Il conflitto israele palestinese
EMILIO BATTISTI
Il 29 dicembre dello scorso anno il Sudafrica ha ufficialmente avviato un procedimento contro lo Stato di Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia, il più alto organo giudiziario delle Nazioni Unite, per atti di genocidio contro i palestinesi della Striscia di Gaza. L’ 11 gennaio 2024 si è tenuta la prima udienza pubblica.
La denuncia viene proposta ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948 ed è mossa nel contesto dei bombardamenti israeliani dopo gli attacchi terroristici guidati da Hamas, sottolineando che oltre 23.350 persone (diventate nel frattempo oltre 35mila) sono state uccise tra la metà di ottobre e il 3 gennaio e che Israele ha sfollato con la forza l’85% della popolazione della Striscia di Gaza.
Che sia stato proprio il Sud Africa a denunciare lo Stato di Israele è molto importante perché ha avuto, per certi versi, l’analogo problema: dover comporre il conflitto, generatosi con l’apartheid, tra varie componenti etniche, in quanto quella di colore è articolata in una decina di etnie mentre solo due quella bianca africander e inglese.
Varato nel 1948, tre milioni e mezzo di uomini e donne di etnia bantu erano stati sfrattati con la forza dalle loro case, privati di ogni diritto politico e civile, deportati nei “bantustan”, dovevano avere speciali passaporti interni per muoversi nelle zone riservate alle etnie bianche. Il superamento dell’apartheid ha comportato anche di annullare quella struttura territoriale articolata in differenti stati definiti su base etnica, per quanto permanga qualche volontaria articolazione territoriale con riferimenti etnici.
Travaglio, in un suo recente editoriale intitolato Stati senza statisti, ha scritto: “Trent’anni fa, dopo 27 anni di galera per terrorismo, Nelson Mandela diventava presidente del Sudafrica. E il suo predecessore bianco-boero Frederik de Klerk si degradava a suo vice. Due nemici divenuti statisti per salvare il Paese dal bagno di sangue dopo mezzo secolo di apartheid.
Proprio quello che manca oggi agli israeliani e ai palestinesi in questa carneficina infinita: due statisti.” Invece di due stati, aggiungo io.
Per quanto non sia utile riscontrare strette analogie con quanto avvenuto in Palestina con la fondazione dello stato d’Israele, la soluzione del conflitto tra ebrei e palestinesi deve, a mio parere, basarsi su una pacificazione tra le due componenti etniche e non sulla loro chiusura in ambiti territoriali separati ma strettamente interconnessi che resterebbero in permanente conflitto.
A SINISTRA, QUANTO STABILITO DALLA RISOLUZIONE 181 DELL’ONU; A DESTRA, ISRAELE DOPO LA GUERRA DEL 1948
Il 1948 è stato un anno veramente cruciale: oltre all’introduzione dell’aparthaid in Sudafrica, la Gran Bretagna rinunciò al mandato sulla Palestina, venne ufficialmente proclamata la nascita dello Stato di Israele e nello stesso giorno, il 14 maggio, gli stati arabi scatenarono la prima guerra arabo-israeliana e divenne operativa la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazione Unite che definisce il delitto di genocidio. E, per quanto ci riguarda. entrò in vigore la nostra Costituzione repubblicana.
Tornando alla drammatica situazione attuale, l’ultimatum di Benny Gantz a Netayiahu, che se non avesse presentato un programma per il dopoguerra riguardante la Striscia di Gaza avrebbe fatto cadere il governo, purtroppo, malgrado le aspettative, non sta avvenendo.Gli ultimi sondaggi rivelano che l’escalation della guerra iniziata dopo il 7 ottobre non dipende più solo dal perverso opportunismo di Netanyahu e dalla cinica volontà di Hamas, ma anche dall’accettazione da parte di molti israeliani e palestinesi. Secondo recenti sondaggi, da parte israeliana si è ridotto il divario tra il Likud, e il partito centrista di Gantz, leader dell’opposizione, che ha lasciato il gabinetto di guerra. I sondaggi mostrano inoltre che se le forze di destra e quelle ultranazionaliste si coalizzassero potrebbe battere sia il Likud sia il Partito dell’Unità Nazionale di Gantz.
Ma anche tra i palestinesi è aumentato il sostegno alla lotta armata come mezzo per porre fine all’occupazione israeliana.
Un sondaggio palestinese mostra che il sostegno alla lotta armata è aumentato al 54% mentre Fatah, guidata dal presidente Mahmoud Abbas, raggiungerebbe solo il 20%.
A otto mesi dall’inizio della guerra, due terzi dei palestinesi approvano l’attacco del 7 ottobre e il gradimento verso Hamas da parte dei gazawi resta al 57%.
Intanto Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha approvato per la prima volta una risoluzione che appoggia un piano di cessate il fuoco mirato a porre fine agli 8 mesi di guerra fra Israele e Hamas a Gaza, con 14 voti favorevoli, nessun contrario e l’astensione della Russia.
C’è proprio da sperare che la caduta del governo Netanyahu si verifichi quanto ’prima perché potrebbe essere l’innesco di un processo che, pur con tutte le incognite e i rischi, aprirebbe a una fase, che consenta di proporre a capo del governo uno statista di cui Israele è privo da quasi venti anni.
Infatti, Ariel Sharon, che ridotto in coma fin dal 2006 per un ictus moriva nel gennaio 2014, è la figura estremamente controversa, che può essere considerato l’ultimo, statista israeliano. Per quanto alla guida dell’Unità 101, sia diventato sinonimo di crudeltà e nel 1981 a seguito del massacro di Sabra e Shatila, giudicato responsabile per non aver impedito alle falangi cristiane di compiere la strage fu costretto a dimettersi. Cosa che oggi non succederebbe più.
Ma negli anni “Arik” aveva appreso che la forza non può essere la soluzione e avendo vinto le elezioni del 2001, dopo essere riuscito a limitare grandemente gli attentati dei kamikaze palestinesi, nel 2005 ritirò unilateralmente tutti i militari e i civili, facendo sloggiare dall’esercito 8500 coloni da Gaza, demolendo 21 insediamenti e restituendo il pieno controllo della Striscia all’Anp.
Poiché il Likud si spaccò, Sharon, insieme a Shimon Peres, fondò Kadima, che dopo l’auspicata vittoria alle politiche del gennaio 2006, avrebbe dovuto procedere nel disimpegno israeliano anche in Cisgiordania. Ma l’ictus del 4 gennaio pose fine ai suoi progetti mettendolo in stato vegetativo.
Nel frattempo anche ‘Arafat, personaggio altrettanto controverso, aveva combattuto nell’area di Gaza fin dalla prima guerra arabo-israeliana del 1948, per fondare, dopo alterne vicende, al-Fath e dopo, la battaglia di Karame, divenne portavoce dell’OLP e poi nel 1969 Comandante in capo delle Forze rivoluzionarie palestinesi.
Ricordo che proprio nell’estate di quell’anno in occasione di un viaggio assai avventuroso in tenda, mi recai imprudentemente presso il comando di al-Fatḥ per avere dei manifesti da riportare a Milano dove fin da allora le componenti filopalestinesi, nei movimenti extraparlamentari, erano molto attive.
A seguito del citato massacro nei campi di Sabra e Shatila che viene ricordato dai palestinesi come “il Settembre nero”, l’OLP si spostò in Libano e nel settembre 1972 il gruppo Settembre Nero rapì e uccise undici atleti israeliani durante i Giochi olimpici di Monaco di Baviera. Alla condanna internazionale si unì anche quella di ʿArafāt che si dissociò pubblicamente
Due anni dopo, nel 1974, ʿArafāt ordina all’OLP di sospendere qualsiasi azione militare e i capi di Stato arabi riconoscono l’OLP come unica rappresentante legittima di tutti i palestinesi. Due anni dopo la stessa OLP viene ammessa come membro a pieno titolo nella Lega Araba.
Il 5 novembre 1988 l’OLP proclama la creazione dello Stato della Palestina con un governo in esilio e il 13 dicembre ʿArafāt dichiara di accettare la Risoluzione n. 242 promettendo il futuro riconoscimento dello Stato di Israele e la rinuncia al terrorismo.
Attraverso alterne vicende, gli accordi di Oslo del 1993 che definiscono le rispettive competenze territoriali si arriva al summit di Camp David del 2000, in cui Ehud Barak propose una soluzione più vantaggiosa di quella del 1967: uno Stato palestinese sul 73% della Cisgiordaniae e sul 100% della Striscia con capitale Gerusalemme est. Arafat, ricattato dalle componenti più oltranziste dell’OLP, che probabilmente lo uccisero quattro anni dopo, perse l’occasione di comportarsi da statista facendo fallire il summit.
A Barak subentrò il massacratore Sharon che, con la sua provocatoria passeggiata sulla Spianata delle Moschee causò la seconda Intifada che durerà fino al 2005 con oltre 5000 vittime palestinesi e israeliane.
Perchè richiamare due figure tanto controverse? Perché statisti non si nasce ma si diventa, attraverso alterne vicende. Ma anche perché la tesi dei due stati all’epoca di Arafat e Scharon sarebbe stata ancora possibile. Ma a seguito dell’insediamento in Cisgiordania di oltre 700 mila coloni ebrei non ha più alcuna possibilità di essere realizzata.
Per quale ragione, malgrado la recente approvazione della legge che definisce Israele come “Stato-Nazione degli ebrei”, non si vuole riconoscere che Israele è nato ed è tutt’ora uno stato multietnico e soprattutto che al suo interno esiste una consistente componente di arabi israeliani chiamati anche arabi del ’48, discendenti dai palestinesi residenti in quello che divenne territorio israeliano? Nel 2022 risiedevano in Israele 2 037 000 arabi, costituenti circa il 21% della popolazione. Pretendere che Israele sia uno stato tendenzialmente monoetnico e mono confessionale rappresenta un pregiudizio che ha connotati razzisti perché il presupposto di ogni discriminazione nei confronti degli altri è la propria univocità identitaria in termini raziali e religiosi.
Fare ricorso ai due stati come espediente per ottenere il cessate il fuoco è legittimo ma può rivelarsi controproducente perché non c’è nessuno che possa razionalmente sostenere che questa possa essere la soluzione.
Ma il prezzo che hanno pagato e stanno tuttora pagando i due contendenti in termini di vite umane non può risolversi in un nulla di fatto o in una soluzione che peggiori la situazione attuale.
Le vittime accertate ufficialmente dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione guidata da Desmond Tutu durante l’apartheid sono state 21400 e si può immaginare che siano state molte di più.
Ma proprio loro sono state protagoniste del processo di pacificazione condotto dalla Commissione svelando i responsabili dei massacri eseguiti dalle due parti in lotta. Si arrivò ad accusare lo stesso presidente Mandela del reato di organizzazione di azioni armate e di sabotaggio, di cui si riconobbe colpevole. Così come molti, bianchi e di colore, furono indotti a riconoscersi colpevoli pubblicamente di fronte ai parenti delle vittime dei loro massacri.
Impensabile che una politica attiva di pacificazione si possa realizzare tra israeliani e palestinesi? Certamente fino a quando Netanyahu resterà premier e Yehya Sinwar capo dell’apparto di sicurezza di Hamas.
Per quanto riguarda Israele sarà il processo democratico, per quanto imperfetto, a decretare la fine di Netanyahu. Ma i palestinesi dovranno darsi un altro capo. Possibilmente come quello che è definito il loro Mandela: Marwan Barghouti, prigioniero politico in carcere da 21 anni, per aver guidato con diversi ruoli le prime due Intifade.
Nato in Cisgiordania, ha due lauree in Storia e in Scienze Politiche oltre a un Master in Relazioni internazionali. Entrato giovanissimo in al–Fatah è stato segretario generale del partito in Cisgiordania e nella seconda intifada fondò le brigate dei martiri di al-Aqsa, braccio militare di al-Fatah. Catturato e accusato di omicidi con finalità terroristiche si è dichiarato innocente ed ha rifiutato di difendersi perché non riconosce «la legittimità del tribunale israeliano». Non credo che possa essere liberato se eletto a capo dell’OLP, ma se ciò avvenisse un forte sostegno internazionale potrebbe servire, come è stato per Mandela.
Gli statisti servono ma sono i popoli a doversi imporre sui propri governi. Le elezioni europee sono andate come sono andate, ma non mi stancherò mai di citare Albert Camus che, l’8 agosto 1945, due giorni dopo la bomba atomica di Hiroshima e un giorno prima della seconda su Nagasaki, con un editoriale di Combat lanciava, in totale isolamento, il suo grido d’allarme: ”Davanti alle prospettive terrificanti che si aprono all’umanità, ci accorgiamo ancora di più che la pace è la sola battaglia che meriti di essere combattuta. Non è più una supplica ma un ordine che deve salire dai popoli ai governi, l’ordine di decidere definitivamente tra l’inferno e la ragione.”
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