L’unica cosa veramente sicura è che il mondo intorno a noi sta affrontando, per di più in tempi brevissimi, una delle più grandi transizioni della sua plurimillenaria esistenza.
Il cuore della transizione è la contemporaneità fra la totale mondializzazione del mercato e la finanziarizzazione dell’economia e, all’interno di essa, della estrema finanziarizzazione del profitto.
E naturalmente, come ciascuno vede e sente, queste strutturali modificazioni si affiancano ad altrettali modificazioni nel campo che un tempo si sarebbe definito sovrastrutturale: cultura, comunicazione, valori diffusi e così via.
La transizione (intransigente, verrebbe da dire) svuota rapidamente di significato i caposaldi del nostro vivere sociale.
Crolla per primo il concetto di Stato – Nazione con la ricchezza di certezze e di valori che lo accompagnavano da secoli, quando non da millenni.
Come si valuta e determina oggi il concetto di “interesse nazionale”?
Come andrebbe giudicata ed eventualmente sostenuta l’impresa nazionale che decida di de – localizzarsi o di porsi al riparo di un equity fund che dispone di capitali provenienti da decine di migliaia di km e simbolicamente dislocati nella grande Sfera virtuale che tutti ci circonda?
Farebbe bene o male? O non farebbe quel che soltanto può fare per andare avanti?
E non illudiamoci che solo grandi questioni siano sottoposte all’irresistibile mutamento.
La stessa area dei rapporti interpersonali, soprattutto se legata ad attività produttive, viene ferocemente modificata e stravolta.
Le forme di schiavismo contemporaneo che si rivelano legate al bracciantato agricolo (e non solo nel Sud) non appartengono nemmeno al contesto dei normali rapporti capitalistici in cui lo sfruttamento della forza – lavoro poteva essere spietato ma si inseriva comunque in un percorso più generale di sviluppo e di crescita anche della libertà individuale.
Lo stesso frenetico ed insopportabile aumento delle morti sul lavoro, che sfiora ormai cifre precedenti lo Statuto dei Lavoratori, è figlio di un meccanismo in cui chi ottiene un appalto è totalmente indifferente ai risultati e alle modalità di esecuzione del lavoro.
La generazione del profitto avviene attraverso una catena di successive subconcessioni che alla fine, e inevitabilmente, non lo determinano più nella “normale differenza” tra il plusvalore aggiunto dal lavoro umano e il costo dello stesso.
Inoltre, essendo i percettori dei profitti figure finanziarie, è totale l’indifferenza per l’indignazione che si genera come per l’eventuale sanzione amministrativa o penale.
Nel giro di pochi anni va scomparendo la figura dell’imprenditore che collega con orgoglio il suo nome e la sua immagine all’opera realizzata.
Ci circonda un universo di sigle più o meno armoniose che incrociano al loro interno capitali di non identificata origine.
Nel terzo libro di Il Capitale Karl Marx ebbe una visione (o meglio un incubo) di un futuro in cui il capitale si sarebbe riprodotto autonomamente, senza passare più per le merci fisiche.
Ma il fatto che il filosofo lo abbia sognato non è una grande soddisfazione.
Una delle conseguenze indirette della transizione in atto è la palese crisi delle letture politiche di quanto sta avvenendo.
Le tradizionali, più o meno, analisi del quadro hanno repentinamente perso qualunque valore.
L’economia (con l’organizzazione sociale che ne discende) veniva, nelle società occidentali e democratiche, indirizzata dalla politica.
Ad essa spettava il compito di rappresentare e organizzare i bisogni e i valori della società civile sulla base di obiettivi condivisi e individuati tramite libere elezioni.
In questo fondamentale compito la politica politicante era affiancata da un complesso sistema che comprendeva i sindacati, le organizzazioni di interessi economici e tutto un fitto insieme di comunicazione e scambio.
Di fronte alla evidenza della fine di questi ruoli i soggetti preposti alla rappresentanza hanno iniziato, per cercare di sopravvivere, a dotarsi di quelle che ritengo si possano ben definire come “fasulle identità”.
Vale a dire che, piuttosto che ammettere di non essere in grado di esprimere alcuna valutazione effettiva sui fenomeni in corso, tutte le parti cercano di rendersi riconoscibili facendo ricorso a elementi irreali.
Tra questi primeggia l’evocazione del regime fascista che viene dato come tentante di rinascere.
Occorre essere chiari. Non soltanto non vi è alcun pericolo fascista ma i veri processi in corso sono, al contrario, l’esatto opposto della dottrina mussoliniana.
Lo Stato, in essa centrale e ineludibile, sta perdendo ogni potere sulla economia e sulla conseguente organizzazione sociale.
Proclamarsi antifascisti è facile ed anche bello.
Non ha però alcuna connessione effettiva con la partita che si gioca oggi in Italia e nel resto del mondo.
Paradossalmente, però, questa sciocchezza regala un’altra fasulla identità alla forza che vorrebbe contrastare.
Il governo di centro destra non sta facendo assolutamente nulla che corrisponda ai suoi programmi e a quella che dovrebbe essere la sua identità proclamata.
Abbiamo un governo che si dichiara nazionalistico ma che vende tranquillamente a un fondo americano l’intera rete di telecomunicazione italiana.
En passant, il fondo è diretto da un generale americano, ex direttore della CIA.
Diciamo che per un governo accusato di ispirazione fascista è una bella contraddizione.
Ma, per fortuna, sembra interrotta la prospettiva di vendita del porto di Trieste a un fondo cinese – tedesco.
Tuttavia queste identità fasulle combattono tra loro una guerra che potrebbe sembrare anche vera.
Il “campo largo” di sinistra non fa una reale proposta di sinistra ma si impegna a fondo contro quattro giovani squadristi che mai avrebbero sognato di diventare così importanti e significativi.
Il centro – destra si affanna sul tema degli sbarchi e si contorce alla vista delle decorazioni esibite dai partecipanti ai Gay Pride.
Nessuno, letteralmente nessuno, si assume l’onere di spiegare agli italiani cosa sta realmente succedendo e come potremmo tentare di mantenere la nostra identità nel mondo che viene.
Ma del resto, diciamolo, non siamo soli.
Uno sguardo, come sempre, oltre oceano e ci sentiamo subito un poco meglio. O no?
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