
Due buone notizie negli ultimi giorni, una politica tout court (il congresso del Pd che comincia ad avvicinarsi), l’altra istituzionale (la riforma della giustizia annunciata dal ministro Carlo Nordio). La prima è la continuità di una rappresentazione stanca, che sta slittando su un binario senza fine e senza pathos, di assai scarso costrutto, per quel che riguarda il futuro della società italiana. La seconda tocca, invece, le corde profonde della vita stessa della nostra comunità nazionale.
Cerchiamo di capire dove si sta andando.
Il Pd, dopo la sonora sconfitta nelle elezioni politiche del settembre scorso, appare come un’anima in pena posta dinanzi ad un bivio drammatico, salire sulla barca di Caronte per l’inferno della dissoluzione o trovare il coraggio della resipiscenza e fare finalmente quello che non ha mai fatto dacché ha iniziato il percorso che, partendo dal partito comunista (Pci), lo ha portato ai giorni attuali, vale a dire assumere l’identità e la capacità in un soggetto politico riformista, abbandonando l’idea di inseguire una contrapposizione comportamentale figlia abortita del mito rivoluzionario acceso un secolo fa (Livorno 1921) con la scissione dal partito socialista.
E’ un passaggio difficilissimo, perché, essendo venuta meno l’ideologia originaria, a cascata sono caduti i principi e gli ideali. Da quando Enrico Berlinguer, negli anni ’70 del secolo scorso, propose il Pci come “partito di lotta e di governo“, la voglia di “lottare” ha lasciato posto alla smania di “governare”. La smania è un assillo, essere lì ad ogni costo, in qualunque situazione e senza troppo scegliere nelle alleanze, è un sintomo negativo, è la contraddizione del volersi proporre per realizzare un progetto alto e costruttivo come si richiede ad una forza politica che ambisce a guidare il governo di un grande paese moderno. E, ancora, “guidare” è cosa diversa dal “gestire”.
Purtroppo, in questi cinquant’anni, attraverso le tante stagioni che ha vissuto, il Pd è divenuto l’alfiere del gestionismo (si scusi il termine insolito). Ha gestito comuni, province, regioni, e tante tante volte il governo centrale. Ha allevato e cresciuto una classe di amministratori, più spesso capaci ed anche onesti, ma alla prova dei fatti ha fallito nella gestione in grande, quella che doveva portare l’Italia a fanfare spiegate nella modernità delle istituzioni, dell’economia, del welfare, dei servizi, della vita quotidiana dei cittadini, aprire e offrire non una speranza ma una certezza ai giovani.
Così, in attesa di un congresso che si terrà nell’anno a venire, il dibattito interno è incentrato sui nomi dei candidati segretari, belli, brutti, femmine e maschi senza che nessuno alzi un piccolo vessillo con su scritto quello che intenderà fare, uno straccio di programma. Si sente dire che non ci saranno correnti, tutti allineati e coperti, un’idea che nella società moderna fa davvero ridere. E gli interessi, personali e di parte, a cui i gruppi interni badano da decenni, dove finiranno, chi li garantirà?
Il Corriere della Sera, in un articolo apparso a pagina 11 del numero di martedì 6 dicembre 2022, presentava l’ “Annuario delle correnti, in ordine di importanza: Area Dem che fa capo a Dario Franceschini. Base riformista di Lorenzo Guerini. Dems, guidata da Andrea Orlando.” Tutte hanno un proprio candidato segretario, e si capisce come e perché sempre riportandoci agli interessi di cui sopra.
Il segretario uscente, Enrico Letta, dopo aver portato il Pd alla sconfitta, con la sua decisione di ritardare la propria uscita, sta distruggendo quel che resta del partito. La mancata e immediata cura dopo la disfatta elettorale sta peggiorando la ferita, che rischia la cancrena.
La discesa in campo di Elly Schlein, che ha espresso l’ambizione di portare il partito sul terreno del movimentismo, conal centro il femminismo, ha fissato i presupposti per una rottura della compagine : una parte lanciata alla rincorsa di un esito senza sbocco, un’altra che dovrà decidere dove andare e con chi stare. La questione del nome del prossimo segretario adesso ha meno importanza, la frattura è interna corporis. Dopo un secolo anche l’erede del Pci è giunto la capolinea. L’onda è arrivata.
Non c’è da festeggiare. Semmai vi è da interrogarsi sul futuro di questa società liquida che mangia i propri figli politici uno dopo l’altro: la Democrazia cristiana, il Partito socialista, il Partito repubblicano, il Partito liberale, e ora il Pd erede comunista, lasciando l’Italia senza punti di riferimento, senza una stella polare ad orientarla nella sua vita politica.
Una domanda finale va posta. Perché questo decadimento? Fenomeno che accomuna altri grandi paesi in Europa, dalla Francia alla Germania, quando il Vecchio Continente, ha vissuto e sta vivendo la sua più grande stagione di pace e di benessere?
Non basta attribuire le cause alla fine delle ideologie, né delle utopie, e nemmeno al cattivo comportamento dei governanti, delle classi dirigenti, politiche e no, che si sono alternate negli ultimi decenni. C’è dell’altro in questa liquefazione delle strutture portanti della società contemporanea, che soltanto gli storici saranno in grado spiegare. Forse!
Tuttavia, si deve rifuggire dalla disperazione, perché, come insegnava Pietro Nenni, “quando tutto sembra finito, c’è tutto da ricominciare”.
Chi qui scrive trova una speranza, un piccolo luminoso segnale che viene da un personaggio che nulla ha da chiedere alla carriera, Carlo Nordio, ministro in avanti negli anni, che ha trovato il coraggio di rompere il tabù di un sistema giudiziario intoccabile, lui che di quel sistema e in quel sistema ha trascorso una vita. Un uomo, finalmente, che dice le cose come stanno e si propone di cambiarle.
Quelli, come tanti di noi, garantisti, che veniamo dalla vecchia sinistra, e lì restano le nostre ragioni, abbiamo il dovere morale di sostenerlo. Se riesce sarà un’altra onda, quasi uno tsunami.
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