Il trinomio inclusivo per una scuola vincente
Come ho già precisato io cercherò di stare molto alla larga dal pericolo di trasformare, questa mia breve relazione, in una sorta di dissertazione accademica. Questo è un pericolo che escludo non tanto per la tendenza generale della mia formazione, che essendo accademica mi porterebbe naturalmente verso un certo tipo di impostazione, quanto per una scelta ben precisa. C’è infatti differenza tra sulla scuola e parlare della scuola. Sembra una sottigliezza, ma non lo è. Parlare sulla scuola è una prassi accademica che spesso trova nella manualistica una sorta di realizzazione finale.
Solitamente accade che chi parla sulla scuola non è mai stato realmente a scuola e quindi immagina uno scenario paradigmatico e ideale molto lontano dalla realtà. È quello che accade – purtroppo – nei concorsi pubblici durante i quali ai canditati si richiede, in modo molto costruito e irrealistico, di immaginare interventi educativi acrobatici sulla base di diagnosi non veritiere – e spesso assemblate secondo comorbilità inverosimili – inventando di sana pianta una classe ideale che assiste alle attività didattiche progettate. Ci rendiamo conto che durante i concorsi, così come in una certa manualistica – in taluni casi anche in quella più scientificamente avanzata – c’è uno sfondo di inverosimiglianza assai significativo. Parlare della scuola, invece, implica un coinvolgimento diverso.
Questa espressione indica infatti un parlare di qualcosa a partire dall’interno. Implica, in altri termini, una sorta di argomentazione più simile alla testimonianza che alla dissertazione teorica. In questa circostanza, pertanto, ritengo che la testimonianza sia una modalità argomentativa più forte del ragionamento teorico, nella misura in cui la testimonianza racconta il mondo della scuola visto dall’interno, a partire da una microstoria di piccole conquiste, di piccoli risultati, di piccoli interventi, di piccoli avanzamenti che tutti insieme, poi, restituiscono la complessa e meravigliosa quotidianità della missione del docente.
Durante le mie lezioni al corso di specializzazione in attività di sostegno didattico ho suggerito ai corsisti lo studio di un testo di Richard Foxx, uno dei maggiori esperti dell’analisi comportamentale applicata e del metodo comportamentale. Foxx è un esperto a livello internazionale, ma non è un insegnante.
Questo cosa vuol dire? La risposta ce la dà Fabio Celi, docente di psicologia clinica all’Università degli Studi di Pisa nonché curatore dell’opera: «Il libro di Foxx che ho l’onore di presentare, è uno strumento prezioso, preciso, chiarissimo, ricco di esempi pratici, per imparare queste tecniche. Per impararle, lo ripeto. Poi, come le useremo, dipende da noi, perché Foxx è un grande conoscitore del modello comportamentale classico, oggi diremmo di prima generazione, ma non sa nulla di Alice, di Luca, della mamma di Stefano o della maestra Daniela»1.
Ciò vuol dire, in altri termini, che Foxx – ma ciò vale per qualsiasi altro teorico – non sa nulla della specificità di quella singola studentessa con disabilità intellettiva o di quel singolo studente con autismo, o di quell’altro studente con bisogni educativi speciali dovuti ad una configurazione unica di cause socio-familiari irripetibili. Ecco allora che di fronte all’insegnante di sostegno si profila la stessa difficoltà che caratterizza in modo stringente ogni intervento appartenente al complesso ambito delle helping professions: la mediazione tra concetti universali – appresi con lo studio e la ricerca – e le esigenze individuali della persona della quale ci prendiamo cura.
È lo stesso problema, sia chiaro, contro il quale si trova a lottare – quando la coscienza umana, prima ancora che professionale, gli impone di farlo – lo psichiatra che ha da mediare tra una conoscenza scientifica universale, relativa ad esempio al disturbo da attacchi di panico, e il panico di Francesco, vale a dire il panico di una persona reale con esigenze reali e inserito in contesto socio-relazionale e lavorativo reale. Questi miei continui rimandi alla realtà («reale, reale, reale….») non vogliono veicolare l’idea che la conoscenza scientifica del disturbo da panico sia, invece, irrealistica, ma vogliono semplicemente sottolineare che assai spesso – per non dire sempre – è difficile che lo psichiatra incontri un ‘paziente da manuale’. Questo è vero perché quel panico che lo specialista ha studiato negli articoli scientifici e nei trattati di neuropsichiatria è, platonicamente, l’essenza del panico, vale a dire una condizione psichiatrica disincarnata. Il problema si realizza, invece, quando quel panico si presenta allo psichiatra incarnato in una persona. In quel caso, infatti, il panico assume una forma umana che è più ambigua, più sfumata, più incoerente e più disordinata rispetto all’astrazione scientifica che il DSM-V – per ragionevoli esigenze scientifiche – invece propone. Se i criteri diagnostici del panico devono essere innanzitutto capiti, il panico reale di Francesco deve essere innanzitutto ascoltato e compreso. Nel primo caso c’è di mezzo un’attività scientifica, nel secondo caso invece è presupposta una reale relazione.
Fabio Celi scrive Foxx, quando scrive il suo libro sulle tecniche comportamentali, fa qualcosa di molto simile agli scienziati che, per verificare l’ipotesi di Galileo, hanno creato il vuoto in un tubo osservando che senza la variabile dell’aria una biglia di piombo cade al suolo alla stessa velocità di un piuma. «Il problema», osserva Celi, «è che nel mondo reale l’attrito c’è». E così come nel mondo reale le biglie cadono al suolo più velocemente delle piume, anche le persone nel mondo reale «hanno dentro la testa pensieri ed emozioni che interferiscono, potenziano o depotenziano le tecniche base»2 del metodo comportamentale.
Questa attenzione alla realtà è quindi un invito implicito al principio del life long learning? L’insegnante deve smettere di leggere, ricercare e partecipare a occasioni come quella odierna soltanto perché la realtà fattuale è sempre più ambigua, sfumata e imprevedibile rispetto a quello che la tanto deprecata teoria invece ci suggerirebbe?
La mia risposta è che nessun insegnante deve interrompere il processo di apprendimento continuo al quale è chiamato, soprattutto per coscienza professionale. Al contrario deve integrarlo con la cura di competenze relazionali rendendosi consapevole, per quanto concerne il nostro grado di scuola (parlo ovviamente della secondaria di secondo grado) di cosa ricercano oggi gli adolescenti – con o senza bisogni educativi speciali – dagli insegnanti.
Tutte le lezioni che ho tenuto al corso di specializzazione hanno orbitato intorno a quella che io considero, alla luce della mia modestissima esperienza scolastica, una verità assai importante del nostro tempo. Gli adolescenti a scuola oggi ricercano soprattutto una relazione significativa con gli adulti di riferimento. A questo proposito segnalo un testo del 2020 che si intitola L’adolescente. Psicopatologia e psicoterapia evolutiva, scritto dallo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini e colleghi, nel quale è espressa, in modo assai chiaro e ben argomentato, questa tesi che io mi limiterò a presentare senza scendere nei dettagli, onde evitare di disperdere tutto il tempo a disposizione.
Gli autori innanzitutto rilevano, in modo assai antitetico alla superficiale opinione comune, che negli ultimi decenni, la rappresentazione sociale della scuola è molto cambiata. Eppure, essi osservano che ciononostante «l’esperienza scolastica non solo non ha perso importanza, ma ne ha assunta una maggiore, declinandosi sempre di più come vicenda iperinvestita di significati affettivi e relazionali piuttosto che come luogo elettivo dell’apprendimento e della formazione culturale»3.
Nel nostro tempo la scuola sembra non essere più percepita dagli adolescenti come «tempio del sapere» ma come teatro relazionale nel quale gli studenti trovano l’occasione di realizzare il compito evolutivo più importante dell’età adolescenziale: la nascita sociale. Questa è una verità, si badi, che interessa trasversalmente sia gli studenti con bisogni educativi speciali sia cosiddetti normotipici. Gli autori dello studio mettono in luce, inoltre, una domanda che a noi docenti spessissimo, nella nostra quotidianità in classe, capita di ascoltare: «a cosa serve?».
È una domanda, questa, che gli studenti pongono perché raramente, purtroppo, incontrano insegnanti che sono in grado di associare, alla trasmissione delle informazioni durante la lezione frontale, anche una dimensione affettivo-relazionale in grado di dare un senso a quelle informazioni, in un’ottica di interesse verso la persona e il suo futuro, prima ancora che verso lo studente. La tesi degli autori è pertanto molto chiara: essi sostengono pertanto che «i giovani odierni fanno il loro ingresso in aula indossando principalmente i panni dell’adolescente, piuttosto che quelli dello studente, e, per questo, non si sottomettono all’istituzione scolastica, ma la interpretano come un ambiente significativo in cui poter dare libera espressione al Sé nascente». Si badi che questa è una trasformazione radicale che ci restituisce una concezione di scuola non meno importante rispetto a quella di qualche generazione fa.
Al contrario si potrebbe sostenere, a ragion veduta, che agli insegnanti oggi è dato un carico di responsabilità maggiore dovuto principalmente al fatto che «oggi gli adolescenti odierni non trovano ragioni plausibili per sottomettersi per principio al ruolo del docente»4. Pertanto, questo mancato riconoscimento aprioristico dell’autorevolezza dell’insegnante (che era tipico, per dirla con Recalcati, della Scuola-Edipo) fa sì che «l’autorevolezza, l’ascolto, la fiducia e la stima sono elementi che l’insegnante è chiamato a guadagnarsi quotidianamente sul campo, affinando le proprie capacità empatiche e relazionali e ponendosi come valido sostegno alla realizzazione del Sé»5.
Alla luce di queste ragioni che io, per motivi di tempo, ho brutalmente riassunto, appare evidente che l’esperienza scolastica del nostro tempo, pur nelle estreme difficoltà che noi insegnanti spesso viviamo nella nostra quotidianità in aula, è divenuta più drammaticamente sincera. La sincerità è data dal fatto che non realizzandosi più quell’automatica sottomissione all’insegnante – che difatti, come sappiamo bene, non è più temuto e rispettato soltanto per il suo ruolo – sulla scena della classe non ci sono più personaggi che interpretano un ruolo per paura delle punizioni, dei voti, delle bacchettate, delle note e dei rimproveri. In classe, oggi, ci sono adolescenti che portano sulla scena se stessi, ecco la grande verità del nostro tempo. Conta molto, osservano pertanto gli autori, «la relazione instaurata con adolescenti che non temono come in passato il giudizio degli insegnanti, i richiami, le note, le punizioni, ma che, in compenso, ci rimangono male, e a volte soffrono, perché attribuiscono un valore mai dato prima al rapporto con il docente, ricercato come adulto significativo, in grado di sostenerli nel percorso di formazione identitaria»6.
C’è quindi una dimensione scientifica dell’insegnante di sostegno che è quella relativa al suo apprendimento permanente delle metodologie didattiche, dei disability studies, degli aspetti medici anche delle varie forme di disabilità. Noi non siamo clinici, vale la pena di sottolinearlo, e pertanto non facciamo diagnosi. Tuttavia all’insegnante specializzato è richiesta la capacità di riuscire ad entrare in una diagnosi, e quindi di comprendere il funzionamento intellettivo e comportamentale originato da quella precisa disabilità per poi procedere alla progettazione di interventi psicoeducativi e didattici mirati. Spesso ho consigliato durante le lezioni al corso di specializzazione un approccio alla disabilità basato soprattutto sulle testimonianze, in modo tale da riuscire a comprendere, leggendo proprio i vissuti delle persone con disabilità, cosa effettivamente si prova (capacità empatica) e di cosa hanno realmente bisogno.
Soltanto in questo modo la formazione scientifica non resta prigioniera di un approccio solamente clinico ma si apre verso un’umanizzazione della disabilità, che è una dimensione imprescindibile che non bisogna mai perdere di vista. All’insegnante del nostro tempo (sia esso di sostegno o curriculare) è richiesta, quindi, una grande apertura verso la narrativa dello studente, vale a dire un’apertura verso una dimensione esistenziale che lo studente medio di oggi tende a privilegiare rispetto ad altre dimensioni, come quella dell’apprendimento e dello sviluppo di competenze, che non sono eliminate, ma non godono più di quella priorità che ha caratterizzato a lungo i vecchi modelli di scuola. Per far fronte alla sfida educativa del nostro tempo – appunto per contribuire a realizzare una scuola vincente – è quindi quanto mai necessario per l’insegnante sviluppare abilità relazionali assai potenti in grado di consentirgli di entrare, per dirla in un modo che ricorda lo stile espressivo di Rogers, nello schema di riferimento dello studente. L’insegnante deve, in altri termini, mettere in gioco realmente se stesso, così come fanno gli studenti – spesso con una drammatica sincerità – per riuscire a creare una relazione autentica fondata sul quel trinomio inclusivo e universale che ha dato il titolo al nostro incontro odierno.
Testo della relazione di Francesco Luigi Gallo al Convegno: “Empatia, Relazione e Comprensione: il trinomio inclusivo per una scuola vincente” (Corigliano Calabro, 13 maggio 2023).
1 R. Foxx, Tecniche base del modello comportamentale. Sviluppare le abilità e ridurre i comportamenti problema, a cura di F. Celi, Erickson, Trento, 2021, p. 10.
2 Ivi, p. 11.
3 M. Lancini, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella, L’adolescente. Psicopatologia e psicoterapia evolutiva, Raffaello Cortina, Milano, 2020, p. 21.
4 Ivi, p. 184.
5 Ibidem.
6 Ibidem.
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