I suoi genitori dovevano essere entrambi un po’ megalomani perché il nome completo che decisero di dare al povero bambino fu Dante (Alighieri, ovvio) Michelangelo (Buonarroti, naturalmente) Benvenuto (di sicuro, Cellini) e finalmente un normale Ferruccio.
Il padre, Ferdinando Busoni era un noto clarinettista empolese, la madre una ugualmente nota pianista triestina; suonavano spesso insieme e nei loro viaggi si portavano dietro il pupo.
Fin da piccolo è introdotto dai genitori alla musica e a 12 anni ha già scritto un concerto per pianoforte e archi.
Comincia a girare; si diploma in composizione a Graz, poi si sposta a Lipsia e infine va a insegnare pianoforte a Helsinki, con Sibelius come allievo. Continua il suo lavoro a Mosca, dove, già che c’è vince il premio pianistico Rubinstein, poi riceve un invito dalla casa Steinway e se ne parte per gli USA, dove si ferma per un po’, anche qui a insegnare, a Boston al New England Conservatory, poi passa a Vienna dove incontra Brahms che lo riempie di preziosi consigli e finalmente si ferma a lavorare e ad abitare a Berlino. Un globetrotter.
All’inizio della prima guerra mondiale lo incontriamo a dirigere il Conservatorio di Musica di Bologna, dove però si trova male per la disorganizzazione e l’arretratezza dell’istituzione. Tanto che decide di trasferirsi a Zurigo.
In questo periodo conosce Umberto Boccioni, pittore esponente del movimento futurista, che gli fa questo magnifico grande ritratto.
Alla fine della guerra Busoni rientra a Berlino e da lì comincia una vita infernale di viaggi in tutto il mondo come direttore d’orchestra, come pianista solista, come insegnante in corsi di altissima specializzazione. Ogni tanto cerca di rallentare, ma invano, questa trottola che, a quanto confessa in alcune sue lettere, tiene in movimento quasi solo per ragioni economiche.
Mentre vorrebbe dedicarsi principalmente alla composizione.
A proposito di composizione, prima della guerra, intorno al 1913, era partito il progetto di un’opera ispirata a Leonardo da Vinci in collaborazione con Gabriele D’Annunzio. Dopo un corposo scambio di corrispondenza ci fu un incontro a Parigi, e venne fuori, come ci si doveva aspettare, che fra i due narcisi non c’era e non ci sarebbe mai stata quell’affinità di spirito (e quel pizzico di umiltà) indispensabili per una buona collaborazione. Episodio chiuso e niente di fatto.
Quando Busoni si renderà conto di essere arrivato in vetta alla sua carriera concertistica, applaudito da tutto il mondo musicale per il suo talento ”non potrà che dolersi di questo suo dono, da lui accettato piuttosto come un peso, che lo distoglieva dall’attività del comporre, verso la quale sentiva di essere naturalmente portato”.
A suo nome esiste dal 1949 un prestigiosissimo concorso pianistico, il cui primo premio è a un livello talmente esagerato che è quasi impossibile assegnarlo, e così il podio spesso rimane vuoto e trionfano i secondi e terzi posti.
Leggendarie sono le sue trascrizioni per pianoforte delle composizioni per clavicembalo di Bach, in realtà veri e propri trasferimenti delle vecchie geniali idee del vecchio geniale maestro alle nuove potenzialità del pianoforte, uno strumento molto più ricco ed espressivo di quello limitatissimo che Bach aveva a suo tempo a disposizione.
Busoni fa in tempo ad assistere ai primi passi della tecnologia e incide qualche disco a 78 giri, naturalmente oggi inascoltabile. Rimangono invece diversi rulli di pianola, recentemente ripuliti e trasferiti su CD che risultano interessanti come documenti, ma non sono abbastanza utili per indagare una sua innovazione tecnica: l’uso del terzo pedale di cui fu pioniere, riuscendo a convincere la Steinway a montarlo sui suoi nuovi gran coda.
Dopo tutto quel vagabondare fin da quando era piccolo da un teatro all’altro, da una scuola all’altra, al massimo dei giri senza fermarsi mai, il motore comincia a perdere qualche colpo e Ferruccio Busoni, ritiratosi nella sua casa di Berlino per di riposarsi come aveva in programma, invece muore, potremmo dire di stanchezza, il 27 luglio 1924.
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