Il 23 marzo del 1944 i partigiani di Roma fecero saltare in aria il carrettino di uno scopino sulla via Rasella, proprio mentre passava il battaglione Bozen degli occupanti tedeschi. Sul selciato rimasero 32 soldati, un altro morì poco dopo. La reazione dei tedeschi fu ferocissima. In un primo momento si misero a sparare all’impazzata su tutte le finestre della via, pensando che la bomba fosse venuta da lì, poi organizzarono la rappresaglia. Hitler indignato comandò che si facesse una eccezione: 50 italiani contro ogni tedesco morto, ma gli fecero notare che sarebbe stato molto difficile reperire 1650 vittime in pochissime ore, e si tornò al già terribile “dieci italiani per un tedesco”, una “legge di guerra” imposta dai tedeschi e non riconosciuta da nessuna convenzione internazionale.
Cominciò una corsa contro il tempo per mettere insieme le liste dei disgraziati, svuotarono il carcere di Regina Coeli, dando la precedenza agli ebrei, e poi ai politici e poi si arrivò anche ai detenuti per reati comuni, si misero sull’elenco anche alcuni detenuti che stavano per uscire dal carcere. Le liste furono ordinate dalle SS, comandate da Kappler con il suo aiutante Priebke, al questore di Roma Caruso, il quale nella foga finì per consegnare cinque nomi in più, 335 invece di 330. La compilazione delle liste durò tutta la notte e tutta la mattina del 24 marzo.
Contemporaneamente Kappler individuò il luogo della mattanza in una cava abbandonata sulla via Ardeatina. Dopo poche ore dall’attentato, il 24 alle 13, i 335 martiri furono fatti entrare cinque per volta dentro la cava con le mani legate dietro la schiena, furono fatti inginocchiare e colpiti alla nuca. Alcuni soldati tedeschi che non riuscivano nella loro parte di boia (“sono un soldato, non sono un boia” pare che abbia detto uno di loro) venivano incitati dall’esempio di Priebke. Si disse che i cadaveri ritrovati erano 336, perché tra loro c’era anche un soldato tedesco che si era rifiutato. Quando si accorse che gli erano stati consegnati cinque uomini in più, Kappler decise di assassinare anche quelli, rei “di avere visto quello che non avrebbero dovuto vedere”.
La mattanza durò più di sette ore. Alla fine, l’ingresso della cava fu minato e i cadaveri vi rimasero sepolti.
C’era anche un prete eroico, don Pietro Pappagallo, che ispirò a Rossellini il personaggio di Roma, città aperta interpretato da Aldo Fabrizi: Don Pappagallo è uno dei tanti preti che parteciparono alla resistenza romana, aiutando i partigiani, nascondendo gli ebrei e gli antifascisti, pagando spesso con la propria vita. Don Pappagallo era a Regina Coeli, arrestato dai tedeschi proprio nella sua parrocchia, e fu messo nell’elenco di quelli che furono avviati alle Ardeatine. Oggi la salma dell’eroico sacerdote non è più nel sacrario ma a Terlizzi, suo paese natale.
Alla fine del 24 il comando tedesco annuncia la rappresaglia, a cose fatte, concludendo con le parole “La sentenza è stata eseguita”. Per conoscere i nomi (12 di loro a distanza di 70 anni sono ancora senza nome) e il numero delle vittime bisognerà aspettare tre mesi, dopo la liberazione di Roma, quando si andrà a scavare sulla cava sull’Ardeatina. Le immagini dei famigliari chiamati a riconoscere i resti dei loro cari li terremo sempre nei nostri occhi e nella nostra memoria collettiva.
Dopo la guerra si fece giustizia soltanto in parte: il questore Caruso fu fucilato per aver consegnato cinque nomi in più di quelli richiesti; il colonnello delle SS, il feroce Kappler, fu condannato all’ergastolo per aver fucilato quei cinque poveretti. Un ergastolo che scontò per trenta anni quando, malato terminale, fu fatto evadere in maniera assurda dall’ospedale militare di Roma, con una evidente complicità dei servizi segreti italiani. Priebke, dopo una quarantina di anni trascorsi in tranquillità in un paese dell’Argentina, fu individuato e catturato e quindi condannato a un ergastolo che ha vissuto fino a 100 anni in un elegante appartamento di Roma, a spese dello Stato italiano.
Ancora oggi, a distanza di quasi 80 anni, ci sono persone che contestano ai partigiani attentatori di Via Rasella di non essersi consegnati, lasciando così morire 335 innocenti. Oramai la Storia ha accertato la verità incontrovertibile: l’attentato fu un legittimo atto di guerra, contro un nemico dichiarato che occupava nel terrore il territorio patrio con torture e fucilazioni, violando il patto contenuto nella dichiarazione di Roma “città aperta”.
E poi la notizia della esecuzione dell’orribile rappresaglia fu data a cose fatte.
Lo stesso feldmaresciallo Kesselring, comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, in persona ha chiarito nella sua testimonianza al processo nel novembre 1946, “che non fu attivata alcuna procedura precedente la rappresaglia per fare appello alla popolazione o agli attentatori, e che non venne emesso alcun avvertimento pubblico riguardo la rappresaglia e la proporzione dieci contro uno e che non fu presentata alcuna richiesta ai partigiani di consegnarsi per evitare l’eccidio”
La Cassazione e il tribunale internazionale dell’Aja riconobbero che l’attentato di Via Rasella fu un legittimo atto di guerra, contro un esercito occupante che stava facendo vivere nel terrore da otto mesi il popolo romano. Prima di Via Rasella c’era stata la razzia del Ghetto e Via Tasso dove venivano torturati a morte gli antifascisti. Per non parlare dei tanti eccidi e deportazioni di ebrei e non ebrei. I Gap (gruppi di azione patriottica) cercavano di rispondere con le armi a tanto orrore.
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