GEOPOLITICA TRUMPIANA, E IL DESTINO DELL’EUROPA

di Diego Ventura

Durante la lunga campagna elettorale statunitense la figura di Donald Trump era riuscita, grazie alle abilità retoriche e propagandistiche del personaggio, a diventare una figura promotrice di “pace nel mondo” o quanto meno in grado di riformulare la presenza americana nel mondo grazie ad un approccio isolazionista, in nome del MAGA e di una sorta di “risolviamoci i problemi a casa nostra”. Una posizione questa, che aveva trovato paradossalmente molto appoggio politico in delle frange che con il Make America Great Again non sapevano proprio che farci. Nel senso che più di un “Great again” preferirebbero uno “Small Again”. Sto parlando delle frange così dette “rosso brunate”, che dai 5 Stelle arrivando fino al partito di Sahra Wagenknecht, hanno sempre proposto un approccio ai problemi della politica estera non interventista e in generale con uno sguardo di favore verso tutte le parti in opposizione a quella occidentale.

Niente di male ovviamente, posizioni legittime. Ma non è questo il punto. E non intendo nemmeno dare contro a costoro.

Mi interessa anzi, più il corto circuito logico che sta dietro alla posizione del Trump come portatore di pace ed eventualmente cercare di contestualizzarla portando qualche dato interessante.

Prima di tutto, ricordiamo che già durante la prima campagna elettorale a cui Trump ha preso parte, quella del 2016, uno dei cavalli di battagli erano proprio i dazi e le sanzioni. Dazi che, come sappiamo, non sono andati solamente alla Cina ma anche all’Europa in quanto vista come un competitor pericoloso per il made in Usa. A posteriori possiamo dire che i dazi allora imposti non furono eccessivamente dolorosi, e così dopo la prima tempesta uscì il sole (Biden) che li revocò quasi completamente. Le sanzioni invece furono rivolte principalmente verso l’Iran, la Siria, Cuba, Venezuela e in generale verso tutti gli stati “canaglia”, che per un motivo o per l’altro sono antagonisti degli Stati Uniti e della loro egemonia.

Parliamo di misure tipiche delle guerre commerciali che difficilmente renderebbero chi le approva un presidente portatore di pace o un isolazionista stile svizzera. Ma andiamo avanti.

Il motivo per cui quasi sicuramente non ha molto senso annoverare Trump tra i presidenti più pacifisti del mondo è stato senza dubbio l’assassinio del generale iraniano Qassem Suleimani. Generale della divisione Al-Quds, che nel contesto medio orientale era riuscito a tessere tutta una serie di relazioni in funzione antisraeliana e anti Statunitense, riuscendo a formare “l’asse della resistenza” ovvero un’alleanza militare a guida Iran che comprende lo Yemen degli Houthi, La (ormai ex) Siria di Assad, e le milizie di Hezbollah e Hamas. Dopo due anni di guerra intensa, la rete intessuta da Suleimani è stata fortemente indebolita dalle operazioni israeliane iniziate come risposta all’attacco del 7 ottobre, iniziato per altro proprio con missili forniti dall’Iran ad Hamas.

In questo contesto l’uccisione del generale iraniano è stata propedeutica ai successi militari israeliani e al mancato coordinamento delle forze sul campo. Suleimani, infatti, era la “mente” senza la quale i bracci armati dell’Iran Sciita, niente possono contro uno stato, Israele, che gode delle tecniche di combattimento e del supporto occidentale. Senza parlare della caduta del regime di Assad, una delle conseguenze a lungo termine di quell’azione.  Quasi per ironia della sorte si potrebbe dire che la caduta dell’asse della resistenza iniziata proprio con la morte del generale, sia stato in fin dei conti un atto di “pacifismo”, nel senso di aver eliminato persone che lavoravano attivamente per la guerra e che formano un’alleanza intrinsecamente antisemita.

Ma è chiaramente presto per cantar vittoria. E anzi lo stesso Trump ha recentemente affermato che, se prima del giorno del suo insediamento alla Casa Bianca (il 20 gennaio), Hamas non avrà liberato tutti gli ostaggi in loro possesso, le porte dell’inferno si apriranno in Medio Oriente.

Messaggi che insomma, ancora una volta non fanno presagire intenti pacifici da parte del Tycoon, che sembra intenzionato a creare un’America “Great Again” anche in termini di egemonia internazionale e non solo internamente. 

Ma ancora, tra le affermazioni più strane fatte da Trump in questi giorni ci sono sicuramente quelle che riguardano il Canada, Panama e la Groenlandia.

Il tutto inizia qualche giorno fa circa il 7 gennaio, quando Trump pubblica su Truth, il social di sua proprietà, un messaggio in cui auspica che il canale di Panama possa tornare sotto il diretto controllo degli Stati Uniti, accennando al rischio che possa passare in mano cinese. Tra le motivazioni, il fatto che il canale è stato costruito e finanziato dagli stati uniti stessi e che quindi sia inaccettabile e pericoloso dal punto di vista strategico che possa passare sotto il diretto controllo di Pechino. Dal punto di vista legale è chiaramente falso e impossibile che il canale possa essere controllato direttamente dalla Cina. il Canale è stato trasferito sotto la giurisdizione panamense nel 1999, in base ai trattati Torrijos-Carter. la Cina ha ribadito il rispetto per la sovranità panamense sul Canale.

Quello che però è vero è che nel corso degli ultimi anni l’influenza cinese in particolare sotto forma di investimenti portuali e infrastrutturali è cresciuta notevolmente nell’area. Il tutto afferisce alla Belt and Road Initiative, che Pechino usa come forma di “imperialismo soft” per allargare la sua egemonia nel mondo.

Per la Groenlandia vale un discorso simile, ovvero la volontà (per ora teorica ed estemporanea) di prendere il controllo decisivo sull’artico. La Groenlandia possiede già delle basi statunitensi, sia di ricerca scientifica che militari, una tra queste è quella di Pituffik che si occupa di rilevamento e intercettazioni di missili balistici intercontinentali. La base è l’installazione militare più settentrionale degli Stati Uniti. Tra le opere di ricerca scientifica invece c’è sicuramente la Summit Base Camp, ovvero il campo base situato nel punto più alto della calotta glaciale groenlandese a più di 3000 metri di altitudine, che si occupa di rilevamenti climatici.

La Groenlandia, proprio per via della sua posizione privilegiata e dominante nell’artico desta probabilmente molti desideri nell’élite militare statunitense e non solo militare, visto che l’isola (più grande del mondo) gode di una grande quantità di risorse non sfruttate stimate intorno ai 400 miliardi di dollari. Un tesoretto niente male, specialmente considerando la quantità di terre rare presenti in loco, essenziali per la transizione ecologica, per il progresso tecnologico e per cercare di essere sempre più indipendenti dalla Cina monopolista.

Insomma, se Trump parla a vanvera o no, non lo sapremo finché non vedremo azioni più concrete. Ma al momento tutte le attenzioni verso la Groenlandia sembrano avere una giustificazione. Del resto, il Tycoon aveva già provato in passato a intessere delle proposte di acquisto alle autorità danesi di concerto con quelle di Nuuk.

Se c’è invece una dichiarazione in cui ho la seria impressione che Trump stia parlando a vanvera è quando parla del Canada e della sua intenzione di farlo diventare il 51° stato. Visti i tempi, non mi sento ti dire che sia impossibile, ricordo ancora quando molti commentatori davano per impossibile e sconveniente da parte di Putin invadere l’Ucraina, eppure abbiamo visto cosa è successo, penso più che altro che sia estremamente improbabile, almeno se si considera l’utilizzo della forza militare. Trump, infatti, ha accennato alla possibilità di usare una leva economica, forse pensando a una sorta di sanzioni o dazi particolarmente pesanti. Fatto sta che, sempre su Truth, ha accusato il governo canadese di imporre una forma di tassazione eccessiva. Anche qui si tratta di un’accusa abbastanza pretestuosa e falsa, Ma tant’è…

Come cambiano le relazioni internazionali?

Per un lungo periodo intercorso tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni 2000, l’elitè intellettuale e politica dell’occidente si è convinta che l’International Rule Based Order sarebbe durato in eterno e che le dispute internazionali sarebbero state risolte quanto meno attraverso l’utilizzo di strumenti sovra nazionali (Onu, CPI ecc). Era per quanto paradossale un convincimento molto localizzato e abbastanza miope, altri conflitti molto importanti sono scoppiati nel secondo novecento, penso alla guerra di Corea, al Vietnam, Afghanistan, Iraq. Solo per citare i più importanti. Queste guerre, specialmente le ultime due, rientravano nello schema del Rule Based Order, e della facoltà di intervenire militarmente supportati da presupposti giuridici e valoriali. Insomma, un modo di concepire i conflitti internazionali molto centrato dal nostro punto di vista e poco in quello degli altri, spesso le vittime e i conquistati.

Oggi il paraocchi valoriale è saltato, il vento politico progressista-liberal è in crisi in tutto il mondo e al posto del suo approccio alla politica estera ne è subentrato uno neocon, cinico e spietato.

Insomma, se fino al 2022 eravamo tutti abbastanza concordi nel dire che Putin aveva sbagliato a invadere l’ucraina per annettersela in nome di un progetto imperale ben preciso. I Legacy media hanno iniziato a vacillare quando un nostro alleato, cioè, Israele cercava di fare altrettanto con i territori palestinesi, il sud del Libano e adesso pare anche una porzione del sud della Siria che arriva a quasi venti km da Damasco.

Adesso che anche il presidente eletto degli Stati Uniti, principale contributor della NATO e nostro alleato, si imbarca in strane discussioni su annessioni territoriali varie, non sappiamo veramente più come comportarci, specialmente dopo che lo stesso ha mentito per mesi dicendo che avrebbe messo fine alla guerra in Medio Oriente e in Ucraina.

Pare che tirando le somme possiamo dire che di principi etici, morali in questo caos c’è poco. È semplicemente il sintomo di una maschera che si sta sfaldando in cui i valori dominanti perdono sempre più consistenza per essere poi rimpiazzati da qualcos’altro.

In tutto questo, L’Europa, noi, sembriamo sempre di più il ricco e anziano vaso di coccio fra due affamati e arrabbiati vasi di ferro. Il qualcos’altro che rimpiazzerà i valori dominanti sembra essere la nicciana “volontà di potenza” che nei fatti, anche quando a farla da padrone era la retorica del Law Based Order, ha sempre dominato dai tempi di Alessandro Magno fino ad oggi.

Se è vero che le idee sono importanti poiché guidano l’azione, non dobbiamo dimenticarci che anche il realismo è essenziale. L’essere umano risponde a degli incentivi. Se c’è un incentivo a conquistare e a devastare, stai pur sicuro che probabilmente accadrà.

Nel caso europeo, l’incentivo deve essere l’unione e il rafforzamento dei legami tra gli stati di questa comunità. Ascoltare i moniti di Draghi in questa situazione è essenziale. 

Se l’Europa come entità desidera superare questa fase di subbuglio, deve anch’essa tirare fuori la propria volontà di potenza.


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