DUE MINUTI D’ODIO NON SI NEGANO A NESSUNO.

ATTENZIONE PERÒ A NON SOTTOVALUTARNE IL SIGNIFICATO

Tra i tanti anniversari che ricorrono in questo 2024 ce n’è uno che merita particolare attenzione per la sua capacità di stimolare la riflessione sulla corrente d’odio che, sedimentata nelle viscere dell’uomo, emerge dal fondo della storia del Novecento fino ad imporsi come un connotato della società contemporanea ultrapotenziato dall’uso incontrollato e spregiudicato dei social.

È quello della data simbolo 1984, derivata appunto da “1984” di George Orwell, il famoso romanzo distopico scritto nel 1949 che trasferisce in un futuro che allora poteva apparire lontano – il 1984, inversione delle ultime due cifre di 1948, anno di inizio della scrittura del romanzo –, la descrizione di un regime totalitario di massa, che spia e controlla tutto e tutti, ossessionato che qualcuno possa esercitare la propria libertà. Pur rileggendolo con gli occhi di oggi, non abbiamo difficoltà a sentirne la vicinanza. Che Orwell abbia esagerato in ottimismo pensando lontano il 1984?

Colpisce l’acume delle invenzioni che descrivono il sistema di potere e che esasperano quelle già insopportabili del regime staliniano cui pure si riferiscono: il mondo diviso in potenze che lottano per la supremazia totale, l’organizzazione del sistema con ministeri che fanno il contrario del nome che portano (quello dell’amore che organizza l’odio, quello della pace che promuove la guerra), il nemico comune eletto a capro espiatorio di ogni malvagità. Ma una è assolutamente geniale.

Si tratta dei “Due minuti d’odio”. Al segnale degli altoparlanti gli astanti, in ogni luogo e qualsiasi sia la loro funzione, si riuniscono spontaneamente come guidati da un riflesso condizionato pavloviano. Di fronte allo schermo che diffonde scene di guerra, provocazioni di ogni tipo e soprattutto immagini di Emmanuel Goldstein, il nemico supremo di Oceania, la superpotenza mondiale governata dal Grande Fratello, danno in escandescenze e sfogano il loro odio lanciando insulti e perfino scagliando oggetti. Il tutto sotto il controllo dei funzionari del partito: basta anche un gesto, un’espressione fuori dai canoni, per essere classificati come possibili traditori.

Orwell descrive così i due minuti d’odio: “La cosa orribile dei due minuti d’odio era che nessuno veniva obbligato a recitare. Evitare di farsi coinvolgere era infatti impossibile. Un’estasi orrenda, indotta da un misto di paura e di sordo rancore, un desiderio di uccidere, di torturare, di spaccare facce a martellate, sembrava attraversare come una corrente elettrica tutte le persone lì raccolte, trasformando il singolo individuo, anche contro la sua volontà, in un folle urlante, il volto alterato da smorfie. E tuttavia, la rabbia che ognuno provava costituiva un’emozione astratta, indiretta, che era possibile spostare da un oggetto all’altro come una fiamma ossidrica.”

Geniale descrizione di una condizione dis-umanizzata in stile Commedia dantesca, l’abbrutimento individuale in una società totalmente omologata in quanto collettivizzata. Ne sentiamo viva la repulsione. Però non credo si tratti solo del fatto che sappiamo bene che cosa è stato il regime staliniano e che cosa in generale hanno saputo fare i totalitarismi del Novecento. No, sentiamo che i simbolici due minuti d’odio sono ben vivi oggi, seppure non così organizzati e spettacolari come ce li descrive Orwell, anche nei regimi illiberali o teocratici dei nostri giorni.

Soprattutto, sono ben vivi e praticati nelle nostre democrazie liberali. In forme peraltro che stupiscono per la somiglianza proprio con quelle orwelliane. L’aspetto di società similcollettivizzata è dato dalla tecnica delle comunicazioni appunto collettive che, soprattutto con i social, produce omologazione di costumi, di comportamenti e perfino di sentimenti. Il segnale di adunata per i due minuti d’odio è dato dall’innesco di un qualche post (oggi sempre più spesso organizzato da poteri occulti, attivi a livello internazionale) che, appena appena coglie un aspetto pungente, problematico, urticante, inquisitorio, diventa virale e scatena il fiele individuale che diventa collettivo o viceversa.

Ne abbiamo esempi a piacere. Le manifestazioni d’odio spesso sono violente non meno di quelle del romanzo di Orwell. Il senso di dis-umanizzazione incombente ha però un sapore più acre e disgustoso proprio perché i minuti d’odio in una democrazia liberale indicano la presenza di un male che non può essere accettato come suo carattere connaturato, ma semmai come degenerazione che non si riesce a contrastare. Credo che non ce la possiamo cavare solo rinviando alla presunta naturale condizione umana né esaltando come contrasto le molte virtù dell’amore né richiamando l’esercizio dei doveri di civiltà.

Forse siamo già da una parte ad un problema di difesa e di sicurezza collettiva, e dall’altra al dovere di una battaglia culturale e politica di prim’ordine per la salvezza della democrazia. In ogni caso, parafrasando il richiamo che il filosofo americano Michael Walzer fa alla sinistra, possiamo dire: “C’è qualcosa che non va. È tempo che le persone di ogni colore abbandonino i loro astratti schermi protettivi per abbracciare una politica incentrata sulle persone”.


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