GIACOMO BRODOLINI. IL MINISTRO DEI LAVORATORI

PREMESSA DI

Il MondoNuovo ha voluto celebrare il 1 Maggio ricordando un personaggio che ha fatto tanto per il mondo del lavoro, e che oggi è praticamente dimenticato, Giacomo Brodolini che, dopo che gli venne diagnosticato un male che lo avrebbe portato alla tomba, rifiutò il dicastero importante che gli si proponeva, e chiese al suo partito di essere nominato ministro del Lavoro, un dicastero sempre rifiutato fino ad allora dai socialisti perché ritenuto troppo compromettente. In pochi mesi, Brodolini, prima di morire, riuscirà a realizzare le più importanti riforme in favore dei lavoratori, a cominciare dalla pensione minima per tutti, anche per coloro che non avevano mai versato un contributo. E soprattutto lo Statuto dei lavoratori. L’Avanti! il suo giornale, titolò “La Costituzione entra in fabbrica”.

Abbiamo chiesto a Ugo Intini, lo storico direttore di quel giornale, di pubblicare un suo saggio su Giacomo Brodolini (G.G.)


UGO INTINI

Come per i padri fondatori del partito, nel DNA del giovane Brodolini c’era il mito degli eroi risorgimentali, a cominciare da Garibaldi: non a caso, la sua tesi di laurea a Bologna fu dedicata al patriota e attore drammatico Gustavo Modena. C’era anche il rigore e la modernità dell’azionista. Perché il partito d’Azione fu il primo a cui Brodolini si iscrisse, grazie a Lussu, mentre era militare in Sardegna. E infatti passò ai socialisti seguendo l’azionista Riccardo Lombardi.

Gli storici scavano nelle biblioteche e negli archivi, leggono e documentano. Io purtroppo non lo sono, ma posso essere utile attraverso l’esperienza personale e la testimonianza. Semplicemente perché ho vissuto dall’osservatorio privilegiato dell’Avanti! un’epoca ormai lontana,così da poter tentare di ricostruire il clima del tempo e il muoversi non solo dei protagonisti, ma anche dei comprimari. Il passato può anche aiutare a interpretare il presente e proprio su questo cercherò di dare un piccolo contributo.

Nella prima Repubblica, ovvero nella “Repubblica dei partiti”, esperienza e professionalità politica erano due facce della stessa medaglia. Che davano credibilità alle istituzioni. Era impensabile che arrivassero al vertice, come oggi, personaggi improvvisati. Giacomo Brodolini era quindi, innanzitutto, un politico di professione. Anzi. Un funzionario. Funzionario di partito ad Ancona (era nato a Recanati) per poi diventare segretario della Federazione provinciale, leader nelle Marche, deputato e infine vice segretario nazionale. Era un funzionario del partito e anche del sindacato. Sino a passare dalla segreteria dei lavoratori edili a vice segretario nazionale della CGIL. Già. Perché la commistione tra carriera sindacale e politica allora non era affatto inconsueta. La separazione risale al 1972.

Fino ad allora, si riteneva che un “quadro” dirigente (così si chiamavano) potesse utilmente formarsi con una esperienza nel sindacato, a contatto diretto con i lavoratori. Ricordo ad esempio Fabrizio Cicchitto, allora esponente della sinistra, che faceva a Roma il segretario provinciale dei lavoratori tessili. Il dibattito attuale sulla qualificazione dei parlamentari e sui loro titoli di studio sarebbe apparso tra il lunare e il ridicolo. Il leader politico poteva aver studiato oppure no. Ma era stato per anni e decenni prima consigliere comunale di un piccolo Comune, poi assessore, poi sindaco, poi consigliere di un Comune più grande. Oppure segretario di un sindacato di categoria provinciale, poi nazionale. Infine, dopo entrambi i percorsi, dirigente nazionale. Errori gravi non ne faceva perché era stato “testato” a lungo: anche psicologicamente e moralmente. Comunque, il carisma del partito che gli stava alle spalle, con la sua storia, gli conferiva l’autorità necessaria. Nessuno avrebbe mai osato neppure lontanamente sollevare l’argomento della sua istruzione.

Giovanni Mosca ad esempio, che fu vice segretario nazionale socialista dopo Brodolini, non era certo andato troppo a scuola, parlava un italiano zoppicante, non era in grado di scrivere un testo. Ma, da contadino e operaio nel Lodigiano, era diventato segretario provinciale del sindacato braccianti della CGIL, poi segretario della Camera del Lavoro di Milano, poi deputato. Tutti gli riconoscevano equilibrio, efficienza, intuito politico e capacità negoziale. Gli esempi-in tutti i partiti- potrebbero essere infiniti. Giacomo Brodolini era in più anche un uomo colto, ma non su questo veniva giudicato.

Proprio mentre era vice segretario nazionale della CGIL, nel 1956, avvenne il suo primo incontro con la grande politica. Segretario nazionale era il mitico comunista Giuseppe di Vittorio. Scoppiò la rivoluzione in Ungheria, il PCI appoggiò totalmente la repressione di Mosca contro gli operai di Budapest, ma forse per la prima volta la CGIL avvertì come un cappio la “cinghia di trasmissione” che la legava al partito comunista. Fu Brodolini a preparare un documento politico autonomo e dignitoso, che fu approvato innanzitutto da Di Vittorio. Il prestigio del vecchio leader sindacale era immenso, il PCI cercò dapprima di insinuare che il suo consenso al documento di Brodolini era stato forzato, poi nelle stanze di Botteghe Oscure lo “processarono” e costrinsero a una sorta di abiura. Allora nel PCI non c’erano spazi per i distinguo quando era in discussione la fedeltà al Cremlino.

“Da una parte della barricata” (ovvero dalla parte dei sovietici) titolò il fondo dell’Unità. E d’altronde Togliatti non subì la decisione di Mosca per l’intervento, ma anzi la sollecitò. Due anni dopo, nel 1958, alla vigilia delle elezioni politiche, scrisse al governo ungherese non per salvare la vita a Imre Nagy (il leader, pur comunista, della rivoluzione), ma per chiedere che la giusta e doverosa esecuzione fosse compiuta dopo il voto in Italia per evitare – spiegò- che “dei malintenzionati” potessero strumentalizzarla nella campagna elettorale contro il PCI. E infatti Nagy fu ucciso all’indomani delle nostre elezioni.

Brodolini a quel tempo era già deputato, aumentò la sua autorevolezza, passò poi a occuparsi soltanto del partito e nel 1963, l’anno del primo centro sinistra, ne divenne vice segretario nazionale. Era autorevole, appunto, rispettato, ma non popolarissimo (soprattutto tra i giovani della mia generazione). La ragione è semplice. Ci eravamo avvicinati al partito dopo la scelta autonomista del 1956, con la quale Nenni, proprio difendendo le ragioni degli insorti ungheresi, si contrappose ai comunisti. Il nostro inprint era contro il PCI. Non capivamo come fosse stato possibile protrarre per oltre un decennio la scelta sciagurata del fronte popolare insieme a Togliatti.

Sciagurata per il nostro partito e per l’Italia. Perdonavamo Nenni, Pertini e i leader storici, perché avevano dimostrato nella lotta al fascismo assoluto disinteresse ed erano comunque un mito. Non ci piacevano però i dirigenti nati e cresciuti come funzionari durante il frontismo, che identificavamo con il frontismo stesso. Anche perché spesso erano delle creature di Rodolfo Morandi, il potentissimo responsabile organizzativo del partito, che molto più di Nenni aveva teorizzato l’alleanza con il PCI e che certamente aveva dato al PSI, forzatamente, una struttura molto simile a quella comunista.
Grassottello, vestito sempre come un impeccabile funzionario, con i capelli lisci e impomatati, Brodolini non aveva su di noi un grande appeal ed era antipatico soprattutto ai redattori dell’Avanti! Anche perché era stato caricato come vice segretario del partito delle peggiori grane: innanzitutto di quelle riguardanti l’amministrazione, il finanziamento del partito e conseguentemente il bilancio aziendale del suo quotidiano.

Fino al 1956, tutto era relativamente semplice. I soldi venivano da Mosca, anche se nella misura concordata tra il Cremlino e la segreteria del PCI. Augusto Talamona, amministratore dell’Avanti! e poi del partito, ci raccontò che, nel momento drammatico della rivoluzione ungherese, Nenni gli disse: “adesso vai e restituisci i soldi all’ambasciata sovietica”. “E tu?”. “Io non andai, perché li avevo già spesi, ma non ne presi più”. Di lì cominciarono i problemi economici del partito. Anzi. Della maggioranza autonomista e di Nenni. Perché la minoranza filocomunista di Vecchietti e Valori i soldi da Mosca continuò a prenderli, su suggerimento esplicito al Cremlino (lo si è letto poi negli archivi) dell’allora vice segretario del PCI Longo. Li chiamavamo sprezzantemente i “carristi”, perché erano dalla parte dei carri armati sovietici: nel 1964 se ne andarono dal partito portando via un terzo degli iscritti e dei gruppi parlamentari (per fondare lo PSIUP con molti giovani di valore, fra i quali ad esempio Bertinotti). Il PSI autonomista viveva di stenti.

Si sentiva favoleggiare di affari spregiudicati di import export con i Paesi comunisti ostili all’egemonia dell’URSS (carne da Jugoslavia e Romania, polvere di uovo dalla Cina). Soprattutto, arrivavano soldi (con il contagocce) attraverso la mediazione non più del PCI, ma della DC. E non più dall’URSS, ma dall’IRI e dell’ENI. Nella penuria generale, l’Avanti! era sempre sul banco degli imputati, perché il suo passivo, come tutti quelli dei giornali di partito (dall’Unità al Popolo) era pesante. Si parlava di chiudere una delle due edizioni (quella di Milano). Avvenne una raffica di licenziamenti (con i giornalisti in esubero faticosamente piazzati a Il Giorno o alla RAI). Cominciarono ad arrivare gli stipendi a singhiozzo, con lunghi ritardi e a rate. Il comitato di redazione ebbe un burrascoso incontro con Brodolini e da lì nacque l’ostilità prima ricordata. Il vice segretario del partito ricordò infatti che i giornalisti del quotidiano guadagnavano sì il minimo sindacale, ma comunque troppo, se si pensava agli stipendi dei funzionari di partito.

La strada da seguire era dunque quella dell’Unità, dove i redattori venivano trattati-appunto-come i funzionari, con una riduzione perciò consistente del loro stipendio e conseguentemente del disavanzo aziendale. Il comitato di redazione la mise sul piano della dignità professionale offesa. Brodolini su quello della insensibilità individualistica ai bisogni del partito. Finì in una rissa e in una inimicizia duratura.

La verità è che Brodolini era un militante di altri tempi. Il suo completo scuro con cravatta era sì grigio, ma era una sorta di divisa, segno di disciplina e rigore quasi monastico. Il partito era una “Chiesa laica”, alla quale si obbediva si fosse o no d’accordo con le decisioni della maggioranza. La missione della “Chiesa” (e sua), alla quale tutto si doveva sacrificare, era semplice: il progresso di quella che si chiamava la “classe lavoratrice” (e che si identificava poi con i cittadini).

Quando nel dicembre 1968 divenne ministro del Lavoro, ripeteva pubblicamente in questa veste quanto già diceva e faceva da sindacalista: “da una parte sola, quella dei lavoratori”. Anche per questo, con un gesto simbolico, trascorse il Capodanno 1969 sotto una tenda a Roma insieme ai dipendenti della tipografia Apollon che avevano occupato lo stabilimento per impedirne la chiusura. Anche per questo, pochi giorni dopo, espose con precisione il suo programma non con una tradizionale conferenza stampa istituzionale, ma nella sala consiliare dell’emarginato Comune siciliano di Avola, dove due braccianti in corteo erano stati uccisi dalla polizia nel dicembre dell’anno precedente.

Adesso, un ministro del Lavoro non direbbe “da una parte sola”. Neppure uno di estrema sinistra, per non irritare gli imprenditori. Ma tante cose si facevano in quegli anni che oggi non si potrebbero fare. Anzi. I socialisti compivano scelte che oggi sarebbero considerate da chiunque in Parlamento troppo di sinistra. Quando Giacomo Brodolini era segretario del partito e Nenni ne era il leader, il primo centro sinistra realizzò le sue riforme talvolta con un eccesso di carica ideologica. La nazionalizzazione dell’energia elettrica fu giusta, perché le molte aziende private produttrici di elettricità pensavano soltanto al profitto nel breve termine. Non agli investimenti necessari per lo sviluppo generale dell’industria e per la sicurezza (si pensi al disastro del Vajont).

Si puntò sempre di più, oltre che sulla neonata ENEL, su IRI e ENI. Che ancora oggi sono (o come l’IRI hanno prodotto) le uniche grandi aziende del Paese, capaci di reggere la concorrenza internazionale, di sviluppare il top mondiale di tecnologia e ricerca: da Leonardo a Fincantieri. Furono loro che contribuirono davvero allo sviluppo e alla modernizzazione del Mezzogiorno. Ma in queste scelte politiche esisteva anche un arrière- pensée che veniva dalla tradizione marxista. Non erano, come avrebbero dovuto, soltanto pragmatiche: in fondo, si pensava che il pubblico fosse meglio del privato.

D’altronde, la lunga alleanza con i comunisti aveva lasciato tra i socialisti tracce durature. Oggi non si sa neppure più cosa sia la “politica industriale”, che qualunque governo dovrebbe prima studiare e poi realizzare. Ma allora una parte del PSI andava molto oltre, sino alla simpatia per i “piani quinquennali” resi famosi dall’Unione Sovietica.

Il socialista Antonio Giolitti, nipote del famoso Primo Ministro della belle epoque, uscito dal PCI per i fatti di Ungheria nel 1956, era un importante economista, ma quando, con il primo governo Moro-Nenni di centro sinistra, arrivò alla guida del ministero che non per caso si chiamava, oltre che “del Bilancio”, “della Programmazione”, concepì la programmazione stessa come un insieme di obiettivi non da suggerire alle aziende con una serie di incentivi e disincentivi, bensì da imporre.

Fu sostituito da Giovanni Pieraccini, più autonomista e pragmatico, che si spostò dai Lavori Pubblici al Bilancio e passò alla programmazione cosiddetta “indicativa” e “propositiva”, anziché “impositiva”. Sempre Pieraccini, come ministro dei Lavori Pubblici, portò a termine la realizzazione dell’Autosole. Da tempo puntava allo sviluppo di una moderna rete autostradale: sin da quando era direttore dell’Avanti! A me, giovanissimo redattore, commissionò una inchiesta sull’argomento.

Poi lui andò al governo e Riccardo Lombardi, leader della sinistra, lo sostituì alla direzione dell’Avanti!, che aveva considerato un incarico più importante e prestigioso di quello di ministro del Bilancio (dove aveva mandato, appunto, il suo fedelissimo Giolitti). Gli raccontai che stavo preparando gli articoli sulle autostrade ma mi fermò. “No-mi spiegò con garbo-noi siamo per i consumi e gli investimenti pubblici, non per quelli privati. La motorizzazione privata è un modello di sviluppo sbagliato”. Si trattava di una cultura e di una mentalità che sarebbe presto diventata assolutamente minoritaria nel partito socialista (specialmente dopo la fuoriuscita nel 1964 dell’ala “carrista”).

Ma che avrebbe dominato ancora per decenni il partito comunista. Il quale si oppose infatti alle autostrade negli anni ‘60, così come si sarebbe opposto negli anni ‘70 alla televisione a colori e negli anni ‘80 alle reti televisive private. Era il modo di pensare di un’Italia che aveva anche alcune ragioni (perché gli accessi ci furono), ma che nel titolo di un libro degli anni ‘80 io definì “l’Italia dell’Est”: una Italia cioè più simile a un Paese comunista che a una moderna economia occidentale di mercato.

Nenni non si appassionava alle controversie ideologiche. Insisteva su quella che chiamava la “politica delle cose”. In effetti le cose fatte stando dalla parte dei lavoratori (in particolare le riforme sociali) furono ai tempi di Brodolini, in pochi anni, straordinarie: più di quanto si fece nei decenni precedenti e in quelli successivi. Uscita dal partito la sinistra filo comunista che condizionava inevitabilmente anche la maggioranza autonomista di Nenni, si affievolirono i richiami ideologici alla tradizione marxista e si realizzò ciò che ancora oggi è l’orgoglio dei socialisti europei: lo Stato sociale, creato per la prima volta in Gran Bretagna nell’immediato dopo guerra dal governo socialista di Atlee con il concorso e la teorizzazione di un liberale come lord Beveridge, a dimostrazione del fatto che si trattava non di una riforma marxista, ma “liberalsocialista”.

Lo Stato sociale costituisce la unicità dell’Europa perché ancora oggi gli Stati Uniti non ci sono arrivati e i tentativi di Obama per avvicinarsi sono stati bollati come “socialismo” dai repubblicani. “Dalla culla alla tomba” era lo slogan inglese (per la verità di dubbio gusto) che ripetevano anche i socialisti italiani.

Dalla culla alla tomba, con il welfare State, il cittadino non doveva più preoccuparsi né della malattia, né della vecchiaia, perché tra i suoi diritti fondamentali, garantiti dallo Stato, stavano appunto la salute e una vecchiaia con un reddito dignitoso. Attraverso passi successivi, arrivò la riforma sanitaria, ovvero un sistema di sicurezza contro la malattia, con un’assistenza di base efficace e uguale per tutti, le cui fondamenta furono poste dai due ministri socialisti Mancini e Mariotti. Arrivò infine la riforma pensionistica, con Brodolini, e si chiuse il cerchio dello Stato sociale.

Brodolini ottenne risultati storici non nell’arco degli anni, ma dei mesi. Divenne infatti ministro nel dicembre 1968 e morì nel luglio 1969: in meno di nove mesi, cancellò le “gabbie salariali”, ricostruì il sistema pensionistico e ottenne ciò che lo rese più famoso, ovvero lo Statuto dei lavoratori. Che fu votato dal Parlamento nel maggio 1970, dopo la sua morte (mentre era ministro il democristiano Donat Cattin) ma fu approvato dal Consiglio dei Ministri, e quindi impostato definitivamente, il 20 giugno 1969, quando Brodolini c’era ancora.

Andiamo per ordine. I contratti di lavoro stabilivano da sempre parametri salariali diversi nelle diverse aree geografiche, considerando che il sottosviluppo rendeva nel Sud il costo della vita più basso e quindi giustificava retribuzioni altrettanto più basse. Tale divisione in zone veniva definita, appunto, per ciascuna di esse, una “gabbia”. La contrattazione era riservata naturalmente alle parti sociali, ma il ministro del Lavoro poteva esercitare una influenza decisiva. La strada fu aperta dalla più grande azienda pubblica (l’Italsider), che unificò per prima, su pressione dei socialisti, il trattamento salariale: da Genova a Taranto.

Poi, sotto la spinta dei sindacati, arrivò tutto il resto e le “gabbie” cominciarono gradualmente a sparire. Una scelta lungimirante? Oggi molti pensano di no e soprattutto nel settore pubblico (ad esempio tra insegnanti e poliziotti) è difficile convincere un meridionale a spostarsi a Milano con lo stesso salario. Ma allora l’Italia era diversa: nelle aspettative psicologiche e nella realtà. La differenza tra Nord e Sud, che ormai sì è allargata a dismisura (e forse senza speranza) si andava continuamente riducendo, in un contesto di impetuoso sviluppo generale. L’aumento delle retribuzioni al Sud sembrava una scommessa sul futuro e anche di per sé una spinta al suo decollo definitivo.

E infatti, tra il 1963 e il 1978, il Prodotto Interno Lordo del Mezzogiorno è cresciuto del 70 per cento. Da Milano a Torino inoltre, il lavoro e il sacrificio di milioni di meridionali aveva messo il turbo all’economia. Certo, l’immigrazione dal Sud sollevava l’ostilità dei razzisti del tempo. Ma l’integrazione sarebbe stata vincente e totale. Anzi. Oggi i figli di quegli immigrati votano spesso Lega e sono talvolta i nuovi razzisti. Non contro gli immigrati meridionali, ma contro quelli extracomunitari. D’altronde, nel Nord c’era la polemica contro i “terroni”, ma anche la capacità di accogliere, come si diceva a Milano, “con il cuore in mano”. E infatti Giuseppe Marotta, lo scrittore di origine napoletana che collaborò con Eduardo De Filippo, De Sica, e Zavattini, scriveva qualcosa che può essere di insegnamento anche oggi.

“C’è un Duomo con tante guglie appunto perché ogni immigrato ne scelga una e vi alzi o ammaini la propria bandiera. Io così feci. La mia era una guglia nana, secondaria verso il corso Vittorio Emanuele, ma agì come qualsiasi altra e Milano mi trattenne. Eccomi qua. Chi avrà ora la mia guglia? Tieni duro, amico: è una cara vecchia guglia che in principio sta sulle sue, ma poi cede, ma poi si scalda. Mettiti all’angolo di via Pattari, lasciati vedere e guardala, sembra un dito puntato sui santi per dirgli: tirate a sorte tra voi, ma il designato si spicci, aiuti questo ragazzo che ha i giorni di pensione contati, che diavolo ci state a fare lassù?”

La politica negli anni ‘60 univa l’Italia mentre, a partire dagli anni ’90, ha cominciato a dividerla. Il welfare State univa i cittadini alle istituzioni perché, dalla assistenza sanitaria alle pensioni, dava loro sicurezza. Ed ecco –appunto sulle pensioni- la riforma di Brodolini. Anche qui, come per le gabbie salariali, si è forse fatto il passo più lungo della gamba? Come si sa, la nuova legislazione voluta dai socialisti e realizzata grazie al centro sinistra ha agganciato per la prima volta le pensioni al salario degli ultimi anni: la percentuale erogata era il 74 per cento in prima battuta (ovvero nel 1969) con un impegno (rispettato) di raggiungere l’80 per cento entro il 1976. Si trattava del sistema cosiddetto “a ripartizione”, che sarebbe stato sostituito da quello “contributivo” con la riforma Dini del 1995, resa necessaria dal peso insostenibile che aveva raggiunto la spesa.

Molti hanno dato la colpa di questa insostenibilità alla presunta avventatezza ed eccessiva generosità dei socialisti. In effetti, un dato, tra i tanti, impressiona e spiega molto del disastro economico italiano: nel 1901, spendevamo per l’istruzione sette volte più che per la previdenza, nel 1951 si è arrivati al pareggio, oggi le pensioni costano oltre quattro volte la scuola. Ma il povero Brodolini non poteva immaginare che l’Italia sarebbe diventata un Paese di vecchi (simile soltanto al Giappone). In quel momento, vivevamo una stagione di progresso mai più uguagliata, che si poteva sperare fosse destinata a continuare. Non eravamo a crescita zero o sottozero come oggi.

Nei tre anni precedenti la riforma pensionistica, il Prodotto Interno Lordo era aumentato complessivamente del 20 per cento (un ritmo quindi più impetuoso di quello odierno della Cina). Tra il 1960 e il 1970, l’aumento era stato del 58,2 per cento. Le famiglie con un frigorifero, tra il 1958 e il 1963, si erano moltiplicate dal 13 al 55 per cento e quelle con un televisore dal 12 al 49. Un fiume di denaro riempiva le casse dell’INPS perché la disoccupazione era praticamente inesistente (in tutti gli anni ‘60 non aveva quasi mai superato il 4 per cento).

E perché conseguentemente i salari e gli stipendi (con i relativi contributi) aumentavano in continuo. Il sistema previdenziale nel 1970 incassava 105,3 e spendeva 100: era dunque in attivo. A differenza ad esempio che nel 2002, allorché incassava 72,7 e spendeva 100, con un passivo pertanto catastrofico (che è stato leggermente ridotto, ma mai cancellato negli anni successivi). “Yes, we can” (sì, si può fare) sarebbe stato lo slogan di Obama. E lo era anche (giustamente) dei socialisti di allora. Si poteva fare e si è fatto, ma con rigore. Perché le degenerazioni demagogiche sono state successive, quando la spinta dei comunisti a sempre nuove provvidenze è diventata più efficace sotto la minaccia del terrorismo e in preparazione del compromesso storico. Dopo infatti (non con il primo centro sinistra degli anni ’60) sono arrivate le baby pensioni, le agevolazioni per il pubblico impiego e le aziende statali, gli scivoli e le spinte, la prassi di promuovere i militari e i burocrati nell’ultimo anno di carriera per far salire artificiosamente la retribuzione sulla quale calcolare l’80 per cento stabilito di pensione.

Continuando a stare “da una parte sola, dalla parte dei lavoratori”, Brodolini, nei pochi mesi di attività al ministero prima della morte, passò dalle “gabbie salariali” e dalle pensioni allo Statuto dei lavoratori. Non ebbe la gioia di vederlo pienamente trasformato in legge, ma venti giorni prima di morire ebbe quella di farlo approvare definitivamente (andandoci di persona) dal Consiglio dei Ministri. E quindi di saperlo ormai sostanzialmente al sicuro. Il giorno dopo il voto definitivo del Parlamento, nel maggio 1970, l’Avanti! avrebbe titolato il suo fondo.

“La Costituzione entra in fabbrica”. “Non è stato facile- vi si leggeva-piegare resistenze palesi e occulte, non è stato semplice sradicare l’arcaica convinzione secondo cui le norme di civile e democratica convivenza che regolano i rapporti sociali si devono arrestare alla soglia della fabbrica per cedere il passo alla logica dell’autoritarismo. La Costituzione della Repubblica non si deve arrestare dinanzi ai cancelli delle fabbriche, perché essa è un bene comune, un patrimonio di tutti, in primo luogo dei lavoratori, un bene concreto, che come tale deve tradursi in norme precise”.

In effetti, con lo Statuto dei lavoratori, la Costituzione entrava in fabbrica. Il lavoratore dipendente passava da oggetto a soggetto negli stabilimenti e negli uffici. Oggi non si ricorda più cosa accadeva prima, quando la legislatura sociale non era ancora arrivata. Le ragazze incinte si fasciavano strette per dissimulare il più a lungo possibile la gravidanza, perché temevano di essere licenziate appena fosse diventata evidente. Il tempo per andare a fare pipì era contingentato e i bagni sorvegliati. L’anziano senatore socialista di Torino Bozzello, ex sindacalista della Cgil alla Fiat, mi ha raccontato i particolari di come lui stesso, i socialisti e i comunisti in vista siano stati licenziati dall’oggi al domani, per punire la loro attività politica e di contrattazione aziendale. Brodolini aveva premura, ma sapeva che la materia era giuridicamente complessa e che aveva bisogno di esperti.

Li trovò senza difficoltà tra i giovani professori che ormai da tempo animavano a Mondoperaio il dibattito su questi temi. Intorno a Norberto Bobbio, scrivevano Giuliano Amato e tanti altri che sarebbero diventati famosi: tra i giuslavoristi, Federico Mancini e soprattutto Gino Giugni. Che fu il vero braccio destro del ministro e che ancora oggi è definito il padre dello Statuto, perché Brodolini dette l’input politico con chiarezza, ma l’impianto della legge richiedeva un lavoro straordinariamente complesso, che doveva essere affidato ai professori.

Ha retto questo impianto? È giusta la critica ancora oggi fortissima secondo cui lo Statuto ha reso le fabbriche ingovernabili e ha troppo spostato gli equilibri a favore dei lavoratori, magari dei più fannulloni? Tutto in effetti si può rivedere con il tempo e qualunque legge è valida all’interno del suo contesto, che può cambiare. Se ne è scritto molto e ne ho parlato informalmente con Giugni stesso. Gli equilibri di potere reali, anche all’interno delle aziende, si muovono spesso come un pendolo. Erano troppo dalla parte dell’imprenditore negli anni ‘50 e ‘60, si spostarono a vantaggio del lavoratore nei ‘70 e ‘80 (quando lo Statuto in effetti sembrò svuotare la responsabilità e autorità organizzativa dell’azienda). Il pendolo è tornato verso l’impresa a partire dagli anni ‘90. In certi periodi sino all’estremo (e infatti ancor oggi nel settore pubblico, ad esempio la scuola, è difficile imporre la meritocrazia ai sindacati).

Ma non sempre in tutto ciò c’entra lo Statuto e soprattutto non sempre le conseguenze criticabili o addirittura paradossali derivano davvero dall’impianto della legge voluto da Brodolini e Giugni, perché tale impianto è stato spesso stravolto con interpretazioni forzate dalla magistratura. Ricordate i “pretori d’assalto” degli anni ‘70? Della politicizzazione della giustizia si discute da allora e il problema, che oggi appare enorme (estendendosi sul terreno penale e della credibilità stessa del CSM) è nato con le sentenze in materia di lavoro. Una parte della magistratura, di osservanza soprattutto comunista, cominciò a teorizzare che si dovesse puntare a una “interpretazione evolutiva” delle norme, tale da adattarle ai principi prevalenti nella società. Si partì dai temi del lavoro: i più facili perché i più popolari e anche perché affidabili alle sentenze di giudici monocratici, ovvero i pretori, spesso giovani e avventurosi. Sotto la loro spinta, specialmente in alcuni tribunali come Milano, divenne praticamente impossibile licenziare qualcuno e dirigere un’azienda con scelte discutibili sì, ma pur sempre rientranti nella responsabilità dell’imprenditore.

Non c’entrava soltanto lo Statuto dei lavoratori, ma anche la legge del 1966 che imponeva la “giusta causa” per i licenziamenti. I casi paradossali si moltiplicarono. Si impedì persino a un salumiere di allontanare il garzone che aveva una relazione con sua moglie. Alcuni sindacalisti divennero nullafacenti stipendiati, impegnati solo a ostacolare la direzione del personale. Cominciai (con il consenso di Giugni stesso) a scrivere fondi sull’Avanti! in cui sostenevo che era più facile divorziare dalla moglie che da un dipendente della propria azienda.

Federico Mancini, uno dei protagonisti dello Statuto, citava inutilmente un famoso magistrato della Corte Suprema americana il quale diceva. “I giudici non difendono cause: giudicano cause”. Non devono cioè sposare una causa, per quanto nobile essa sia, ma giudicare le cause sulla base della lettera e dello spirito della legge. Partendo dallo Statuto, la magistratura politicizzata è passata, dalla difesa dei lavoratori, alle pur nobili cause della lotta contro l’inquinamento ambientale, contro la corruzione, contro la mafia: con i meriti che conosciamo, ma anche con le deformazioni dello Stato di diritto che ormai sono sempre più difficili da correggere. Probabilmente, Brodolini e Giugni avrebbero potuto scrivere le norme dello Statuto in altro modo, ma sempre si sarebbe trovato il modo di forzarle. E d’altronde, non si poteva nel 1969 immaginare quali sarebbero stati i problemi della giustizia italiana.

Anche se Pietro Nenni, con il suo fiuto politico, già nel 1964 annotava nel suo diario. “L’indipendenza della magistratura va assumendo forme che fanno di quest’ultima il solo vero potere, un potere insindacabile, incontrollabile e, a volte, irresponsabile. C’è da battere le mani se finalmente qualcuno affronta la mafia del malcostume. Ma c’è anche da chiedersi chi controlla i controllori”. E nel 1974 sembrava già aver capito cosa stava diventando il Consiglio Superiore. Aggiungeva infatti sulla magistratura. “L’abbiamo voluta indipendente e ha finito per abusare del potere che esercita. Per di più, è divisa in gruppi e gruppetti peggio dei partiti”.

D’altronde, il significato profondo del lavoro svolto da politici come Brodolini e da giuristi come Giugni lo capirono perfettamente le Brigate Rosse. Attraverso il riformismo, i socialisti avevano l’obiettivo di evitare lo scontro di classe, le spinte violente ed eversive, trovando un equilibrio razionale e garantito dalla legge tra le ragioni dell’impresa e quelle del lavoratore dipendente. Proprio per questo, erano i riformisti come loro (non la destra) gli ostacoli al disegno rivoluzionario e comunista dei terroristi. Proprio per questo, i brigatisti spararono alle gambe di Giugni nel maggio del 1983 e uccisero nella Bologna del 2004 quello che potrebbe essere definito un suo continuatore: il socialista (come lui) e giuslavorista (come lui) Marco Biagi, appartenente a una lunga lista di vittime, tutte con le stesse caratteristiche riformiste e progressiste anziché conservatrici.

Gino Giugni era cresciuto socialista sin da ragazzo. Non per caso si era laureato a Genova con Giuliano Vassalli, forse il più autorevole giurista del tempo, il partigiano che aveva liberato Pertini e Saragat da Regina Coeli nel 1944 e che sarebbe stato portato da Craxi nel 1987 alla guida del ministero della Giustizia. Giugni, protagonista della stagione più creativa di Mondoperaio (nella seconda metà degli anni ‘70), doveva pur essere portato in Parlamento. Ma il problema, nella prima Repubblica, non era di facile soluzione (almeno per i partiti diversi dal PCI). Come mai? “E’ la democrazia, stupido” -si potrebbe rispondere. E una riflessione su questo punto è utile anche per l’oggi. Allora, c’era la democrazia sul serio e i capi partito non potevano “nominare” i fedelissimi sistemandoli in liste dove sarebbero stati eletti automaticamente da chi neppure li conosceva. Per essere eletti, bisognava avere davvero il consenso dei cittadini.

Il PCI, grazie al sistema del cosiddetto “centralismo democratico”, di origine leninista e quindi non democratica, riusciva a imporre ai propri iscritti i nomi da votare, scelti dall’alto. Gli altri partiti no. L’impresa era più complicata alla Camera, dove c’erano i voti di preferenza, da raccogliere uno per uno, così che neppure i capilista potevano essere sicuri di essere eletti e tantomeno di arrivare primi (lo stesso Sandro Pertini, capolista in Liguria, una volta arrivò secondo e si infuriò). Più agevole per i vertici dei partiti era pilotare le elezioni al Senato, dove i collegi erano uninominali (perciò senza preferenze). I voti complessivamente ricevuti in ciascuna regione indicavano i senatori in essa spettanti ai singoli partiti. E risultavano personalmente eletti quelli nei cui collegi la percentuale del partito stesso era risultata più alta.

Il candidato piazzato da Roma in un collegio a fortissima presenza del partito poteva dunque sperare di spuntarla (sempre che gli elettori non contrastassero la scelta fatta dalla segreteria nazionale e non gli negassero il voto per dispetto, o anche per favorire il candidato concorrente dello stesso partito nel collegio accanto, magari più radicato sul territorio). Succedeva spesso. Riccardo Lombardi ad esempio, diventato anziano e spostato al Senato, fu bocciato nel collegio storicamente socialistissimo di Sesto San Giovanni. L’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli, testimonial del rapporto tra la Democrazia Cristiana e il mondo economico, cadde nel collegio democristianissimo di Genova centro. L’elezione al Senato era comunque più facile e infatti quasi tutti i leader della prima Repubblica, per dimostrare (e misurare) il loro consenso, si presentavano dove bisognava conquistare le preferenze e perciò alla Camera. Che aveva pertanto un peso politico maggiore del Senato (al contrario di oggi).

Alle elezioni politiche del 1983, Craxi si sentì sufficientemente forte da imporre alcune personalità e i suoi collaboratori più stretti in Parlamento. Autoritarismo “partitocratico” a vantaggio dei “portaborse”? Non esattamente. Giugni fu finalmente candidato ed eletto nel collegio “blindato” (per i socialisti) di San Donà di Piave, dove precedentemente (dal 1972 sino alla sua morte, avvenuta nel 1980) veniva eletto il prima ricordato Augusto Talamona, bisognoso (così si usava per gli amministratori di tutti i partiti) di ottenere l’immunità parlamentare nel caso che qualche operazione di finanziamento “border line” fosse contestata dalla magistratura. Con Giugni, fu eletto per la prima volta quell’anno al Senato, tra gli altri, Gennaro Acquaviva. Capilista alla Camera (e le preferenze arrivarono dopo una paziente trattativa di Craxi con i capi locali del partito) furono eletti Giuliano Amato a Torino, Claudio Martelli a Mantova e anch’io in Liguria.

Le storie politiche personali servono in questo caso a capire cosa sono state le elezioni veramente libere e come oggi la scelta dei partiti (anzi dei capi partito) abbia in pratica sostituito quella dei votanti, contribuendo al discredito del Parlamento.

Ma la vicenda di Brodolini porta a una riflessione più generale. E’ illuminante guardare i quotidiani del periodo in cui furono approvate le sue riforme. Perché a volte le prime pagine, da sole, aiutano a capire la storia in modo più sintetico dei libri. L’Avanti! attribuì come è ovvio un enorme rilievo alla battaglia per le nuove pensioni, il cui significato storico e di principio fu spiegato con un fondo da Brodolini stesso. “Non è un caso-scrisse -che il nuovo governo di centro sinistra abbia voluto porre come prima realizzazione del suo programma il provvedimento sulle pensioni: si è voluto collocare anche concettualmente il problema del pagamento di un salario differito (perché di questo si tratta, almeno per i lavoratori dipendenti) in un contesto estraneo a qualsiasi visione caritativa o paternalistica.

Si tratta di un primo provvedimento diretto ad accrescere la dignità del lavoro e sul lavoro, che ci pone all’avanguardia nell’Europa e nel mercato comune e ci avvicina ai livelli dei Paesi industrializzati di più elevata civiltà, quali l’Inghilterra e la Svezia. Si passa da una concezione assistenziale-previdenziale ad una concezione di sicurezza sociale che dovrà trovare nel tempo una sua completa attuazione ma che è già prefigurata”. Il giorno del voto finale, il quotidiano socialista è più che entusiasta. Ma la grande stampa indipendente (e conservatrice), a cominciare dal Corriere della Sera, si occupa d’altro e dà scarso rilievo in prima pagina.

Quanto all’Unità, in tutto il periodo più acuto della battaglia per le pensioni, le sue prime pagine sembrano stampate sulla Luna. Si concentrano sulla opposizione alla guerra del Vietnam, chiedono con grandi articoli il disarmo della polizia, attaccano furiosamente il governo e, al suo interno, l’arrendevolezza dei socialisti. Le pensioni sono sempre in secondo o terzo piano. Il 1 maggio, accanto a un grande titolo che esorta i lavoratori alla mobilitazione antiamericana, il quotidiano comunista pubblica la foto di un corteo operaio contro la riforma delle pensioni che agita il cartello “no al progetto governativo“. Poiché è evidente la soddisfazione della stragrande maggioranza dei sindacalisti, l’Unità tende alla fine a sostenere la tesi che nella riforma c’è qualcosa di buono e che quel qualcosa di buono è frutto degli emendamenti al progetto originario imposti al governo grazie alla dura opposizione del PCI.

Stessa situazione per lo Statuto dei lavoratori. Cosa scriveva l’Avanti! e con quale entusiasmo è già stato ricordato nelle pagine precedenti. Il Corriere della Sera gli dedica, senza commenti, un titolo a tre colonne in basso nella prima pagina. I deputati comunisti non lo votano e il titolo a tutta pagina dell’Unità grida. “Più dura la lotta per le riforme. Oggi Toscana, Sardegna e Lombardia in sciopero generale“. Grande rilievo hanno le cronache sulle perdite americane in Indocina. Per lo Statuto dei lavoratori, c’è lo spazio più modesto: solo un richiamo a due colonne nel quale si leggono queste poche righe. “La lunga battaglia dei comunisti e del movimento operaio per l’affermazione dei diritti costituzionali nelle fabbriche ha portato a un primo risultato anche sul piano legislativo. La Camera ha infatti approvato ieri definitivamente lo Statuto dei lavoratori. La legge contiene però gravi lacune: il PCI si è astenuto”.

Sembra quasi incredibile. Si rinnova in modo epocale il sistema pensionistico; cambiano le aspettative di vita e di reddito per milioni di lavoratori dipendenti; si rinnovano le regole per i rapporti di lavoro nelle fabbriche e negli uffici. Ma i grandi media non se ne accorgono. Neppure il quotidiano comunista che vuole essere il simbolo dei lavoratori e-appunto-della loro “unità”.

La spiegazione è ovviamente semplice. I conservatori e i comunisti hanno accusato il colpo e hanno pertanto cercato di minimizzare. I primi remavano contro perché temevano si andasse troppo a sinistra. In Parlamento si opponeva alle riforme la destra politica (MSI) e la destra economica (il PLI di Malagodi). All’interno della DC, molti frenavano e masticavano amaro. Nenni ad esempio così commentò nel suo diario l’approvazione in Consiglio dei ministri dello Statuto dei lavoratori. “Nei cinque anni della precedente legislatura, il ministro democristiano del Lavoro Bosco era sempre riuscito a bloccare la riforma. E’ per Brodolini e per il partito una bella vittoria.”

Quanto ai comunisti, ogni vittoria del riformismo era, ovviamente, una sconfitta del loro massimalismo. Pertanto la ostacolavano o sminuivano quando alla fine le riforme venivano realizzate.

Per tutti gli anni ‘60, questa è stata la situazione che il centro sinistra ha dovuto affrontare. Specialmente il partito socialista si è trovato stretto da una tenaglia: da una parte il PCI e il suo estremismo, dall’altra l’opposizione (o il freno) della destra e della Confindustria, con il sostegno ora coperto ora esplicito di una parte della DC.

Particolarmente paradossale è stata la resistenza del PCI contro le riforme. I conservatori infatti sempre e con coerenza le hanno criticate, sino a oggi. I comunisti allora le ostacolavano perché dichiaravano di ritenerle troppo moderate; i post comunisti, negli anni ‘90 e 2000, hanno concorso a smantellarle perché le ritenevano troppo ambiziose o comunque insostenibili. Il che purtroppo conduce a un’altra considerazione, molto amara. Perché ritenere troppo ambiziose le riforme degli anni ‘60 non è purtroppo sbagliato. Il Paese è invecchiato, ha perso competitività, affonda nella palude di una stagnazione economica senza fine. Non può più permettersi quanto era invece possibile ai tempi dello sviluppo e dell’ottimismo. Il “yes, we can” di allora sta diventando il “no, non possiamo più permettercelo”.

La tenaglia che ha stretto il primo centrosinistra non è stata un caso eccezionale, bensì un trend costante della nostra storia, che solleva una riflessione più generale. Sempre abbiamo avuto periodi di progresso e di libertà caratterizzati dall’alleanza tra una sinistra democratica e un centro modernizzatore. Sempre queste stagioni felici sono state travolte dalla tenaglia degli opposti estremismi, aprendo anni bui.

Dall’inizio del ‘900 alla prima guerra mondiale, la belle epoque è stata accompagnata non da una alleanza, ma da una sostanziale convergenza tra Turati e Giolitti. Il massimalismo diciannovista e comunista a sinistra, Il fascismo emergente a destra, hanno aperto il Ventennio che conosciamo.

Negli anni ‘60, abbiamo avuto il centro sinistra Moro-Nenni prima ricordato. Travolto dagli opposti estremismi che sono poi diventati gli opposti terrorismi (rosso e nero).

Negli anni ‘80, abbiamo avuto il nuovo centro sinistra non di Moro e Nenni ma di Craxi, della DC e dei laici. Un periodo di sviluppo cancellato da Mani Pulite e dal conseguente ritorno alla ribalta degli ex comunisti (questa volta in abito non massimalista ma giustizialista) e degli ex fascisti. Il disastro di oggi è ancora il fall out di quel ritorno. Con M5S che è un mix peronista tra vetero comunismo e antipolitica di destra. Con Salvini e la Meloni che conosciamo. E con una aggravante. Gli opposti estremismi non sono più così opposti perché, sia pure per un solo anno, si sono alleati. Soprattutto, sono diventati la maggioranza assoluta dell’elettorato.

I riformisti dovrebbero ragionare sul fatto che, tra quelle fortunate sopra ricordate, la stagione degli anni ‘60 è stata la più incisiva e intensa. Dal 1962 al 1969 (il periodo più innovativo) le realizzazioni sono arrivate a un ritmo straordinario, ma il 1969 è stato, grazie proprio a Brodolini, quello dove la rapidità si è dimostrata addirittura sensazionale: entro l’estate di quell’anno, abbiamo avuto la sicurezza sociale con le pensioni (il pilastro del welfare State) e i diritti dei lavoratori in fabbrica (con lo Statuto). L’accelerazione è stata anche prodotta da una triste vicenda umana. Brodolini sapeva di avere i mesi contati ed era impegnato in una gara di velocità contro la morte. Fin da giovanissimo, lo si era visto sempre con la sigaretta tra le dita. La voce era diventata roca. Nel 1967, fu operato per un cancro al polmone, ma presto il male era ricomparso. La sua lotta per sopravvivere quanto bastasse per portare a termine il suo sogno riformatore ebbe qualcosa di eroico. A proposito delle pensioni, il vecchio Nenni scrisse nel suo diario.

“C’è un aspetto commovente in questa riforma. Gli dà il proprio nome Brodolini che a giudizio dei medici ha ormai pochi mesi di vita”. In effetti, l’ultimo discorso pubblico di Brodolini, pronunciato con voce rotta, fu quello alla Camera per chiedere il voto definitivo sulle pensioni. Era il 30 aprile 1969. Sarebbe morto l’11 luglio a Zurigo, dove era andato per tentare un ultimo intervento chirurgico. Ancora il diario di Nenni, nella sua sintesi estrema, ci dà di lui il ricordo forse più diretto. Perché i diari di Nenni non erano scritti per essere pubblicati immediatamente, non tacevano le debolezze umane (o le incomprensioni), parlavano non il linguaggio ridondante della retorica, ma quello semplice della verità. “Brodolini- scrive Nenni- è morto questa mattina alle 4 a Zurigo dove si era recato per tentare di arrestare il progresso del cancro che lo divorava. Da due anni e mezzo, da quando lo avevano operato, si trascinava tra miglioramenti e ricadute. Ex azionista, era venuto al partito nel 1947. Aveva dato un contributo notevole.

Con me era affettuoso e polemico al tempo stesso. Mi rimproverava di avergli preferito Corona come ministro nella precedente legislatura. In verità, non gli avevamo preferito nessuno e mi ero attenuto alle designazioni dei gruppi. Sei mesi fa era diventato ministro del Lavoro. Portava nel volto i segni del male che lo divorava; malgrado questo è stato un eccezionale ministro e ha legato il suo nome a due leggi importanti: le pensioni e lo Statuto dei lavoratori. L’ultima volta che l’ho visto è stato al Consiglio dei Ministri, allorché presentò la legge sui diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Era pelle e ossa, un cadavere. Tale lo ricordo al Comitato Centrale di maggio. Una lettera, al tempo stesso amare fiera, che mi scrisse l’1 luglio, può essere considerata il suo testamento politico. Era senza dubbio un valoroso compagno”.


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