Educare all’intelligenza artificiale
Il 25 marzo mi è stato gentilmente richiesto di parlare di intelligenza artificiale ai ragazzi del triennio della scuola dove insegno (una scuola grande che comprende vari indirizzi dell’istituto tecnico industriale, il geometra e il professionale a indirizzo moda). L’idea centrale intorno alla quale ho costruito la mia relazione è stata quella della necessità di una maturazione del pensiero critico circa la rivoluzione culturale in atto nel nostro tempo. Il punto, detto in altri termini, è la passività con cui i giovani del nostro tempo molto spesso accolgono le grandi notizie legate ai fenomeni culturali di più vasta portata.
Ma i giovani delle nostre scuole, se per il momento possono permettersi in qualche modo questa spensierata passività, dovranno poi gradualmente abbracciare l’idea che nel futuro di domani essi saranno in qualche modo i protagonisti. La maturazione, la crescita, la graduale responsabilizzazione sono spesso viste dagli adolescenti come faccende estranee per le quali “c’è ancora molto tempo”. In verità l’uomo di domani (il cittadino del futuro) è custodito in qualche modo già nello studente di oggi.
Per questo motivo la scuola non può non tenere in considerazione la ferma necessità di sensibilizzare fin da subito gli studenti verso quelle tematiche – come l’IA, appunto – che costituiranno la trama del reale del tempo futuro. Preparare i giovani alla realtà vera, vuol dire addestrarli a pensare in modo profondo, critico, dubitante, inducendoli a ricercare definizioni, ad individuare problemi e a mettere a punto strategie di risoluzioni efficaci.
Vuol dire anche insegnare loro a guardare in prospettiva, a capire che il tempo presente si evolve e che è quindi necessari essere pronti ad accogliere il nuovo in modo consapevole e ottimistico (l’ottimismo a cui mi riferisco non è un semplice stato sentimentalistico positivo, ma è la fiducia nel fatto che la ragione, adeguatamente preparata, è in grado di ampliare i suoi orizzonti e ristrutturare le sue categorie per interrogare e gestire una realtà mutevole, togliendo ad essa il carattere di assoluta imprevedibilità e ingovernabilità). Alla luce di questa lunga premessa sono entrato nel merito del discorso cercando di inquadrare il discorso sull’IA all’interno di un quadro filosoficamente più ampio e interessante, quello relativo alle fasi evolutive delle tecnologie. Ho quindi illustrato una prima fase (senza fornire coordinate temporali precise, dato che si tratta di movimenti evolutivi fluidi e spesso intersecati fra di loro) che ho definito oggettiva.
L’oggettività si riferisce al fatto che in questa fase l’uomo si è posto di fronte le tecnologie, esse erano appunto oggetti nel senso più filosofico del termine. Un oggetto è ciò che mi sta di fronte e che nella sua inerzia ontologica io posso usare, attivare, sfruttare in tutti i modi ma che posso abbandonare, dismettere, non utilizzare a mio piacimento in qualsiasi momento. Gli occhiali da vista, un pc, un bastone da passeggio sono esempi di oggetti tecnologici. A questa fase oggettiva ha fatto seguito una seconda fase, che ho definito avvolgente. Le tecnologie, che nel frattempo si sono arricchite di una dimensione intelligente (tecnologie smart) hanno poi cominciato ad avvolgere l’essere umano in modo sempre più pervasivo.
Gli indumenti intelligenti (smart clothing), la casa intelligente (smart home), gli orologi intelligenti (smartwatch) e ora anche le automobili intelligenti (smart car) sono tutti esempi di questo avvolgimento ontologico a cui facevo riferimento. Le tecnologie, cioè, non sono più quegli oggetti che ci stanno di fronte, ma sono strutture sempre più vaste, sempre più pervasive e sempre più presenti entro le quali letteralmente viviamo. L’avvolgimento fa riferimento al fatto che la tecnologia non è più l’insieme granulare di oggetti dei quali possiamo servirvi, ma è l’ecosistema stesso entro il quale viviamo. Si tratta di un nuovo ecosistema peraltro iperconnesso (a questo punto ho introdotto infatti il concetto di IoT, vale a dire di Internet of Things) per far riferimento alla complessa rete connettiva che lega sempre più gli smart objects fra di loro grazie ad un perenne flusso di dati e informazioni che peraltro rischia di relegare ad una posizione sempre più decentrata l’essere umano).
Ho poi mostrato una carrellata di esempi di smart clothes (la Giacca Commuter tracker del progetto Jacquard nata dalla collaborazione di Google e Levi’s, la smartshirt PoloTech di Ralph Lauren, il progetto Intimacy 2.0 di Daan Roosegaarde, il progetto sensoria socks 2.0 di Sensoria, vale a dire le prime calze smart) proprio per mostrare agli studenti e alle studentesse – in particolar modo a quelli dell’indirizzo moda – che la creazione artistica dei capi di abbigliamento, oltre ai classici e tradizionali valori della bellezza e del gusto, si sta gradualmente aprendo anche al nuovo valore predominante nel nostro tempo: la connettività. Ogni indumento, cioè, perdendo la sua analogicità, si sta trasformando (è questo l’obiettivo dell’azienda Sensoria, ad esempio) in una sorta di computer in grado di raccogliere dati e trasmetterli ad altri dispositivi. La terza fase, che è appena iniziata, l’ho definita come penetrante.
Le tecnologie, cioè, non stanno più di fronte o intorno all’essere umano, ma cominciano ad essere impiantate al suo interno. Ho quindi proiettato il video diffuso il 20 marzo scorso che mostrava l’ingegnere di Neuralink insieme a Noland Arbaugh, l’uomo di 29 anni rimasto paralizzato a seguito di un incidente e che ora grazie al dispositivo impiantato è riuscito a realizzare alcune azioni altrimenti impossibili nella sua condizione di gravissima menomazione. Le iniziative di Neuralink Corporation – è questo ciò che ho detto agli studenti – vanno osservate in prospettiva. La domanda filosofica, etica e antropologica da porre, infatti, non riguarda ciò che Neuralink è riuscita a fare per Noland, ma piuttosto ciò che le neurotecnologie riusciranno a fare in termini di potenziamento, di miglioramento e, perché no, di stravolgimento delle facoltà umane (in primis quelle cognitive, ma non solo) anche per le persone sane.
È questa, l’ho ribadito con forza, una delle più importanti questioni di cittadinanza digitale che le scuole dovrebbero affrontare con serietà e competenza. La seconda fase a cui ho fatto riferimento, inoltre, è importante anche per un’altra questione: l’imprescindibilità di una formazione robusta sulle tematiche più urgenti del nostro tempo. Questa imprescindibilità è data dal fatto che l’IA, l’Internet of Things, le ICT (Information and Communication Technologies), la rivoluzione digitale sono tematiche che riguardano così da vicino la natura umana al punto che un discorso antropologico (un discorso cioè sull’essenza umana) deve necessariamente tenerne conto dal momento che esse stanno letteralmente trasformando le strutture stesse dello stare-al-mondo dell’uomo.
L’uomo, cioè, non solo vive ormai in un ambiente nuovo (l’infosfera), non soltanto è parte di un grande meccanismo pervasivo realizzato dalla seconda fase, quella avvolgente, ma sta progettando una fusione sempre più integrale con neurotecnologie al punto da potersi prevedere, per un futuro non troppo lontano, la creazione di una specie bionica, vale a dire una specie – quella umana – che integrerà elementi tecnologici ed elementi biologici in una sintesi sempre più radicale. Tutto ciò sollecita noi educatori a formare, con speranza e ottimismo, le coscienze dei nostri studenti per renderle pronte a vivere in un mondo che sta cambiando radicalmente le sue strutture fondamentali.
Infine, ho cercato di chiarire un altro pregiudizio che solitamente accompagna, quasi in modo automatico, ogni discorso sull’IA. Solitamente si tende a pensare che un oggetto smart o un programma di IA siano dei duplicati dell’intelligenza umana. Così il termostato digitale dovrebbe essere, se fosse vero questo discorso, un oggetto smart che nel regolare la temperatura si comporta esattamente come un essere umano. Il punto difficile da cogliere, invece, consiste nel fatto che il termostato che gestisce la temperatura della nostra casa lo fa in un modo tale che, «se lo facesse un essere umano, noi definiremmo intelligente questo comportamento» (Conferenza di Dartmouth). Il punto è che non lo fa un essere umano! Pertanto, ad essere indistinguibile è il risultato finale (la temperatura ottimale raggiunta) non il processo che ha condotto a quel risultato. Completamente diverse, invece, sono la radice prima del comportamento e il comportamento stesso dell’oggetto smart.
La fonte del comportamento umano finalizzato ad uno scopo, come quello di mantenere la temperatura domestica entro certi livelli è diversa dalla fonte del comportamento del termostato che, per agire in questo modo, deve ricevere una programmazione ad hoc dall’esterno. Così come il comportamento che porta poi alla scelta è completamente non sovrapponibile. L’oggetto smart giungerà ad attivarsi attraverso una rilevazione della temperatura ed un’elaborazione dei dati che non è minimamente assimilabile ad alla percezione corporea e agli stati emotivi e ai percorsi di pensiero di un essere umano. Ad essere quindi identico è soltanto il risultato finale. Come giustamente ha rivelato il filosofo di Oxford Luciano Floridi, tutto ciò è segnale non di un “matrimonio” tra comportamento e intelligenza, ma di un “divorzio” tra capacità di agire e intelligenza.
Un oggetto smart, in altri termini, è un dispositivo che agisce ad intelligenza zero, ma lo fa raggiungendo obiettivi in un modo che ricorda, esteriormente e nel risultato finale, il comportamento realmente intelligente dell’essere umano. Non spiegare questi passaggi significa, a mio modo di vedere, consegnare gli studenti a visioni hollywoodiane e sentimentalistiche dell’IA e avvolgere quest’ultima in un’aura di mistero e anche di paura. Il punto, in conclusione, non è tanto quello di proteggersi da un’eventuale super-intelligenza che distruggerà la specie umana, ma capire quante deleghe possiamo fare alle macchine, agli oggetti, agli indumenti e ai programmi intelligenti senza far rischiare all’uomo una sua totale decentralizzazione.
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