paese, complici della sua debolezza. Sulla carta la Georgia ha una superficie di 69.700 chilometri quadrati e una popolazione di circa 4 milioni di abitanti. Sulla carta però. Perché anche la Georgia di fatto deve fare i conti con la gemmazione di repubbliche secessioniste, nate già all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica e sostenute dalla Federazione Russa, che hanno sottratto al governo di Tbilisi rilevanti e strategiche porzioni di territorio nazionale. Dunque, escludendo le repubbliche dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, proclamate nel contesto della guerra civile del 1991-1993, la superficie reale si riduce a circa 57 mila chilometri quadrati e la popolazione a 3,7 milioni di abitanti. Traducendo le cifre in sostanza, si tratta di un territorio vasto come Lazio, Umbria, Marche, Abruzzi-Molise e Capitana unite insieme e popolato tuttavia da meno degli abitanti della sola provincia di Roma.
Un altro aspetto interessante e delicato della questione è dato dalla convenzionale appartenenza continentale del Paese, ritenuto a tutti gli effetti uno Stato dell’Asia, in virtù del fatto che proprio sullo spartiacque della catena del Caucaso passerebbe il confine geografico (dunque convenzionale) che separa l’Asia dall’Europa, escludendo pertanto dall’appartenenza a quest’ultima l’intero territorio georgiano, che si trova giustappunto sul versante meridionale e asiatico del Caucaso.
Si potrebbe sostenere che le convenzioni geografiche siano postulate apposta per essere contraddette e riformulate, tanto più che la suddivisione continentale tra Europa e Asia è una delle più convenzionali e artificiose che esistano, trattandosi di un continente unico di cui l’Europa, dagli Urali a Lisbona, non è altro che la sua estrema appendice peninsulare occidentale. E quindi all’occorrenza, seguendo motivazioni ideali o culturali, si potrebbe spostare il confine convenzionale tra i due continenti su un’altra catena montuosa o su un’altra barriera naturale per includervi una regione contesa. E in effetti il caso georgiano si presta benissimo a questa tentazione. Perché se convenzionalmente è un Paese asiatico, culturalmente e storicamente è senz’altro europeo: cristiano, innanzi tutto, almeno in gran parte, evangelizzato fin dal IV secolo da una donna originaria della Cappadocia, in fuga dalle ultime persecuzioni contro i cristiani dell’imperatore Diocleziano. Si chiamava Nino, ancora oggi uno dei nomi femminili più diffusi nel Paese e prima santa della chiesa autocefala ortodossa georgiana. Si diceva dei legami con il mondo greco, più mitici che reali, si è accennato ai contatti con Roma, che in effetti estese la sua influenza sulle antiche Colchide, Iberia e Albània fin dal I secolo a.C., quando furono raggiunte da Gneo Pompeo Magno (65 a.C.) nel corso della spedizione in Armenia nel contesto della Terza guerra mitridatica.
Mai annessa al territorio romano, ma soggetta alla sua influenza, iniziò in quel periodo ad essere tirata da una parte o dall’altra, a seconda delle alterne fortune dei due imperi che si disputavano il controllo sulla vasta regione transcaucasica: Roma, appunto, e la Persia. Fu allora che l’attuale territorio georgiano rimase diviso approssimativamente tra una parte occidentale (Colchide) gravitante su Roma (e in seguito su Bisanzio) e una parte orientale (Iberia e Albània) sotto il controllo delle dinastie regnanti in Persia. Producendo pertanto una prima lacerazione dei rapporti con il continente che, secoli dopo, sarebbe stato convenzionalmente noto come Europa. Ma dell’Europa di fatto i georgiani si sono sempre sentiti parte. Non senza difficoltà, infatti, tra le invasioni arabe del VII secolo, quelle dei Turchi selgiuchidi del 1088, quelle mongole degli anni successivi al 1230, per concludersi infine con la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi ottomani (1453), che isolò definitivamente la regione transcaucasica dall’Europa cristiana, in Georgia riuscì a fiorire un Regno indipendente che esistette tra l’ultimo scorcio dell’XI secolo e la prima metà del XV secolo, raggiungendo il massimo sviluppo civile e culturale nel corso del XII secolo e nella prima metà del XIII. Protagonista di quegli anni, nota anche in Occidente, fu la regina Tamar (1184-1212), cantata dal bardo nazionale Šota Rustaveli nel poema Il cavaliere dalla pelle di leopardo, composto intorno al 1180.
Sogno di un allargamento dell’Unione europea nel continente asiatico
Anche per questo, evidentemente, l’Unione Europea non ha avuto dubbi a promuovere il processo di inclusione della Georgia, un’aspirazione condivisa anche dal partito Sogno Georgiano, al governo del Paese dal 2012, che da allora non ha mai nascosto di voler dare seguito al processo di adesione. Gli sforzi politici e diplomatici in tal senso sono culminati l’8 novembre 2023 con la raccomandazione da parte della Commissione europea di offrire alla Georgia lo status di candidato all’adesione nell’Unione europea, invito raccolto il 14 dicembre dal Consiglio dei ministri dell’Unione Europea. Di fatto soltanto l’inizio di un processo che potrebbe durare anche più di un decennio (nei Balcani lo status di candidato è stato concesso, ad esempio, alla Macedonia del Nord fin dal 2005, al Montenegro nel 2010, alla Serbia nel 2012 e all’Albania nel 2014), ma comunque il primo passo necessario e propedeutico all’avvio dei negoziati. Tuttavia, complice anche la necessità di creare una cintura di contenimento intorno alla Russia, l’Unione sembra non essersi accorta di essere andata al di là dei suoi “confini naturali”, per così dire, sostenendo l’adesione all’Europa di uno Stato asiatico che disterebbe circa mille chilometri in linea d’aria dal primo lembo di suolo europeo continentale già incluso nell’Unione europea, facendone una vera e propria enclave circondata da Paesi ostili all’Unione (Russia, Turchia) o non inclusi (Armenia, Azerbaigian), unita soltanto via mare al territorio europeo, peraltro attraverso il Mar Nero, un bacino marittimo non propriamente sicuro, divenuto teatro di operazioni belliche nel contesto della “operazione militare speciale” e tornato ad essere un lago russo-turco.
Insomma, probabilmente non un’idea brillante, ancorché motivata da ideali progressisti e umanitari, così come da rivendicazioni storiche, quest’ultime invero quasi mai evocate. O, più probabilmente, da legittime ambizioni geopolitiche, tuttavia non adeguatamente sostenute da mezzi diplomatico-militari. È come se l’Unione (riprendendo le parole che sarebbe state pronunciate nell’estate del 1877 dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck all’indirizzo dell’Italia) stesse iniziando a mostrare di avere un certo appetito, soprattutto all’indomani del trauma dell’invasione russa dell’Ucraina, ma non abbastanza denti.
È comprensibile che non soltanto l’Unione, ma le Cancellerie di tutti gli Stati europei (Regno Unito incluso) provino un senso di disagio a constatare come il confine orientale della porzione di continente ancora retta da regimi liberaldemocratici sia di fatto vulnerabile, delimitato com’è per migliaia di chilometri dal gigante russo, per troppo tempo sottovalutato, protetto quasi unicamente dal deterrente rappresentato dall’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico, almeno finché non verrà messo alla prova. Si comprende bene, dunque, che sia essenzialmente una questione di sicurezza a spingere per l’inclusione dei rimanenti Stati dei Balcani occidentali (Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo, Albania, Macedonia del Nord), dell’Europa orientale (Ucraina, Moldavia), nonché della transcaucasica Georgia, europea ad honorem. Affinché non siano altri a riempire quei vuoti.
Tuttavia l’ambizione in quest’ultimo caso si scontra con la difficilmente giustificabile posizione della Georgia, come futuro membro dell’Unione europea, incastonata com’è tra Russia e Turchia, due Stati fieramente estranei al processo di integrazione europea. La prima di fatto esclusa e orgogliosamente autoesclusasi, confermando il suo baricentro nell’heartland centro-asiatico (l’Eurasia postulata da Aleksandr Dugin) in tempi ancora non sospetti, durante la presidenza di Boris El’cin, secondo gli intendimenti dell’allora ministro degli affari esteri Evgenij Primakov. La seconda dapprima sedotta, poi abbandonata, infine ritornata a scoprire la sua vocazione mediorientale seguendo la strada segnata da Ahmet Davutoğlu, brillante ex ministro degli esteri e primo ministro della Repubblica Turca tra il 2009 e il 2016, ritenuto l’ideologo della dottrina “neottomana”. Insomma, a farla breve la Georgia non dovrebbe essere destinata a diventare Europa, se non a rischio di provocare la reazione dei suoi potenti vicini. Uno, rappresentato dall’inquilino del Cremlino, ha già fatto percepire la sua ingombrante presenza e sembra essere in grado di sbarrare il sentiero dell’integrazione europea di Tbilisi appena pochi mesi dopo la concessione dello status di candidato. È legittimo infatti credere che con l’entrata in vigore della legge sulla Trasparenza e l’Influenza straniera, alias “legge russa”, Tbilisi rientrerà con le buone o con le cattive (nel caso in cui una riedizione della rivoluzione delle rose del 2003 costringesse Mosca ad intervenire a sostegno del governo georgiano, anche solo per appoggiare e fornire aiuto logistico alla repressione) nell’alveo dell’influenza russa, probabilmente mascherata da una sbandierata equidistanza del governo di Tbilisi tra Russia e Occidente.
D’altra parte, se così non fosse e per assurdo avvenisse un miracolo, sotto forma di disinteresse da parte russa ad avere un saliente europeo (e in futuro, al di là del parere negativo espresso una prima volta al vertice di Bucarest nel 2008, magari un potenziale membro della NATO?) conficcato a sud del Caucaso, sarebbe da chiedersi quale sia il progetto di espansione territoriale che l’Europa intenderebbe perseguire. Diciamo pure chiaramente che uno Stato di là da venire, ma già di per sé con un principio di struttura confederale, che si definisce Unione e specificamente Europea, si dà per scontato che rivendichi di estendere (col negoziato e altri strumenti assolutamente pacifici) i suoi confini fino ai limiti estremi del continente stesso, evitando di andare oltre. Uniche eccezioni a questa ovvia regola non scritta sono stati comprensibilmente i territori d’oltremare degli Stati membri (essenzialmente francesi, nederlandesi e spagnoli, inclusa la danese Groenlandia) e la Repubblica di Cipro, un’isola anch’essa convenzionalmente asiatica ma che si percepisce europea. Quanto meno nella porzione non occupata dalle forze armate turche nel 1974, rimasta de facto il tassello mancante a una più completa unità greca e che nell’Unione Europea ha visto un mezzo, oltre che per beneficiare di tutti i vantaggi derivanti dall’inclusione nel mercato unico, anche per effettuare una sorta di simbolica énosis, rinsaldando il legame con la madrepatria naturale attraverso la comune adesione dei due Stati (Grecia e Cipro) all’Unione europea.
L’eventuale ingresso della Georgia nell’Unione europea rappresenterebbe tuttavia qualcosa di diverso, non trattandosi né di un territorio d’oltremare di qualche Paese membro, né di un’isola mediterranea di incerta attribuzione continentale. Nulla vieterebbe a quel punto, varcato simbolicamente il Rubicone, di ambire a pianificare l’inclusione nell’Unione europea di altri Stati della regione transcaucasica, a partire dall’Armenia, altra nazione indissolubilmente legata all’identità europea. A quel punto chi potrebbe negare il diritto all’adesione dell’adiacente Turchia, così come tentato già in passato, considerando la Transcaucasica un prolungamento continentale dell’Anatolia? Stato asiatico per eccellenza (la prima regione della storia a chiamarsi Asia fu, per l’appunto, l’omonima provincia romana, estesa nella porzione occidentale della penisola anatolica, prendendo in prestito un toponimo in lingua greca, Ἀσία), la Turchia è abitata da un popolo di rivendicata origine asiatica che renderebbe ancora più arduo identificare l’identità dell’Unione con la sola Europa. Divenuta nei fatti a quel punto (sia concesso di sognare a nostra volta) un’Unione euro-orientale, perché non potrebbe ambire ad includere anche Israele? Come in passato peraltro fu anche vagheggiato da qualche romantico sognatore. Nulla poi vieterebbe di includere gli Stati della sponda sud del Mediterraneo, a partire dal politicamente stabile Marocco. Tutte realtà statuali peraltro (quelle della sponda est e sud del Mediterraneo) in gran parte già coinvolte indirettamente attraverso la firma di accordi di associazione all’Unione europea, nel quadro della European Neighbourhood Policy (ENP).
O forse sogno di una Renovatio imperii?
Si comprende bene dunque che con l’inclusione della Georgia sarebbe necessario rivedere i parametri dell’identità stessa dell’Unione Europea, finora ufficiosamente identificata come una riedizione più vasta, in chiave moderna e liberaldemocratica, dell’Impero di Carlo Magno. L’Europa carolingia è infatti finora l’unico appiglio della storia in grado di dare una pur parziale identità al futuro Stato. Lo lasciano credere la disposizione delle sue capitali (Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo), tutte in area basso-renana, nel cuore di quello che fu l’Impero dei Franchi in età carolingia, e l’esistenza fin dal 1950 del Premio Carlo Magno, ufficialmente denominato “Premio internazionale Carlo Magno di Aquisgrana” (Internationaler Karlspreis zu Aachen), conferito ogni anno, nella simbolica cornice della nota città tedesca che fu una delle più rilevanti sedi della corte carolingia, a colui o colei che abbia favorito con la propria opera l’unificazione europea. Il dibattito sulle radici giudaico-cristiane dell’Europa, sostenuto in particolare dalle forze politiche che intendevano inserire tale definizione nei trattati o nel progetto abbandonato di costituzione, a sua volta richiamava l’idea di Res publica christiana che proprio in età carolingia aveva trovato la sua consacrazione.
Ma un’Europa che guardasse al Vicino Oriente e, come conseguenza logica, alla sponda sud del Mediterraneo per la sua futura espansione (“inclusione”, stando alla pacifica dizione ufficiale) dovrebbe necessariamente ripensarsi in un’ottica geograficamente meno limitante (l’Italia stessa, accettando il disegno neocarolingio attualmente in voga, farebbe fatica a pensarsi unita) e con un baricentro spostato più a sud, abbandonando la regione renana in direzione del Mediterraneo. Così che inevitabilmente si dovrebbe constatare la riproposizione di una stagione di Renovatio imperii in piena regola, senza più misurarsi con una limitante Res publica christiana in formato neocarolingio allargato alla sola Europa, ma vero e proprio Impero romano (in formato repubblicano e federale) risorto ad abbracciare potenzialmente non solo l’intero Mediterraneo con l’Europa occidentale e sud-orientale, come ai vecchi tempi, ma persino le terre mai conquistate dell’Europa centrale e nord-orientale, dote peraltro già acquisita dagli allargamenti successivi al 1990. Il sogno segreto sepolto nell’inconscio che si dipana come un filo rosso attraverso la storia della nostra penisola. Sogno concepito da un giovane imperatore germanico, Ottone III, caduto vittima del mito di Roma a cavallo all’alba del secondo millennio, coltivato segretamente da un altro imperatore germanico, Federico II, nato sotto il sole italiano e di sangue misto tedesco e siculo-normanno, che pure non riuscì a realizzare malgrado avesse quasi raggiunto l’obiettivo di riunire Germania e Italia. Sogno malinconicamente rimpianto appena qualche decennio dopo da Dante Alighieri e, un poco più tardi ancora, da Francesco Petrarca, brandito assai velleitariamente da Cola di Rienzo e più romanticamente da Giuseppe Mazzini durante il processo di riunificazione nazionale italiana.
Un sogno tuttavia col quale anche l’Europa di inizio Terzo millennio fa inconsciamente i conti, se aspira a mettere la mani sulla Georgia, estremo limite orientale dell’influenza romana in quello che oggi chiamiamo continente asiatico. Ma giustappunto nulla più di un sogno e in questa vicenda dai contorni onirici è come se i sogni delle due parti in campo si intrecciassero fra loro. Gli esponenti del governo georgiano impropriamente definiti “filo-russi” sognano un Paese libero da influenze straniere (occidentali) e dalla pericolosa ideologia di genere. L’inquilino del Cremlino sogna una Georgia tornata sotto controllo della Russia, giardino lussureggiante ed esotico a disposizione delle oligarchie moscovite. I giovani georgiani filo-europei sognano un avvenire in Europa, introducendo nel Paese una stagione riformista liberal-progressista e anelando a poter circolare liberamente da Tbilisi a Lisbona. E le classi dirigenti brussellesi, infine, promettendo di iniziare il negoziato che dovrebbe condurre la Georgia a diventare membro dell’Unione europea, sognano inconsciamente di porre le basi per l’espansione futura dell’Europa ben oltre i confini continentali. Renovatio imperii o, se si preferisce, chiamiamolo pure “imperialismo democratico”.
E questa sarebbe senz’altro una bella notizia. Per noi popoli mediterranei soprattutto, in vista dell’inevitabile spostamento del baricentro dell’Unione verso sud. E anche per coloro che osservano da tempo un certo torpore nei popoli europei, avviluppati da una sorta di paralisi dell’azione, immersi in un clima di perdurante declino, aggravato dalla sindrome da accerchiamento da parte delle potenze emergenti, oltre che in piena crisi ideologica, avendo per decenni istruito le giovani generazioni a odiare il passato del continente in cui vivono e a rigettarne identità nazionali e tradizioni culturali. Ebbene in tale contesto si può dire che il ritorno dell’appetito all’Europa è una buona notizia.
Sfortunatamente, come si diceva, è un appetito di chi è ancora privo di adeguata dentatura. Sembra quasi, in effetti, uscendo dall’onirica visione dell’avvenire euro-mediterraneo, che la concessione dello status di candidato alla Georgia sia stato non tanto il prodotto di una strategia volta a prefigurare nuovi e ambiziosi obiettivi di allargamento dell’Unione, quanto il tentativo (forse poco convinto e ispirato prevalentemente nelle capitali dell’Europa orientale) di garantire un sostegno pur simbolico all’opinione pubblica filo-occidentale di un Paese piccolo ma strategicamente molto rilevante, nel contesto della politica di contenimento del gigante russo. Il tutto a costo zero: una raccomandazione della Commissione europea e il raccoglimento dell’invito da parte del Consiglio. Alla peggio, se la deriva autoritaria del governo georgiano rendesse evidente l’allontanamento del Paese dai princìpi e valori fondanti dell’Europa, non si darebbe avvio al negoziato e la “campagna di Georgia” finirebbe così, nel silenzio e senza vittime, confermando i vantaggi indiscutibili di un espansionismo attuato con metodi inclusivi, dialoganti e democratici.
Il destino della Georgia si compirà ad ottobre 2024
In tutta questa vicenda sembra che a rimanere turlupinati (almeno per ora) siano stati proprio i georgiani. Non senza paradossi. Perché al di là delle critiche che si possono muovere alla generosa ma poco ponderata offerta europea di candidare il Paese all’ingresso nell’Unione europea, rimane il fatto che l’attuale governo espressione del partito Sogno georgiano e persino il suo fondatore e principale finanziatore, l’uomo d’affari miliardario Bidzina Ivanishvili, erano stati per anni dei convinti sostenitori dell’ingresso della Georgia nell’Unione e, almeno a parole, dichiarano di esserlo ancora, sebbene di fronte alla sterzata impressa dal varo della contestatissima legge è legittimo dubitare della loro sincerità.
A voler essere obiettivi bisogna riconoscere che anche la loro posizione non è facile, con le truppe russe posizionate ad appena 50 chilometri da Tbilisi, nella Repubblica secessionista dell’Ossezia del Sud, riconosciuta ufficialmente dalla Russia come Stato indipendente nei giorni della breve guerra russo-georgiana nell’agosto 2008 e che a sua volta coltiva piani di inclusione nella Federazione Russa. I futuri sviluppi chiariranno le reali intenzioni del governo georgiano: si comprenderà se la legge contestata non è stata altro che un blando espediente per rassicurare la Russia e procedere allo stesso tempo, magari solo più lentamente, sulla strada del negoziato per l’inclusione nell’Unione europea, oppure una sterzata rispetto alla linea politica impressa negli anni precedenti. Le elezioni legislative del prossimo ottobre potranno chiarire le prossime linee di tendenza che, per certi aspetti, sono ancora premature da prevedere.
È logico infatti credere che, al di là delle attenzioni riservate dalla Russia alla Georgia, dietro alle quinte sia stato proprio Ivanishvili a spingere l’acceleratore per l’approvazione della legge, negli ultimi tempi perseguitato dall’incubo di incappare in sanzioni economiche occidentali che metterebbero a rischio il suo immenso patrimonio, acquisito anche con affari nella Federazione Russa e distribuito in diversi angoli del pianeta. Un’ossessione che negli ultimi tempi lo avrebbe portato a ritenere che esista un “Partito mondiale della guerra” (con riferimento al sostegno euro-atlantico all’Ucraina) che mirerebbe alle sue sostanze per finanziare lo sforzo militare a sostegno di Kiev. In questo senso il rimpatrio di capitali nel Paese necessiterebbe di un clima di maggiore sicurezza interna garantita da una più salda presa del partito sulle istituzioni.
Ed ecco che, in quest’ottica, la presenza in Georgia di organizzazioni non governative finanziate dall’Occidente e dall’Europa rischierebbero di essere un ostacolo da rimuovere per poter ridurre gli spazi d’azione dell’opposizione e far scivolare il Paese in una deriva illiberale. Che non sarebbe tuttavia da ritenere una reale sterzata filo-russa, in considerazione peraltro della scarsa simpatia di cui nutre l’ingombrante vicino che attualmente occupa de facto quasi il 20 per cento del territorio georgiano attraverso le due repubbliche secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud.
Si tratterebbe quindi, a ben vedere, non tanto di una legge voluta da sognatori filo-occidentali pentiti e convertiti al sostegno dell’inquilino del Cremlino, ma da un oligarca (pur ritenuto in buone relazioni con Vladimir Putin) che in tale contesto potrebbe aver agito con eccessiva fretta, ipotecando il suo futuro politico e forse anche, per paradosso, la sua ricchezza.1
Tuttavia, come si diceva, l’esito della vicenda si vedrà a partire dall’ottobre di questo 2024, salvo soprese.
Al momento rimangono i sogni di ciascuna delle parti in causa: il doppio sogno georgiano, quello governativo e quello della gioventù filo-occidentale, il sogno dell’espansione europea a Oriente e il sogno russo di tornare ad avere un’influenza in Georgia. Il tempo ci dirà quali degli attori in campo potranno dire di avere solo sognato e quali invece potranno vantare di aver saputo trasformare i sogni in realtà.
- Giorgio Comai, Georgia: perché la legge sugli “agenti stranieri” ora?, in “Osservatorio Balcani e Caucaso”, 16 maggio 2024; https://www.balcanicaucaso.org/aree/Georgia/Georgia-perche-la-legge-sugli-agenti-stranieri-ora-231448 ↩︎
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Progressismo versus ebraismo?
La nuova grande pietra di inciampo della sinistra Massimo De Angelis Scrittore e giornalista, si…
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L’accelerazione impressa dalla vittoria di Trump alle dinamiche belliche e diplomatiche
Giampiero Gramaglia Giornalista,co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles Giampiero Gramaglia in…
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Nebbia fitta a Bruxelles
Una possibile crisi si aggiunge alle complesse procedure per la formazione della Commissione Pier Virgilio…
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Partenza in salita per la seconda Commissione europea von der Leyen
28 novembre 2024 Il 27 novembre 2024 il Parlamento europeo ha dato il via libero…
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Franco Mauro Franchi, il mio Maestro
È venuto a mancare il 19 novembre 2024 a Castiglioncello (Livorno) all’età di 73 anni,…
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Stanco o non serve più?
Sulla Fondazione Gramsci e l’intellettuale secondo David Bidussa Salvatore Sechi Docente universitario di storia contemporanea…
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Il ribaltone dell’Umbria, di Guido Barlozzetti
Guido Barlozzetti Conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore Guido Barlozzetti commenta il…