FRANCESCO, IL GIORNO DEL CONGEDO

Podcast n. 141

Le “divisioni del Papa” sono la piuma di un potere simbolico. Ma quanto pesa quella piuma?

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Conscio, di una salute stremata. Costretto alla sedia a rotelle. E tuttavia lui, il Pontefice, il Vicario di Cristo, vestito di bianco e con le scarpe nere fatte dal ciabattino di fiducia, senza nemmeno discorsi da pronunciare, ingegnere di un grande ponte simbolico per sollevare da una gattabuia romana centinaia di sbandati.

Lo avevo scritto, introducendo una breve, modesta riflessione sulla comunicazione simbolica.

Niente in confronto a quel che è successo nelle ore successive, nei giorni successivi, fino al giorno del reale congedo.

Quello in cui, in apparenza, tutto è enormemente materiale (macchine, aerei, cortei, scorte, polizia, cavalli di frisia, cupole, campane, come è anche materiale la scomparsa fisica di un protagonista della scena);  ma poi tutto è al tempo stesso enormemente immateriale, enormemente evocativo.

Nella nostra settimanale indagine sulla “rappresentazione”, questa della narrazione simbolica finisce per essere una cosa tra le più fluide, più sfuggenti, più incerte.

Appare, non appare. Resta, non resta. Viene percepita, non viene percepita.

Le dittature organizzavano (e organizzano ancora) adunate oceaniche attorno al potere e al consenso. Due concetti astratti, ma fatti con i muri di cemento e con le catene d’acciaio. Agivano come agiscono sulla subliminalità, convergendo sulle debolezze degli umani e dunque trasformando qualunque materialità in un rito verticale. Il capo, il popolo.

Nel grande spazio del giorno del congedo, quello immaginato dal Bernini come un immenso abbraccio, il potere e il rito sono stati separati in due quartieri. Uno rosso per i prelati, uno nero per i poteri civili. Connessi, certo, nell’autopercezione di rappresentare poteri, ma  frammentati nell’individuare quale rito realmente rappresentare.

E poi un terzo soggetto. Un popolo, altrettanto immenso (400.000 persone si è detto, accorse ai funerali del Papa venuto dalla fine del mondo),  con la forza di mettere in campo tantissimi giovani e tantissimi rappresentanti di quella “fine del mondo”). Un popolo pronto a ricordare che anche loro, in quel congedo, diventano rito. E in un certo senso così diventano anche potere.

Ecco, così la celebrazione si sposta da un dato antico a un dato moderno.

Dal rito verticale delle nostre memorabili e vergognose dittature, a questo rito orizzontale che obbliga tutti ad avere bisogno anche degli altri. Dunque, in qualche modo un rito orizzontale. Sopra a cui c’è solo Dio. E ovviamente il suo Vicario.

Si è mescolata (ma che curiosa sceneggiatura!) la morte del Papa con la celebrazione della Pasqua (già mescolata per parte sua tra quella Cattolica e quella Ortodossa). E poi si è mescolato questo rito orizzontale con quello più verticale di tutti, quello della verticalità violenta, costituita dalle guerre, dalla  rappresentazione in cui – come scrisse Eschilo – la prima cosa che muore è la verità, cioè la verticalità violenta della guerra: una spaventosa, di invasione;  l’altra vigliacca, di rappresaglia.

Si è parlato – anzi esclamato – di “diplomazia funeraria”. Non so se esista davvero una magica diplomazia funeraria. Trump e Zelensky erano entrambi alla ricerca dello sguardo del mondo per porre in atto una sequenza simbolica che cancellasse l’inutile brutalità dell’episodio della Stanza Ovale. Un danno per tutti.Uno per non perdere la funzione di mediatore; l’altro per non perdere nell’ora più buia la rappresentazione formale delle forze in campo (americani compresi). 

Magari quello non resterà l’unico esito di quelle due magiche sedie, improvvisate da un monsignore che era parte del cerimoniale, in una sorta di miracolo di Francesco. Evolverà.  

Oppure sarà il contrario. Sarà la prassi del negoziato che non negozia nulla lasciando alla violenza decidere sorti non più componibili, prassi che potrebbe riprendere già domattina la sua virulenza.

Ma va detto che per qualche giorno, per qualche attimo di intensa luce, negoziati e vecchi stereotipi hanno lasciato il posto a una sceneggiatura, piena di pause, anche di silenzi,  regolata dalle forza del potere simbolico che infrange  il motore diesel della consuetudine opaca dei poteri verticali.

  • In un caso si dirà che le divisioni del Papa (su cui ironizzava Stalin) pur ridotte a essere una piuma simbolica pesano sulla bilancia della coscienza del mondo più della realpolitick.
  • Nell’altro caso si dirà che esse pesano caso mai come un momento di abbaglio, di illuminazione biblica. Forse sono in grado di  scompaginare il brevissimo termine; magari, caso mai, aprono contraddizioni e ripensamenti. Ma poi alla fine tornano nel loro confine, appunto, simbolico.

Quel popolo, che si è posto al centro dei due schieramenti di potere, probabilmente peserà sulla scelta del nuovo Papa. E -chissà – forse peserà un po’ anche su questo quesito.

Alimenterà in questi giorni una narrativa sul raggio della comunicazione che forse in Occidente non abbiamo visto fino in fondo (salvo sapere la contabilità delle infinite missioni di Papa Francesco in ogni angolo di quella “periferia del mondo”).

Poi – giorno per giorno –  il potere di quella luce dissuasiva, che si è manifestato nella mescolanza tra la Pasqua del 2025 e la scomparsa di Francesco; non sarà più solo fronteggiato con l’ipocrisia dei tanti, che è apparsa evidente ma è apparso anche evidente un segno della loro  debolezza.

Sarà fronteggiato dalle “divisioni” rappresentate da interessi (non solo militari, ma anche economici e persino comportamentali), “divisioni “ che non hanno bisogno di essere troppo raccontate perché costituiscono quello che una volta si chiamava il Popolo di Dio e che ora, messo sotto i riflettori della demoscopia, esce come il soggetto ad avere almeno per una parte abbandonato la seduzione dei simboli religiosi e persino di quelli spirituali.

Qualcuno dice che questa volta nel popolo, accorso nelle braccia del colonnato di San Pietro e nella devozionale basilica di Santa Maria Maggiore nei giorni di testimonianza, ci sia anche una componente nostra – occidentale, anche italiana – ormai non più praticante ma che non ha rinunciato chi alla seduzione chi alla nostalgia di quel valore simbolico e spirituale. Può essere. E per certi versi considero anche me stesso in questa non so se ampia o piccola componente.

Ma cerco di fare i conti con la fotografia geopolitica e demoscopica che la scomparsa di Papa Francesco ci mette a disposizione. Ho riproposto dopo la scomparsa fisica del Papa, una riflessione del mio amico Giovanni Cominelli dedicata alla globalizzazione e scristianizzazione  della Chiesa.

In cui è scritto:

L’Europa, già cristiana, si sta congedando dal Cristianesimo. Le chiese sono sempre più vuote, i seminari chiudono i battenti, nei confessionali non si raccontano più i “peccati”. Certo, si segnalano micro-controtendenze, dalla Francia alla Svezia. Ma, almeno per ora, constata il filosofo Pierre Manent: “Gli Europei non sanno cosa pensare né che fare del Cristianesimo”. Il Cristianesimo e, quindi, la Chiesa non sono più considerati dalla maggioranza delle persone, in Italia e in Europa, come strumenti per capire il mondo e per vivere nel mondo. Gli Europei se ne stanno tranquillamente liberando, nell’illusione che i valori cristiano-liberali continueranno a fluire nelle loro società, anche se la sorgente originaria si sta riducendo ad un rigagnolo”.

C’è poi  chi ha scritto che l’ultima confidenza fatta da Papa Francesco al cardinale filippino Tagle sia stata: “Il futuro della Chiesa è nell’Asia”.

Comunque, intanto arrivano sul tavolo appunto dati demoscopici che ci riguardano come italiani.

Il giudizio complessivo di SWG cerca di capire nell’opinione degli italiani se considerano in qualche modo riparatoria la guida esercitata da Papa Bergoglio. E l’istituto conclude: 

Ha rinnovato la Chiesa  cattolica. È cresciuta non solo la quota di chi lo ha identificato come vicino ai non credenti, ma anche di chi ha riconosciuta la vicinanza alla tradizione cattolica, confermando indirettamente come il vento del cambiamento abbia portato la Chiesa a tornare alle sue radici”.

Questi, tuttavia, alcuni dati (non posso riferirli tutti):

·        Gli italiani che ritengono che l’insegnamento della Chiesa sia ancora attuale passa dal 62% del 2013 al 51% di oggi.

·        La fiducia nella Chiesa Cattolica passa – nello stesso tratto di tempo – dal 29 al 36%.

·        La percentuale di chi va a messa almeno una volta al mese scende  dal 33 al 26%.

·        Il 76% del campione italiano vede in Papa Francesco chi ha espresso un insegnamento valido per tutti, credenti e non credenti

·        Il 75% vede in questo papa chi ha lavorato per una Chiesa universale  capace di dare voce a tutti i continenti.

·        Senza  sottovalutare altri elementi: il 65% degli italiani pensa che Bergoglio sia stato più vicino alle posizioni di chi è fuori dalla Chiesa che a quelle dei cattolici che la frequentano.

·     E poi, tra chi pensa che la Chiesa abbia perso la sua identità e chi pensa che stia andando verso una visione del mondo diversa da quella prevalente, c’è una certa parità di vedute.

Alla luce di questi andamenti, che segnalano anche spaesamento e contraddizione, Giovanni Cominelli conclude:

“Dunque, una Chiesa pastorale più che una custode inflessibile di verità immutabili. Non che Francesco sia agnostico sul piano dottrinale, ma non crede che sia lì che si gioca, oggi, il futuro della Chiesa. È nello slancio comunitario e missionario che si decide il suo destino, come spiega nella “Evangelii Gaudium”. Una “Chiesa in uscita”. Che, per rispondere ai nuovi bisogni, è  chiamata a cambiare struttura. Di qui l’affiorare timido, per ora, del discorso del sacerdozio delle donne e dell’estensione diaconale a persone sposate delle funzioni finora esclusive del prete, così come fu pensato dal Concilio di Trento. Aver osato metterlo in discussione, ha causato a Bergoglio l’accusa di essere antipapa e eretico”.

Ferruccio de Bortoli ha consegnato al Corriere un piccolo libro compiegato con il Corriere della Sera in cui ha fatto questo occhiello:

Un innovatore, che ha gettato molti semi. Non tutti i frutti sono stati raccolti. Ha rinunciato a tanti dei simboli del potere della Chiesa per il desiderio di restare un parroco tra la gente,  in cammino con il proprio gregge. Al passo con i tempi, ma non schiavo dei tempi. Nei dodici anni di pontificato ha affrontato senza soste e fino all’ultimo, tutti i mali del mondo, contro i pregiudizi e contro la paura”.

In sostanza e in conclusione, si può dire che lo snodo tra globalizzazione e deglobalizzazione che stiamo vivendo – sempre dentro un mondo che tra digitale, clima, guerre, pandemie, migrazioni, ha innegabilmente imposto una crescente immagine di vivere e affrontare processi comuni, pur segnalando ripiegamenti, impaurimenti, abbassamento di sguardo –  ci racconta una transizione in corso con molte incognite per tutti. In questa transizione sta anche la valutazione del passaggio imminente tra Papa Francesco e il suo successore. E ci sta quella del valore del potere simbolico in un tempo che dichiara meno strumenti culturali per comprendere virtù e valore delle culture simboliche rispetto a quelle dominate da interessi, conflitti e visioni limitate ai consumi.

La forza improvvisa di un potere simbolico proprio nell’atto del congedo di questo Papa rappresenta insomma la ragione della domanda del giorno: si tratta di  un fattore effimero oppure  di un segnale che rimette in campo un’energia che sembrava declinante oppure spesso nelle mani di soggetti piuttosto reazionari?

Avremo qualche tempo per capire meglio.