GLI DÈI CADONO, QUELLI VERI.

FIGURARSI QUELLI INVENTATI !

Gli dèi cadono. E la caduta è diventata sempre più rapida e misera. Sono caduti gli dèi della grande civiltà greca, che litigavano come gli uomini. Sono caduti gli dèi del Novecento, i grandi dittatori postisi come nuovi dominatori del mondo. Cadranno, non sappiamo se con rumore o senza ma cadranno, gli autocrati e i dittatori del nostro tempo, nuovi interpreti di vecchie ambizioni di dominio imperiale su un’umanità che ha conosciuto il sapore delle libertà e che, nelle crisi che ne sconvolgono la vita, non potrà sopportare a lungo tutte le angherie che con le dittature fanno coppia.

Cadono ora sotto i nostri occhi gli dei immaginari, i piccoli capi che si sono posti come regolatori delle vicende delle nostre democrazie. Tutto sembra dover passare per le loro mosse. Lo stesso sistema democratico sembra doversi assoggettare alle loro manovre. Dovremmo persino credere a ciò che teorizzano per le loro esigenze di potere. La teoria che ora si cerca di affermare come verità indiscutibile è infatti quella del bipolarismo: la democrazia non può fare a meno di due poli, dicono, anche se sono alleanze senza progetto, prospettive in reciproco perenne conflitto. Ma la storia ci dà altre lezioni, la realtà altre indicazioni.

La storia. È nota la convinzione di Hannah Arendt che un sistema totalitario si mantiene nella misura in cui ha a che fare con degli atomi, non se ha a che fare con una società civile autentica, che ha le sue strutture e si fonda su una rete di relazioni. Ne era convinto anche Aleksej Naval’nyj che, riscoprendo le ragioni della grande tradizione del dissenso russo contro il sistema sovietico, affermava che la lotta a un sistema dittatoriale comincia nel momento in cui l’individuo smette di essere un atomo e assume il coraggio e la responsabilità della sfida facendosi società civile.

La condizione essendo, diceva, l’uscita dallo scontro ideologico e la distinzione tra “le convinzioni”, per le quali si può anche decidere di sacrificare la vita, e “le idee che ti girano per la testa”, per le quali invece vale la pena verificare se possono cambiare le cose.

Lo scontro frontale fra due sole prospettive si traduce in limitazione e perdita di libertà. Lo sapeva anche David Hume, il grande filosofo scozzese che probabilmente per primo vide nella molteplicità degli Stati il vantaggio dell’Europa rispetto alle altre parti del mondo e nel principio stesso di divisione la possibilità di unità che fa la forza. Purché poi gli uomini abbiano l’intelligenza e la capacità etica e politica di tradurre la pluralità appunto in unità che funziona.

I pensatori del Settecento hanno tentato di capire in profondità i vantaggi della diversità rispetto alle visioni totalizzanti e omologanti di origine medievale.

E hanno indagato diversi campi di realtà, a partire da quello che per tanti secoli aveva condizionato la vita delle comunità e che anche dopo la formazione dello stato moderno aveva dimostrato di quale forza distruttiva potevano essere carichi i suoi principi se non controllati, il campo delle religioni.

Così Voltaire, dopo un soggiorno in Inghilterra, avendo osservato i vantaggi della pluralità, così si esprimeva: “Se in Inghilterra ci fosse una sola religione, ci sarebbe da temere il dispotismo; se ce ne fossero due, si taglierebbero la gola; ma se ce ne sono trenta, vivono in pace e felici”. Commenta Tzvetan Todorov, filosofo bulgaro naturalizzato francese, in un bel saggio dedicato allo “Spirito dell’illuminismo”: “La pluralità comincia con il numero tre e implica che un’autorità esterna, dunque non religiosa, assicuri la pace tra loro”.

Possibile che queste riflessioni non contino niente? Possibile che le classi dirigenti si comportino come chi pensa di far ricominciare sempre daccapo la storia degli uomini qualunque sia la condizione che la realtà squaderna davanti ai loro occhi? La domanda balza su da sola dal fondo della mente assistendo alle vicende dello sfaldamento dei partiti leaderisti da cui alcuni vorrebbero teorizzare l’indispensabilità, quasi la sacralizzazione, del bipolarismo, addirittura del bipolarismo all’italiana, che nel panorama internazionale è una cosa strana come l’ircocervo.

Non si ha nemmeno la percezione che una cosa sono i leader, che sono necessari e quando mancano si sente e si vede. Altra cosa è il leaderismo, il comportamento da leader di chi leader non è. Perché leader vuol dire farsi interprete dei bisogni di una comunità, qualsiasi comunità e, in senso più pieno, di un popolo o di una comunità di popoli.

A dire il vero lo spettacolo dei partiti leaderisti nostrani che si sfaldano è una lezione di storia e di politica e suscita nello stesso tempo pena e speranza. Una lezione di storia: M5s nasce con il vaffa di un leader improvvisato che si costruisce il suo partito e finisce nel vaffa della sua creatura che gli soffia il partito. Renzi e Calenda, anche loro capaci di costruirsi il proprio partito ma incapaci di superare il proprio ego, vedono ora sfaldarsi sotto i loro occhi le loro creature. La storia, lo abbiamo visto, lo aveva già detto: la politica in democrazia è necessariamente plurale, ma non è un collage.

Suscita pena: la storia indica gli errori solo se la si vuole capire o si è in grado di capirla, e la realtà punisce inevitabilmente, prima o poi, chi la ignora. L’Italia ha bisogno di riforme. I partiti tradizionali le ritardano o le bloccano. Se nasci per farle e poi tradisci, la realtà cerca altre strade. Suscita però anche speranza: dimostra che la strada per riarticolare la politica, una volta liberata dall’asfissia di leader chiusi in sé stessi, che usano i partiti per esaltare il proprio ruolo e non per unire le forze su un progetto di riforma, resta aperta.

Appunto aperta, purché non si pensi e non si accetti l’idea che il bipolarismo sia la regola universale e condizionante della democrazia. Niente scontro ideologico dice Aleksej Naval’nyj, la nuova politica è l’uscita dall’individuo come atomo sociale, monade leibniziana, ciò che favorisce i sistemi autoritari. Pluralità è fondamento di unità più di quanto non lo sia una unità che esclude le altre, e perché pluralità ci sia non bastano due soggetti, ce ne vogliono almeno tre, ricorda Tzvetan Todorov, sennò lo scontro deleterio e sanguinoso è assicurato. La nuova politica non è scontro permanente, abbiamo bisogno d’altro. Sotto ogni latitudine.

Forza, all’opera dunque, questo è lo spazio nuovo, sembra dirci la realtà di oggi: “E pluribus unum” è il motto del primo stemma degli USA. Un grande insegnamento che gli USA però stanno dimenticando, ed è un delitto. Perché noi europei che, come Hume aveva visto, abbiamo il vantaggio di poter fare unità dalle differenze, dovremmo rinunciarci? Dall’unità degli Stati agli Stati Uniti dunque per noi europei è un obbligo. E perché noi italiani, che delle differenze facciamo da sempre la nostra forza, dovremmo adattarci all’idea che queste differenze le mettiamo a frutto chiudendole in gabbie precostituite a vantaggio di piccoli litigiosi leader senza visione e senza progetto? Meglio ragionare sui lasciti della storia, riallacciare le fila di discorsi interrotti, recuperare le disaffezioni, e vedere se è ancora possibile dare casa a una politica che sia degna di chiamarsi così.


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