FLY ME TO THE MOON

Fly Me to the Moon intonava magicamente nel 1964 the voice, Frank Sinatra, con l’orchestra di Count Basie, su un pregevolissimo arrangiamento di Quincy Jones. In realtà il brano di Bart Howard, dal titolo originale Other Worlds, era stato composto già dieci anni prima e l’aveva inciso Kaye Ballard. Ma toccò a Sinatra renderlo popolare e ufficialmente denominato con i primi versi del testo. Gli stessi ripresi oggi dal film di Greg Berlanti, che rimette in gioco le teorie complottiste sull’allunaggio del 21 luglio 1969.

È un tema ricorrente. I cospirazionisti trovarono un forte appoggio in Capricorn One, di Peter Hyams (1978), che trasferiva l’ipotesi di un falso mediatico al volo per Marte. Questo viene presentato al pubblico grazie a una ricostruzione in studio, vista l’impossibilità di realizzarlo concretamente. Sennonché, si rende necessario eliminare coloro che potrebbero svelare la verità: gli astronauti dell’equipaggio.

Nel 2015 esce Moonwalkers, diretto dall’esordiente Antoine Bardou-Jacquet, una deliziosa commedia ambientata al picco degli anni ’60, che mette alla berlina la sottocultura hippie e psichedelica, evocando anche il presunto regista del falso sbarco, Stanley Kubick.

Analogo a Operazione Avalanche, di Matt Johnson, del 2019, in cui si fa esplicito riferimento all’ipotesi che lo “spettacolo” dell’allunaggio fosse stato opera dell’autore di 2001 Odissea nello spazio. In cambio, il regista avrebbe ottenuto dalla NASA la consulenza per le riprese, tutt’ora insuperate, del suo capolavoro.

Vi si aggiunge una bibliografia ormai di culto: l’inedito in Italia NASA mooned America (la NASA prese in giro l’America), autopubblicato da Ralph René nel 1992, Non siamo mai andati sulla luna, di Bill Kaysing, del 1997, il più ricco di documentazioni in materia, e il francese Lumieres sur la lune (luci sulla luna), di Philippe Lheureux, del 2001. Più tardi, dopo l’avvento di Internet, di YouTube e dei sociale, sono ormai virali filmati, pseudodocumentari e allusioni a reperti extraterrestri sul satellite terrestre. Soprattutto le conferenze tenute da Armstrong, Aldrin e Collins al ritorno. Gli astronauti hanno facce spaurite e non certo trionfanti.

Che sulla luna si sia andati davvero lo proverebbero i campioni minerali riportati sulla Terra e l’impossibilità di allestire una cospirazione con la complicità di centinaia fra tecnici, funzionari e addetti ai lavori.

Per gli italiani, ai precedenti letterari, cinematografici e scientifici, la fascinazione lunare si arricchisce di un volto e di una voce, quelli di Tito Stagno, scomparso il 1º febbraio del 2022, che si è ripercorso nell’autobiografia, Mr. Moonlight. Nel 1969 il giornalista aveva 39 anni e da dieci seguiva le fasi avvincenti dell’approccio americano ai viaggi spaziali. Aveva anche cenato con Wernher von Braun, lo scienziato tedesco che, dopo essersi distinto con l’invenzione delle V1 e V2 per Hitler, si dedicava alla struttura dei razzi Saturno, concepiti per portare nello spazio le navicelle. Il 20 luglio condusse la prima diretta non stop della RAI. Fu l’apice di una carriera che in seguito prese altre direzioni. «Questo è un lavoro maledetto. Ti risucchia giorno per giorno. Più lo ami e più ti fa a pezzi» scrisse Stagno. Al suo trionfo del «giorno della luna» seguì lo stress, che lo portò a un ricovero in clinica. Eppure per Stagno vi fu una rivalsa umana che coincise con quella professionale. Probabilmente a confortarlo, oltre all’affetto dei cari, fu il ricordo dell’amicizia con l’astronauta Frank Borman, che gli affibbiò il soprannome di Mister Moonlight e lo scrisse su una foto del giornalista scattata alla TV, dove alle sue spalle appare la rotta dell’Apollo dalla Terra alla Luna.

Eppure proprio alla diretta che condusse quella storica notte si deve un altro tassello che lascia perplessi. Vi fu un divario tra il programma da Roma e l’audio di Houston. Quando Stagno esclamò: «È atterrato!», Ruggero Orlando dagli Stati Uniti commentò: «Scusa, Tito, chi te l’ha detto?»


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